Un evento senza precedenti in Brasile: Sonia Guajajara è la prima donna indigena ad essere nominata ministro nella storia del Paese. Assume la direzione del "Ministero dei popoli indigeni", recentemente creato da Lula, l'attuale presidente del Brasile.

Realizzazione collettiva dei popoli indigeni

In occasione del traguardo della sua nomina, avvenuta nel dicembre 2022, Sonia ha espresso sul suo account Twitter il significato della sua nomina in un paese come il Brasile: "sono molto onorata e felice della nomina a Ministro. Più che di un risultato personale, si tratta di un risultato collettivo dei popoli indigeni, un momento storico del principio di riparazione in Brasile. La creazione del Ministero è la conferma dell'impegno di Lula nei nostri confronti".

Nel suo discorso di insediamento Sonia Guajajara ha ringraziato Lula "per il coraggio e l'audacia nel riconoscere la forza e il ruolo dei popoli indigeni, in questo momento in cui è così importante il loro protagonismo nella conservazione dell'ambiente e nella giustizia climatica".

Costruiremo il Brasile del futuro

Ricordando i 500 anni di resistenza dei popoli indigeni a situazioni di violenza, attacchi e violazioni dei loro diritti, e a partire dalla propria storia di vita, la nuova ministra dei Popoli indigeni, eletta deputata federale nelle elezioni dell'ottobre 2022, esprime il desiderio di "contribuire alla ricostruzione della democrazia del Paese".

“Noi indigeni –ha detto la ministra– siamo nelle città, nelle campagne, nella giungla, nelle professioni più diverse. Viviamo nello stesso tempo e nello stesso spazio di tutti voi, siamo contemporanei di questo presente e costruiremo il Brasile del futuro, perché il futuro del pianeta è ancestrale!".

Per quanto riguarda le sfide che i popoli indigeni devono affrontare in Brasile, ha parlato della necessità di pensare a politiche per la salute, i servizi igienici, l'istruzione, la sicurezza e la lotta contro le invasioni, l'inquinamento e la deforestazione delle riserve e dei territori ancestrali da parte degli accaparratori di terre e dei garimpeiros (raccoglitori illegali d’oro). "Le terre indigene, territori abitati da comunità tradizionali e altri popoli sono essenziali per fermare la deforestazione in Brasile e combattere l'emergenza climatica che tutta l'umanità deve affrontare", ha sottolineato in uno dei punti del suo discorso.

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Le autorità indigene celebrano il nuovo ministro

Ministero delle popolazioni indigene

"Oggi, con questo Ministero dei Popoli Indigeni, state assistendo a un passo ancora più grande e speriamo, con questo, di affermare la nostra esistenza e il nostro protagonismo. Il Brasile del futuro ha bisogno dei popoli indigeni. Tutto ciò che tradizionalmente viene chiamato cultura tra i brasiliani, per noi significa tutto ciò che siamo", ha detto Guajajara, riferendosi al fatto che questo ministero "appartiene a tutti i popoli indigeni del Brasile che sono un patrimonio del popolo brasiliano, perché ogni indigena vivente rappresenta un guardiano del clima e della Madre Terra".

Il nuovo ministro ha annunciato la creazione del Consiglio Nazionale della Politica Indigena, che garantirà la partecipazione paritaria delle rappresentanze indigene nazionali e gli enti del governo federale. Questo Consiglio includerà anche la Funai (Fondazione Nazionale dei Popoli Indigeni) che era stata creata nel 1967 per promuovere la salute, la protezione e lo studio delle comunità indigene del Brasile.

Concludendo il suo intervento Sonia Guajajara ha affermato che “non sarà facile superare 522 anni in solo quattro. Ma siamo pronti a riportare la forza ancestrale delle comunità indigene al centro dello spirito nazionale brasiliano. “Mai più un Brasile senza di noi!”.

La comunità della parrocchia di San Miguel Arcángel, nella località di Yuto, provincia di Jujuy (nord dell’Argentina), è una missione marcata da una forte interculturalità. La maggior parte della terra produttiva di questa regione, popolata da poco più di ottomila abitanti che vivono distribuiti nei villaggi di El Bananal, El Talar, Vinalito e Caimancito, è destinata principalmente alla coltivazione di canna da zucchero, avocado e banane. 

Dove sono le popolazioni indigene?

Se c'è una cosa che identifica chiaramente i popoli indigeni è la profonda integrazione con il territorio nel quale vivono e dal quale traggono il loro sostento: l'attività produttiva, necessaria per vivere, non è separata dal loro essere.

Questa prospettiva è fondamentale per comprendere le trasformazioni e gli adattamenti che i popoli indigeni subiscono quando gli Stati avanzano e occupano i loro territori con coltivazioni di carattere industriale. In questo caso il lavoro produttivo non è più solo destinato alla sussistenza, come succede con gli indigeni, ma acquisisce le caratteristiche dello sfruttamento intensivo, segno distintivo dell'economia capitalista.  

Per questo, quando si visita questa regione, al principio è difficile notare la presenza di popolazioni native perché si percepisce a primo acchito una comunità popolata da "cittadini argentini" che vogliono e devono essere inseriti nelle strutture di protezione statale e di assistenza sociale. Eppure si tratta di una società che è ben lontana dall'essere omogenea; la popolazione comprende creoli, collas, guaraníes, wichis, ocloyas, churumatas, chanés, tulián, tobas, tapiete e quechuas (provenienti dal Perù), tutti gruppi etnici la cui presenza è stata registrata nei censimenti nazionali del 2001, 2010 e 2022.

