Si avvicina il 24 aprile. Ci porta la memoria di S. Fedele da Sigmaringa e l'anniversario della richiesta fatta nel 1900 dall'Allamano al suo Cardinale di aprire il nuovo Istituto missionario. Abbiamo pensato di offrire questo studio di padre Igino Tubaldo circa il lungo e laborioso cammino verso l'apertura dell'Istituto. Deo gratias! (Buona lettura. Pietro Trabucco, IMC, Castelnuovo don Bosco)
“Era il 29 gennaio 1901 quando Giuseppe Allamano fondò l’Istituto Missioni Consolata. Vi lavorava da quasi un decennio, affrontando difficoltà di ogni genere. Figura importante e determinante nella chiesa torinese della metà Ottocento e primo ventennio del Novecento, il fondatore è quasi sconosciuto fuori di Torino e del Piemonte. In compenso, l’Istituto dei Missionari della Consolata ha messo solide radici in quattro continenti. Questo è il racconto della sua travagliata nascita” (P. Igino Tubaldo). Pubblichiamo di seguito l'articolo integrale.
Terminato il sessennio di servizio a Roma come Consigliere Generale dell'Istituto Missioni Consolata, la mia famiglia religiosa, torno in Brasile in attesa di una nuova destinazione missionaria. La Missione è partire: “Benedetto sia il Dio di ogni consolazione!” (cf 2 Cor 1,3)
L'opportunità di accompagnare e animare il nostro Istituto in questo ministero è stata una sfida e, allo stesso tempo, un grande dono di Dio. Per questo ripeto con l'apostolo Paolo: "Benedetto sia Dio... Padre di ogni consolazione".
Nella Direzione Generale ho trovato un clima di fraternità e di collaborazione, di responsabilità ed entusiasmo, tipico dello spirito di famiglia voluto dal Fondatore, il Beato José Allamano.
Ringrazio Padre Stefano Camerlengo per la fiducia e anche gli atri membri del Consiglio Generale, il Segretario Generale, l'Amministratore e la comunità della Casa Generalizia per il sostegno, la comprensione e la collaborazione.
Ringrazio in particolare ciascuno dei miei fratelli in missione, i superiori di circoscrizione e le comunità presenti in Asia, Africa, Europa e America. Un ringraziamento a ciascuno di voi che mi avete accompagnato in questo cammino, in particolare alla mia famiglia che è venuta a trovarmi nei giorni scorsi e alla comunità di Buriti, il mio paese natale, che è sempre nel mio cuore. Su tutti imploro le abbondanti benedizioni di Dio!
Durante questo servizio ho avuto la grazia di conoscere meglio la storia e la realtà attuale del nostro Istituto, la vita e l'opera del Fondatore, il nostro carisma e la nostra identità, i limiti e le possibilità della missione ad gentes vissuta e testimoniata da missionari coraggiosi distribuiti in molti contesti e realtà. È Dio l’artefice della missione, «che ci consola in tutte le nostre tribolazioni, affinché anche noi possiamo confortare coloro che si trovano in qualunque tribolazione, attraverso il conforto con cui noi stessi siamo consolati da Dio». (2 Cor 1,4)
Mosso dalla passione per Cristo e per l'umanità, ho cercato di mantenere la fedeltà e, soprattutto, la speranza, che non viene mai meno. Nonostante le sfide, la nostra vita è Missione. Come discepoli servitori, siamo chiamati ad essere sale della terra e luce del mondo; sacramento della misericordia, della consolazione e della pace. Non aspettatevi nient'altro da noi.
In breve, è stato un tempo di grazia, di crescita e di molte benedizioni per me e la mia famiglia religiosa. Per quanto riguarda i limiti e le difficoltà, chiedo umilmente perdono per gli errori e le incomprensioni. Al nuovo Superiore generale, padre James Lengarin, e ai compagni del Consiglio, auguro saggezza e coraggio per continuare ad animare e accompagnare il nostro Istituto nei prossimi anni.
Con la sensazione di aver compiuto il mio dovere, ripeto: Sia benedetto Dio per tutto! Possano la Madre Consolata e i nostri santi ispirarci e proteggerci.
