I Missionari e le Missionarie della Consolata non sono unite solo da un nome, ma da un impegno, un carisma, una storia e un sogno comune che si chiama Missione. La cronaca di un incontro e una esperienza vissuta assieme.
Come previsto dal programma del Gruppo dei Missionari con 50 anni di ordinazione, lunedì 10 aprile doveva essere trascorso a Nepi. La partenza dalla Casa Generalizia era prevista per le 7.30 del mattino. Per raggiungere in fretta l’autobus abbiamo sceso le scale che dal giardino di casa porta direttamente in via delle Fornaci. Tutto perfetto tranne che per padre Guillermo Narváez che, fedele alla sua tradizione, è caduto... grazie a Dio senza nessuna conseguenza grave. Alle 8.00 siamo alla fine partiti per raggiungere Nepi un'ora dopo: lì ci aspettavano le Missionarie della Consolata.
Dopo i saluti e una tazza di caffè ci siamo trovati con la comunità locale delle suore per una breve presentazione seguita da un lavoro di gruppo che era guidato dalle seguenti domande: qual è l'attualità del nostro carisma ad gentes? La consolazione, se sì, perché? Come trasmettere il carisma alle nuove generazioni di missionari e missionarie?
Alle 11.30 si è svolta la celebrazione della Santa Messa, presieduta da p. Antonio Gabrieli, missionario italiano che lavora in Argentina. La sua omelia, molto bella, si riferiva alla liturgia del lunedì di Pasqua sulla prima apparizione di Gesù risorto a Maria Maddalena.
Nel primo pomeriggio, dopo la presentazione delle suore che non avevamo conosciuto la mattina perché intente a preparare il pranzo gustoso che le nostre sorelle ci hanno offerto, è stata la volta della presentazione delle nuove presenze missionarie in Asia: Suor Simona, la Superiora generale, ci ha spiegato l'origine e lo sviluppo di queste nuove presenze. Poi abbiamo ascoltato la testimonianza vissuta e sentita di alcune suore che lavorano in Kazakistan e Kirghizistan. Le due missioni, pur trovandosi in due Paesi diversi, non sono molto distanti geograficamente perché si trovano vicino al confine comune tra i due Paesi. Anche la lingua russa è comune alle due comunità.
Le suore non sono lì da molto tempo e in entrambi i Paesi la percentuale di cristiani cattolici è minima. Ma sono state accolte molto bene e rispettate dalla gente, anche se, come ci si aspetterebbe, vengono poste loro molte domande sulla fede cattolica, sul perché non si sposano, sul perché si vestono così, ecc. Siamo rimasti molto colpiti ed edificati. Chissà se il nostro Istituto maschile, in occasione del prossimo Capitolo generale, seguirà l'esempio delle suore.
Alle 15.00 siamo arrivati al Santuario di Maria "ad Rupes", che si trova a pochi chilometri da Nepi e abbiamo fatto una visita guidata. Il culto della Vergine Maria è iniziato nel VI secolo con l'arrivo di un gruppo di monaci, guidati da Sant'Atanasio. Per raggiungere il santuario si può salire per 144 gradini piuttosto ripidi. Coloro che non hanno voluto affrontare i gradini hanno fatto una strada più lunga accompagnati dalla guida, altri, gli scalatori più entusiasti, hanno imboccato la gradinata ma sono arrivati quasi tutti con la lingua fuori. Dopo la visita, alle 16.30, abbiamo ripreso la nostra strada per Roma. Un sentito grazie alle Suore Missionarie, al padre Generale e al gruppo di collaboratori che hanno organizzato questo bellissimo incontro e la visita al Santuario.
* P. Jaime Díaz Cadavid è Missionario della Consolata colombiano
Vi propongo S. Giuseppe in particolare come modello di fedeltà e di vita interiore. Egli non ha fatto miracoli, non ha predicato, eppure fu così santo perché fu umile e fedele alle piccole cose. Fedeltà alle piccole cose, questo è il segreto delle comunità. La grazia che gli ho domandato per voi è di avere una fedeltà ferrea, fedeltà dal mattino alla sera, senza perdersi d’animo (...) Questa deve essere in voi una devozione “incarnata”. Dopo nostro Signore e la Madonna viene S. Giuseppe, senza cercare altri. (Così vi voglio, n. 190)
Questa pagina, che raccoglie riflessioni del Fondatore a proposito di San Giuseppe, è scritta con un linguaggio semplice ma contiene molti spunti, vorrei sottolinearne due che mi sembrano utili per illuminare la nostra vita missionaria.
Di Giuseppe la prima cosa che possiamo dire è che non parla niente, non si ricorda nel vangelo una frase detta da lui, ma dice comunque tante. Possiamo imbatterci in una infinità di libri su di lui ma nel vangelo non si ricorda nemmeno una sua parola. Eppure, come ricorda un sacerdote, “di Giuseppe non sappiamo come parlava ma sappiamo bene come pensava, cosa sognava e cosa faceva, e questo non è poco”.
Una prima immagine che possiamo prendere per la nostra vita, come ci ricorda anche il Fondatore, è la fedeltà alle piccole cose. Nella vita non ci capita tutti i giorni di fare grandi scelte o fare gesti forti, ma nella vita siamo chiamati al tran tran quotidiano e magari a ripetere tante cose, per tanto tempo e per tanti anni. Il Fondatore ci invita a valorizzare queste piccole cose perché il segreto sta nel modo come le affrontiamo. Far bene le piccole cose, con amore ed entusiasmo, è pur sempre fare qualcosa di grande. Quindi in questo tempo nel quale siamo alla ricerca di scelte coraggiose ed opzioni radicali non dimentichiamo che tutto questo, anche il martirio come la donazione della vita, nascono dalle scelte quotidiane, dal coraggio di accettare il quotidiano. Quante volte sogniamo qualcosa di diverso che non abbiamo e non ci accorgiamo dei fratelli e delle sorelle, delle circostanze e del lavoro che abbiamo lì. Giuseppe ci insegna la fedeltà a queste cose.
Un altro elemento che mi sembra forte nella persona di Giuseppe è la sua forza davanti alle sofferenze e alle crisi della vita che anche lui ha dovuto affrontare. Giuseppe si è trovato in notti oscure e di sofferenza. Immaginate la crisi quando scopre che la sua sposa è incinta e che lui, secondo la legge, avrebbe dovuto denunciarla per farla lapidare. Deve aver vissuto una crisi profonda con la volontà di Dio che gli chiedeva qualcosa di umanamente difficile da accettare e con la sua legge che gli stava chiedendo qualcosa che non avrebbe voluto fare. La storia di Giuseppe non comincia come una favola ma è sofferenza, sacrificio, lotta, combattimento. Assieme a Maria si trova a vivere un progetto che cambia tutti i loro progetti.
Questo mi fa pensare alla sofferenza nella missione: le incomprensioni e le difficoltà che oggi non ci fanno vivere bene il nostro carisma; lo scoprirci in qualche occasione inadeguati, in affanno e in ritardo su tante cose; l’impedimento di non capire sempre bene questo mondo, la nostra comunità, quello a cui siamo chiamati. La sofferenza anche di vivere l’eucaristia nei momenti più complicati quando abbiamo a che fare con situazioni pesanti e dure.
Eppure Giuseppe era un uomo giusto che ha sognato le cose di Dio e ha saputo viverle e metterle in pratica. Anche questo elemento fa parte della nostra vita. In tanti anni di servizio all’Istituto ho trovato missionari entusiasti ma anche missionari amareggiati e delusi, e queste sono le crisi profonde che dobbiamo affrontare con la forza, il coraggio e l’onestà di Giuseppe. Giuseppe non è un santo facile, ha dovuto affrontare l’oscurità e la sofferenza ma l’ha fatto con la gioia del dono totale di se al Signore.
Anche noi cerchiamo allora di essere uomini giusti e, come Giuseppe, disposti a fare i sogni di Dio e la sua volontà. Chiediamo il coraggio, anche nei momenti difficili, di andare avanti nella missione sapendo che stiamo vivendo qualcosa che è molto più grande di noi.
* Padre Stefano Camerlengo è Superiore Generale dei Missionari della Consolata
Il dottor André Siquiera, specialista in medicina tropicale, è arrivato nelle terre dove vivono gli indiani Yanomami lunedì 16 gennaio. "Il nostro obiettivo era fare una diagnosi rapida della situazione e creare un piano d'azione con il Ministero della Salute e i leader Yanomami per mitigare o risolvere questi problemi", Visibilmente colpito, il medico ha confessato che è molto difficile affrontare questa situazione, che descrive come "catastrofica" e "disastrosa". "Assistere a questo livello di sofferenza –ha detto– è una esperienza molto pesante. Quando è il momento di affrontarlo, lo facciamo, come se avessimo il pilota automatico. Ma è solo dopo quando ci si rende conto di quanto sia drammaticca la situazione". (intervista a BBC News Brazil)
Il giornalista Wilker Oliveira, introducendo l’intervista a padre Corrado Dalmonego, Missionario della Consolata descrive in questi termini ciò che sta accadendo nella più estesa riserva indigena del Brasile: “Nella comunità Yanomami, c'è in corso una crisi umanitaria senza precedenti legata allo sfruttamento illegale delle risorse minerarie (garimpo), la denutrizione, l’epidemia della malaria, la mancanza delle medicine più elementari, la corruzione, l’abbandono da parte dello stato... solo l’anno scorso sono morti di fame e polmonite 99 bambini Yanomami.