Roma, 23 agosto 2023
*Jaime Patias è un missionario della Consolata del Brasile
Tutte le sfide che abbiamo davanti, nuove o non più nuove, tutto ci parla dell’urgenza della formazione: se come Istituto vogliamo andare avanti dobbiamo metterci tutti in formazione, incluso a costo di chiudere le missioni. Se passa questo messaggio credo che potremmo dire di avere raggiunto un obbiettivo importante, forse il più importante.
Poi c’è anche un altro aspetto organizzativo che preoccupa ed è quello della economia. In questo campo è particolarmente importante il tema della responsabilità. È necessario capire con chiarezza che in missione non siamo andati a far soldi e che quelli che la provvidenza mette nelle nostre mani sono per la buona realizzazione della missione e non per altre cose.
Ho tante cose da dire ai giovani per l’affetto che ho per loro e riconoscendo la difficoltà di donarsi al Signore e alla missione nel momento attuale. Principalmente mi sento d’indicare TRE esigenze, percorsi e cammini che considero fondamentali per aiutare la persona a donarsi, l’Istituto ad avere un senso, la grande famiglia della Consolata una credibilità di vita e di testimonianza.
1. IL CAMMINO DI CONVERSIONE. La prima di queste urgenze è quella di un reale cammino di conversione, un andare avanti sulle tracce di Cristo, senza mai sentirsi pienamente arrivati. Prima di ogni missione, di ogni diaconia, prima delle opere, è necessario un ritorno a Dio, un cambiamento di vita, una conversione sempre in atto. Giorno dopo giorno, dobbiamo essere disposti ad accettare la precarietà degli assetti rinnovando ogni giorno la decisione di amare l'altro senza reciprocità e incontrando gli uomini, gli ultimi, che si vogliono servire. Se un giovane entra in formazione e non si lascia convertire non ha futuro. Non si tratta semplicemente di una pia esortazione. Sulla piena disponibilità a questa conversione sta o cade la consacrazione alla missione. Vivere i voti è difficile. Piantiamola con il dire che nella vita consacrata e missionaria tutto è bello, quasi che non ci fosse un prezzo da pagare. Certe seduzioni creano facili entusiasmi che, alle prime difficoltà svaniscono come la neve al sole. La disponibilità all'azione dello Spirito Santo esige una lotta spirituale continua. Non ci può essere una consacrazione alla missione senza rinuncia, senza patire delle mancanze, senza soffrire. Per questo è fondamentale accogliere la conversione come una grazia, una purificazione, un cammino di vita.
2. LA PIENA UMANIZAZZIONE. Questo cammino di conversione dev'essere, però, accompagnato da una piena umanizzazione. Non dimentichiamolo mai: la consacrazione per la missione è vita umana, vissuta da persone che cercano di innestare la loro umanità nell'umanità di Gesù. È un innesto tutt'altro che semplice. Può avvenire solo attraverso un'arte del vivere, che esige spoliazione semplificazione, unificazione, ricerca di ciò che è essenziale per l'uomo d'oggi.
Molto spesso, ciò che ostacola la realizzazione sia personale come comunitaria, è la scarsa qualità umana. Il vero problema di tante comunità è la carenza di umanità: si ha a che fare con esistenze vissute senza passione, senza convinzioni profonde, senza sensibilità, senza bellezza, senza libertà interiore. Ma senza libertà, si diventa schiavi. Bisogna avere il coraggio di dircelo e di dirlo ai giovani: o la nostra vita di consacrati per la missione è un cammino di umanizzazione, diversamente non riusciamo a viverla. Come la conversione, anche l'umanizzazione è un cammino faticoso che attraversa tutte le fasi della vita.
3. LA VITA FRATERNA ESSENZA DELLA CONSACRAZIONE PER LA MISSIONE. Sia il cammino di conversione che quello di una piena umanizzazione, non possono non tendere alla comunione. Proprio il celibato chiede di essere vissuto in una vita di comunione, li dove l'amore fraterno sa anche vivere di distanza, di discrezione, di sobrietà, il rispetto della libertà di ciascuno, una vita che già di per sé è una profezia in atto. La vita fraterna è il fine e la ragion d'essere degli stessi voti religiosi. Nella misura in cui vuole essere memoria reale e concreta della comunità vissuta da Gesù, la vita fraterna diventa il dono per eccellenza dello Spirito. Anche se questa comunione comporta il mettere in comune i propri beni, l'abitare e il pregare insieme, significa soprattutto lotta contro l'individualismo o contro una vita comune che obbedisce a regole mondane. Una vera vita di comunione è una vita strutturata e regolata e dev'essere pensata in primo luogo come servizio reciproco, dove la prima opera è amarci gli uni gli altri perché solo allora Dio dimora in noi. In questo modo saremo riconosciuti come discepoli di Gesù con la missione nel cuore!!!