Nel seguente video, in portoghese, ascoltiamo l’intervista al padre Corrado
Solo sei mesi fa abbiamo celebrato il centenario della conferenza di Murang’a che ha tratteggiato alcuni aspetti fondamentali del nostro metodo missionario fatto di vicinanza, incontro, dialogo e accompagnamento. Anche oggi la missione, che nasce dall’incontro con Cristo e con i poveri, ci aiuta a definire la nostra identità e a superare i rischi dell’autoreferenzialità. Anche oggi il missionario e la missionaria, alla luce dello Spirito, devono essere audaci e creativi, per ripensarsi al servizio di una missione, urgente come prima e come sempre, ma con caratteristiche ed esigenze nuove come le seguenti:
1. una missione del piccolo resto: il fermento nascosto nella massa di un mondo conflittivo;
2. una missione che deve dare una risposta di spiritualità alla ricerca del sacro e alla nostalgia di Dio;
3. una missione di testimoni della trascendenza e presenza di un Dio compassionevole e misericordioso in società pluralistiche;
4. una missione chiamata a rendere visibili i valori del Vangelo nell’impegno con i poveri, con la giustizia, partecipando ai movimenti che lavorano per la pace, per l’ecologia e per la difesa dei diritti umani;
5. una missione che diventa presente nei posti di frontiera, al servizio degli emarginati, per testimoniare il progetto di Dio e denunciare tutto quello che a lui si oppone;
6. una missione che favorisce la creazione di comunità nuove più semplici, oranti, fraterne, vicine al popolo;
7. una missione che testimonia una nuova umanità a partire dall’impegno con le persone, con i loro diritti umani, con la giustizia in relazione reciproca di genere.
A tutti e a ciascuno: coraggio e avanti in Domino!
Carissimi Missionari e Missionarie, per l’anno 2023 abbiamo scelto, come nostro patrono, il Beato Carlo Acutis. Il motivo che ci ha indotto a tale scelta è stata la sua vita semplice e profonda, l’amore appassionato all’Eucaristia, la frequentazione assidua della Parola, il rapporto intimo e delicatissimo con Maria, l’attualità della sua persona e della sua esperienza, l’approccio fruttuoso e maturo al mondo della comunicazione come dimensione da abitare, ove seminare il Vangelo.
Fin da piccolo Carlo manifesta una caratteristica tipica del suo carattere: una grande curiosità sul mondo che lo circonda, sul mistero della vita e specialmente riguardo le questioni di tipo religioso. La sua curiosità si accompagna a un’intelligenza viva e propositiva. Carlo si appassiona al mondo del computer, lo studia, legge libri di ingegneria informatica e, quando riesce a carpire i segreti della rete, utilizza la sua conoscenza per aiutare i suoi amici, specialmente i più deboli.
All’età di sette anni riceve la prima comunione. Da allora, secondo il racconto della mamma, «non mancò mai alla messa quotidiana e alla recita del santo rosario». E’ fortemente innamorato dell’Eucaristia da divenirne un vero apostolo, non solo presso i suoi amici, i suoi coetanei e i più piccoli, quando ne diventa catechista, ma anche verso la sua comunità, manifestando una delicata sensibilità cristiana che diventa una delle più affascinanti caratteristiche della sua vita. L’adolescente Carlo Acutis con parole semplici, ma molto significative, amava ripetere, come fosse uno slogan: «L’Eucarestia è la mia autostrada per il Cielo».
Purtroppo, la storia terrena del giovane Carlo non dura a lungo. Agli inizi di ottobre del 2006 si sente male. Inizialmente si pensa sia una semplice febbre oppure una normale influenza, ma il persistere dei sintomi e le successive analisi mediche portano a una diagnosi infausta: leucemia di tipo M3, incurabile. Carlo viene ricoverato nell’Ospedale San Gerardo di Monza. Nei giorni del suo ricovero, nonostante i forti dolori che lo affliggono, Carlo non si lamenta mai, anzi, alle infermiere che gli chiedono come sta, egli sempre risponde: "Bene, qui c’è gente che sta peggio di me". Conscio della sua prossima fine, fa la sua ultima offerta: "Offro al Signore le sofferenze che dovrò patire per il Papa e per la Chiesa, per non dover andare in Purgatorio e per poter andare direttamente in Paradiso".