Proprio pensando al futuro, sarebbe opportuno, di tanto in tanto, guardare indietro, non dimenticando quel passo straordinariamente eloquente con cui Isaia si rivolge ai suoi figli (discepoli): «Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il suo volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui. Ecco, io e i figli che il Signore mi ha dato, siamo segni e presagi per Israele da parte del Signore degli eserciti, che abita sul monte Sion» (8,17-18).
Non dobbiamo temere. Ogni comunità può essere segno e presagio. Anche se l’Istituto sarà ridotto ad un piccolo “resto”, continuiamo a non temere. Sempre Isaia ci assicura che se anche restasse soltanto un ceppo, perché l'albero è abbattuto e tutti i rami e anche il tronco sono a terra, quel ceppo, dice Isaia, è un “ceppo santo” che continuerà a gettare virgulti e sarà “seme santo” (6,13)». Come il Signore non è mai venuto meno alla sua fedeltà nel passato, così sarà anche nel futuro. Ecco, è questa la consolazione!
Consolazione è fare i conti anche con le nostre fragilità e questo lo vediamo spesso quando ci avventuriamo nella missione. Ricordo un viaggio al nord dell'Argentina, nel periodo di Natale, che nell’emisfero sud è il periodo più caldo dell’anno e la temperatura era quasi insopportabile. Il viaggio era stato lunghissimo in parte perché l'Argentina è grande ma anche perché la strada era stata chiusa in più di una occasione da picchetti per qualche tipo di manifestazione.
Dopo ben 20 ore di viaggio ho raggiunto la parrocchia dove lavorava il padre Juan Domingo Varela e ci siamo preparati per celebrare il Natale in un villaggio chiamato “el pozo del tigre”. Sono venute sette persone in tutto; non c’erano nemmeno le suore che in quei giorni avevano la visita della superiora. Quando il giorno dopo sono andato a salutarle... nell’atrio della casa mi accolse una gigantografia di Ernesto Che Guevara.
Nella parrocchia vicina la nostra presenza è stata più utile perché il sacerdote incaricato della comunità non aveva celebrato la messa di Natale per andare a far festa con la sua famiglia. In cambio in quella chiesa abbiamo potuto contare con la presenza preziosa di una comunità di suore che giustamente a Natale ci hanno fatto cantare “tu scendi dalle stelle... e vieni in una grotta al freddo e al gelo!”.
Vorrei terminare questa mia riflessione con una riflessione di Marco Guzzi, tratto dal libro “Darsi pace”, titolato “Infinita consolazione”. Dice bene quello che ho vissuto o cercato di vivere in questi 18 anni di servizio all’Istituto.
Noi esseri umani abbiamo sempre bisogno di consolazione, anzi di un’infinita consolazione.
Abbiamo sempre bisogno di essere consolati, confortati nella nostra sofferenza strutturale, nella nostra fragilità, nella precaria giornata terrena. Non abbiamo bisogno di molto altro, ma solo di infinita consolazione.
Tutto dovrebbe essere finalizzato a questo scopo: il lavoro, la sapienza, ogni forma di compassione e di amore, siano modi per consolare, per dire all’essere umano: tu hai un grande valore. Non temere, non sei solo, e questa scarpata ripida e dolorosa ti sta portando sempre più prossimo alla gioia, a tutto ciò cui aneli, spesso senza nemmeno saperlo.
In questi anni non ho mai voluto essere proprietario della missione o il classico superiore che domina. Invece ho voluto essere il custode di un vocazione che ci accomuna, di un carisma che ci fa fratelli, di una missione che ci spinge a sognare le stesse cose. C'è uno slogan che ho attaccato alla mia scrivania ed è li da anni: un aforisma di Bertolt Brecht e dice “ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati”; solo chi non trova un comodo posto a sedere è capace di fare la rivoluzione.
Un'altra frase che mi ha accompagnato in questi anni l’avevo trovata in un libro di meditazioni. Diceva qualcosa di simile: "se per caso dalla vita dei missionari sparisse la parola amore oggi dobbiamo rimpiazzarla con responsabilità. Il nuovo nome dell'amore è la responsabilità.
Su questo punto dobbiamo battere molto: molti problemi che abbiamo sono legati spesso a una mancanza di responsabilità e su questo mi è sembrato importante chiamare l’attenzione di tutti i missionari. Essere responsabili significa prendersi a cuore le cose che facciamo; rispondere delle comunità o degli impegni che sono stati a noi affidati. Non si tratta di far sentire uno colpevole o innocente ma di richiamare ciascuno alla propria responsabilità: non possiamo rinunciare a questo se vogliamo vivere la nostra vocazione da adulti e non da bambini.
Un altro aspetto importante è quello di spostare la nostra consacrazione dal fare all’essere. La nostra vita è sempre stata molto attiva ma non possiamo lasciarla agganciata al fare. In questi giorni, con il corso per i missionari anziani, uno psicologo diceva precisamente questo: il problema dell'età avanzata diventa tale se ci siamo agganciati troppo al fare e poco all'essere. Quando le forze non ci sono più allora i missionari entrano in crisi se sotto non c'è un essere consistente. Se invece è importante l'essere, anche se sei anziano, potrai sempre trasmettere qualcosa.
Ce ne sono davvero tante, provo a riassumerle citando tre esperienze che mi hanno marcato nella relazione con missionari, tre con le comunità e tre con l’Istituto in generale
Una esperienza davvero forte fatta abbastanza recentemente è quella con l'ex padre Giuliano. Lui già un bel po’ di anni fa, in Venezuela, ha lasciato l'Istituto e messo su famiglia. Io tutte le volte che andavo in Venezuela lo cercavo. Poi proprio nel periodo più brutto di questo paese, con la crisi che si era aperta dopo la morte di Chávez, quando era diventato perfino difficile mettere qualcosa sotto i denti, mi arriva la notizia che Giuliano si era ammalato di un cancro all'esofago. In Venezuela, in quelle condizioni, era davvero destinato a morire. Mi è sembrato che non potevamo far finta di niente, lui era stato uno di noi, e allora l'ho fatto arrivare ad Alpignano dove è rimasto fino alla morte. Mi ha lasciato scritto delle cose molto belle, ha fatto veramente una esperienza mistica ad Alpignano. Poi abbiamo fatto venire anche le figlie quando era quasi alla fine; il cancro gli impediva di parlare ma scriveva ancora su un foglio. Alla fine è morto degnamente ed è stata per lui e anche per noi una esperienza di grande consolazione. Un caso analogo è stato quello del padre Giorgio, anche lui uscito tanti anni fa. Si era ridotto a vivere, cieco, in un appartamento da solo e così anche lui l'abbiamo portato ad Alpignano.
Poi stiamo accompagnando un padre che ha abbandonato l’Istituto con 72 anni, dopo una esperienza che non era mai stata affrontata per più di venti o trent'anni e che faceva star male sia il padre che la comunità. Adesso sta bene, è contento, ma con settanta due anni e non lo possiamo lasciare solo e quindi anche lui dobbiamo accompagnare.
È parte della vita e del servizio che mi è stato affidato dalla comunità: stare vicini a missionari che vivono esperienza forti. Per ultimo il caso del padre Rocco che a Milano che stava lentamente morendo di cancro, in età ancora abbastanza giovane e che, fino a poco prima, era ancora nel pieno delle sue attività. Che difficile trovare le parole giuste per dire a un confratello con il quale hai convissuto e fatto un cammino assieme “guarda, umanamente parlando la situazione che stai vivendo ha una sola uscita e quella è la morte, la medicina non può fare più niente per te”. Quando riesci a trovare le parole giuste allora senti il suo ringraziamento e quello della sua famiglia. Ho scritto loro quattro righe e queste sono state pubblicate nell’immagine ricordo che è stata distribuita in paese in occasione del suo funerale. È stata anche quella una esperienza di profondo dolore e di profonda consolazione.