Carlo amava ripetere: "La nostra meta deve essere l’infinito, non il finito. L’infinito è la nostra patria. Da sempre siamo attesi in Cielo", e spesso diceva anche: "Tutti nascono come originali ma molti muoiono come fotocopie". Per marciare verso questa meta e non dover "morire come una fotocopia", Carlo diceva che la nostra bussola deve essere la Parola di Dio, con cui dobbiamo confrontarci costantemente.
I suoi funerali sono una scoperta per gli stessi genitori: vi partecipano persone di ogni ceto sociale, soprattutto poveri, immigrati, bisognosi, ammalati, che raccontano un Carlo inedito. Egli è descritto come un giovane che si avvicinava a loro, li aiutava, li faceva sentire amati, ma il tutto nel nascondimento, senza farsi vedere neppure da sua madre. È un atteggiamento tipico dei santi. Chi ama Gesù nascosto nell’Eucaristia non può non amarlo sofferente nell’umanità.
La figura di Carlo Acutis non è legata a miracoli straordinari o atti di romanzesco eroismo. Egli è stato un giovane come tanti altri, tuttavia, nella sua normale giovinezza, ha saputo cogliere qualcosa che la maggior parte dei suoi coetanei ignorano del tutto: il potere e la grazia dell’Eucaristia. Fra le tentazioni del mondo che ammalia e ubriaca, Carlo è riuscito a sentire il sottile sussurro del Signore, che lo invitava ad una vita autentica e vera.
Nell’esperienza di Carlo ci sembra di ritrovare alcuni aspetti che il nostro Beato Fondatore ha vissuto e trasmesso ai suoi figli e figlie. Il Fondatore ci esortava ad essere “sacramentini”, ad avere un grande amore per l’Eucarestia e a celebrarla con devozione e dignità, ad identificarci con il Cristo nel Suo Mistero Pasquale. La recita giornaliera del Santo Rosario era per Carlo espressione di delicato amore per la Santa Madre di Gesù, di cui il Fondatore era innamorato e che ci presenta come nostra Madre tenerissima, la Consolata.
La passione sana e fruttuosa di Carlo per il mondo della comunicazione è un altro aspetto che, quali missionari e missionarie, ci interpella da vicino. Siamo consapevoli del valore della comunicazione per la nostra Famiglia Religiosa Missionaria, che ha come fine specifico l’annuncio del Vangelo ai non cristiani, e di come il mondo digitale possa offrire una grande opportunità di annuncio. Padre Fondatore fu un sacerdote convinto dell’importanza della comunicazione e fu aperto e attento ai mezzi del suo tempo. Non c’è dubbio che l’Allamano stimasse e sostenesse con convinzione il giornalismo cattolico.
Papa Francesco, nei suoi Messaggi annuali in occasione della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, evidenzia in più modi l’importanza della rete come mezzo attraverso il quale il messaggio cristiano può raggiungere nuove frontiere: «anche grazie alla rete il messaggio cristiano può viaggiare “fino ai confini della terra” (At 1, 8). Aprire le porte delle chiese significa anche aprirle nell’ambiente digitale, sia perché la gente entri, in qualunque condizione di vita essa si trovi, sia perché il Vangelo possa varcare le soglie del tempio e uscire incontro a tutti... La comunicazione concorre a dare forma alla vocazione missionaria di tutta la Chiesa, e le reti sociali sono oggi uno dei luoghi in cui vivere questa vocazione a riscoprire la bellezza della fede, la bellezza dell’incontro con Cristo».
Ci chiediamo, nel contesto del cammino missionario dei nostri Istituti, cosa significa per noi considerare la comunicazione digitale come uno spazio abitato da persone che noi possiamo raggiungere, spesso, solo abitandolo noi pure e interagendo in rete? Lo spazio virtuale non è necessariamente irreale, anzi, dietro ad uno schermo, dietro ad un cellulare, c’è sempre una persona con la quale possiamo entrare in relazione e alla quale comunicare il Vangelo. Se la comunicazione è un Continente, il Continente digitale, come lo chiama Papa Francesco, in quale modo siamo presenti in questo Continente? Come il nostro Carisma abita, feconda, si muove, intercetta l’ad gentes in questo Continente?
Chiediamo a Carlo di esserci vicino nel nostro cammino missionario e di intercedere presso Dio affinché gli occhi della nostra mente e del nostro cuore si aprano a riconoscere le vie della missione, oggi! Affidiamo pure alla sua intercessione i due Capitoli generali ormai alle porte, perché siano occasioni benedette di revisione e rilancio del cammino di santità missionaria di ognuno e ognuna di noi, di ogni nostra comunità, dei due Istituti, della nostra Famiglia Consolata!
*P. Stefano e Suor Simona sono i Superiori Generali dei Missionari e delle Missionarie della Consolata