Nelle comunità la consolazione è essenzialmente presenza, stare con, condividere e sporcarsi le mani con le situazioni che vivono i confratelli. Non finirò mai di ringraziare il Padre Eterno per tutta la esperienza che ho avuto modo di accumulare in questi anni spesi accompagnando i confratelli. È stato un dono e una bellezza incredibile.
Potrei ricordare il caso di Dianrá, quando la guerra civile della Costa d’Avorio stava volgendo al termine ma il paese continuava ad essere diviso e i nostri missionari del nord da mesi non vedevano nessuno. Sono arrivato in Costa d'Avorio con il primo viaggio organizzato dall'estero e devo essere stato il primo bianco ad attraversare quella frontiera interna che la guerra aveva marcato. È stata una vera avventura fatta spesso con mezzi di fortuna e spostandosi come si sposta la gente. Quando arrivai là che festa è stato quell’incontro e anche che mal di pancia... mi hanno dato da mangiare una specie di topo e ho vomitato l’anima, pensavo di morire.
Un’altra esperienza di vicinanza a missionari particolarmente provati è stata quella del Venezuela, ho accompagnato i confratelli durante una delle molteplici crisi che ha attraversato il paese, quando in strada c’era un sacco di gente arrabbiata e non si sapeva nemmeno bene che intenzioni avessero.
Altro ricordo: la missione di Luacano, in Angola. Una missione remota dove non c’era mai stata presenza missionaria prima di noi. Per arrivarci bisognava volare due ore dalla capitale fino a una città dalla quale partiva una ferrovia che portava, dopo otto ore di viaggio e attraversando zone paludose, fino a Luacano. Il treno era l’unico mezzo di trasporto, non c’erano strade per motivo della topografia della regione e sul treno viaggiava proprio di tutto. Se non compravi il biglietto con abbastanza anticipo non trovavi nemmeno un buco per metterti.
Un’ultimo ricordo, il viaggio da Toribío a Cali, con mezzi pubblici, per accompagnare un poco il padre Tarcisio Mayoral che era rimasto solo nella parrocchia del Santo Evangelio.
Un segno dell’attenzione comunitaria rivolta alle persone e alla comunità è stata la grandissima corrispondenza. Quanto non ho dovuto scrivere in questi anni! Forse il Superiore Generale che verrà dopo di me sarà una persona che utilizzerà altri modi di comunicazione, magari più audiovisuali, ma nel caso mio i messaggi scritti sono stati davvero tanti. Oltre alla corrispondenza personale –tante cose moriranno con me– le lettere ai missionari in occasione della professione perpetua e il diaconato e in occasione di eventi giubilari (anniversari di ordinazione e professione). Poi per la comunità i messaggi in occasione dell’anniversario della fondazione, la festa del Fondatore, la Pasqua, la festa della Consolata, la commemorazione dei defunti e il Natale. Le lettere alle distinte circoscrizioni alla fine delle visite canoniche o in circostanze particolari. Se dovessi raccogliere tutto, magari sarebbe bene farlo, ci sarebbe davvero un buon materiale per la riflessione e anche abbastanza voluminoso.
Tutto questo io l'ho vissuto e sperimentato come un gesto di consolazione.
Lo stesso profilo Facebook l'ho aperto e mi è servito per conservare contatti con tante persone, spesso giovani o ex giovani, che in questi anni ho accompagnato, incontrato, sentito, ascoltato in tanti modi e nelle più distinte comunità e luoghi geografici. Si ricordano, si creano agganci, ci si scambia saluti... cercare di rispondere a tutti questi messaggi, soprattutto in occasione delle feste, diventa quasi una impresa ciclopica ma è anche parte di un servizio bello prestato alle persone.
In questi anni è stato grande lo sforzo di organizzare meglio questo Istituto. Probabilmente non ci sono riuscito come avrei voluto e arriviamo a questo capitolo con molte delle domande che ci accompagnano quasi da decenni. Questa fatica io la vedo abbastanza legata alla identità del nostro Istituto, siamo molto più dediti al fare che al pensare ma questo ci ha impoverito moltissimo. Non sempre siamo disposti a metterci in gioco per pensarci, pensare diversamente il nostro futuro e costruire l’Istituto che lasceremo in eredità a quanti verranno dopo di noi. D'altra parte spesso ci avviciniamo a situazioni nuove con una mentalità un po' vecchia e questo certamente non aiuta.
È quello che è successo con il tema della Continentalità: come spirito abbiamo fatto molti passi in avanti, ma come organizzazione con certa consistenza giuridica ed organizzativa non siamo stati capaci di arrivare fin dove avremmo voluto. Tanti missionari si sono impegnati in tutto questo ma non so fino a che punto ci abbiamo creduto davvero.
Cari fratelli, in questo giorno celebriamo l’anniversario 97 della morte e della nascita al cielo del nostro Fondatore. 97 anni fa lui ha lasciato la sua vita terrena in modo particolarmente sereno. A quanti lo visitavano augurandogli una vita più lunga lui diceva che era giunto il momento di lasciarla per cominciare a fare dal cielo più di quanto “potrei fare per voi sulla terra. Sia fatta la volontà del Padre”.
Uno degli ultimi testimoni che l’hanno visto con vita ricorda che, sul letto di morte e in voce bassa sussurrava qualcosa... ed era l’Ave Maria. L’ultima parola che lui ha lasciato a noi missionari è stata l’Ave Maria. Come Gesù sulla croce che ha consegnato la Madre al discepolo amato.
Anche Gesù al momento di lasciare i suoi discepoli, la lettura che abbiamo fatto, li lascia con una eredità, un impegno, qualcosa che loro come chiesa avrebbero dovuto portare avanti... l’annuncio della parola fino alle estremità della terra.
Anche se questa è una comunità fragile, quella dei discepoli, Gesù consegna la sua stessa missione. Annunciare la Buona Novella.
Anche noi, come i discepoli, siamo chiamati a scacciare tutto quello che è contrario alla vita; a parlare “nuove lingue” e la prima delle nuove lingue è la lingua dell’amore; a superare i veleni che spesso, per mezzo di pettegolezzi, mettono in pericolo la nostra comunione come fratelli. lo diceva anche il Fondatore quando parlava dell’esame di coscienza serale... curare la nostra qualità comunitaria.
Come discepoli di Gesù e missionari dobbiamo preoccuparci specialmente delle persone ultime ed escluse, i poveri, gli scartati dalla vita, forse ne abbiamo anche fra di noi.
Il Fondatore diceva che il Signore aveva lasciato a lui “lo spirito” da comunicare alla sua comunità di missionari... quello spirito di semplicità, che apprezza le cose piccole, che vuole che tutto sia fatto bene.
Adesso che ci avviciniamo alla data importante del Capitolo Generale dobbiamo essere specialmente preoccupati per la nostra fedeltà allo spirito.
Il papa Francesco aveva scritto al nuovo superiore generale dei Gesuiti queste parole che di fatto danno una orientazione profondamente missionaria e profondamente evangelica: “Sii coraggioso! Informatevi ed uscite! abbiate il coraggio di incontrare l’umanità di oggi con i suoi problemi, la reale umanità e l’intera umanità senza selezionare quella che vorremmo e senza fermarci a quella che già conosciamo. chiedi il coraggio di pensare liberamente e anche il coraggio di pensare quello che non è ancora stato pensato. Il coraggio di non avere paura di scomodare il mondo e la chiesa, ma innanzitutto noi stessi”.
Queste riflessioni valgono anche per noi, anche noi dobbiamo essere coraggiosi e le nostre frontiere le detta l’Ad Gentes, i più lontani di tutti. Dobbiamo essere fermento nella massa.
Il Fondatore ci ha lasciato nel 1926 e allora c’erano solo177 missionari, tutti italiani e presenti solo in 4 nazioni. Oggi, 97 anni dopo, siamo 911 missionari, di 26 nazioni diverse e presenti in 29 paesi. Fin dal 1965 siamo stati almeno 900 missionari. È un numero significativo frutto della benedizione dello Spirito che “continua a parlare alla nostra comunità”... e noi dobbiamo continuare ad ascoltare. La passione per il Regno di Dio, l’amore per la missione, lo spirito più autentico dell’Allamano possa continuare presente nella nostra comunità.
* Padre James Lengarín é vice superiore generale dei Missionaro della Consolata