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Anche le popolazioni indigene sono in movimento

Secondo uno studio dell'Università di San Martín, la maggior parte della comunità indigena Guarani si è spostata negli ultimi 100 anni alla ricerca di un luogo che permetta loro di vivere secondo il loro peculiare stile di vita; si sono mossi alla ricerca di quello che chiamano “ñande reko”, la terra che permette loro di vivere in sintonia con la natura che li ha generati. 

Questa regione, originariamente caratterizzata da un fitto bosco di montagna con diversità di flora e fauna, aveva queste caratteristiche: consentiva caccia e raccolta, era attraversata da corsi d'acqua per la pesca e offriva anche terreni adatti alle coltivazioni.

La strategia di sopravvivenza dei Guaraní consisteva precisamente nell'addentrarsi sempre di più nella giungla per allontanarsi dalla frontiera tracciata dal disboscamento e dagli incendi. 

Questo non è più stato possibile quando lo sfruttamento della canna da zucchero ha ridotto drasticamente il terreno selvatico e boschivo, e a questo punto i Guaraní non hanno avuto altra alternativa che scambiare le loro terre con terreni prossimi alle incipienti città.

Riconosciamo il dolore che affligge queste persone, nella voce delle loro storie che abbiamo raccolto in un incontro con alcuni di loro: "non ci sentiamo Guaraní"; "ci vergogniamo e siamo feriti dall'abbandono"; "i datori di lavoro non ci danno il permesso di celebrare le nostre feste: non c'è tempo e a volte nemmeno il Comune ci concede uno spazio adeguato"; “abbiamo dovuto costringere i nostri figli a imparare lo spagnolo per superare molte barriere sociali; ora i nostri figli e nipoti riescono a malapena a parlare la nostra lingua".

Molte piccole persone, in piccoli luoghi, facendo piccole cose, possono cambiare il mondo (Galeano).

Nell'ultima conferenza dei Missionari della Consolata che lavorano in Argentina abbiamo sottolineato che uno spazio privilegiato “ad gentes” per la nostra comunità è il lavoro e l’impegno a favore dei popoli originari del paese. Per questo motivo è stata aperta la parrocchia di San Miguel Arcángel, con la sua peculiare e significativa composizione etnica. I padri Antonio Gabrieli, Antonio Merigo, Thomas Ishengoma, Pedro Togni, Roger Kiwuango, Juan José Olivarez e Iga, sono i missionari che hanno lavorato in questa missione.

Fare l'opzione preferenziale per i popoli nativi, è per noi un impegno qualificato che non significa abbandonare il resto della popolazione, ma crescere nell'interculturalità assumendo la differenza e la diversità.

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Linee pastorali

Attualmente, molto lentamente e con molti sforzi, stiamo passando da una missione "per" il popolo Guaraní a una "con" il popolo Guaraní. Insieme ai nostri collaboratori (catechisti e laici) vediamo la necessità di: 

- Fare processi di discernimento e riflessione per aprire spazi in cui la comunità e le persone si ritrovino in armonia con il Creatore, la Creazione e la Creatura.

- Impegnarsi in cammini di riconciliazione che rispondano all'alto tasso di suicidi di cui soffre la comunità. Cercare la riconciliazione con se stessi e con le famiglie.  

- Unire e armonizzare la fede con la vita quotidiana: vogliamo che la stessa catechesi per bambini rispetti il tempo necessario per un vero sviluppo spirituale. 

- Accompagnare i novenari dei defunti e rivalutare il ruolo della preghiera che, al momento della morte, è capace di celebrare la vita. 

Queste azioni sono il primo passo per un vero processo di evangelizzazione. Il carisma del beato Giuseppe Allamano ci invita ad accompagnare questi popoli in unità di intenti. Nel silenzio di chi non ha voce, possiamo imparare nuove parole per la vita. 

* Thomas Ishengoma e Juan José Olivarez sono missionari della Consolata in Argentina; Diana Sosa è insegnante

 

Partecipando al VII Simposio di Teologia india in Panama, dal 3 all'8 ottobre, padre Vilson Jochem ha rilasciato un'intervista esclusiva alla rivista Missões, parlando del lavoro con le popolazioni indigene e delle sfide della missione.

Padre Wilson, raccontaci la tua vocazione

Sono Vilson Jochem, sono nato in una famiglia di agricoltori nel comune di Atalanta, nell'interno dello Stato di Santa Catarina, in Brasile.

Quando parlo della mia vocazione, potrei dire, come San Paolo, che il Signore mi ha chiamato “fin dal grembo di mia madre”. Dico questo perché, dopo aver festeggiato i dieci anni di ordinazione, mia madre ha raccontato che quando era incinta di me, nelle sue preghiere chiedeva che se avesse avuto un figlio maschio sarebbe diventato sacerdote e la stessa richiesta l'ha fatta il giorno del mio battesimo.

Così che quando a scuola mi chiedevano cosa volessi fare da grande, la risposta normale era che sarei stato un sacerdote. In realtà quando avevo 13 o 14 anni ho cominciato a pensare di nuovo a questa possibilità: fu allora che cominciai a dire ai miei genitori che volevo andare in seminario.

E perché con i Missionari della Consolata?

Tutto indicava che sarei andato con i Francescani Minori, che erano quelli che lavoravano nella mia parrocchia. Eppure nel 1986 padre Dante Possamai passò dal collegio dove studiavo, parlando delle Missioni e chiedendo se qualcuno voleva essere missionario.

Ricordo bene quando dissi a mia madre: "per fare il prete non è importante il dove", decisi di scrivere a padre Dante e iniziai questo cammino vocazionale. Dio sa come fare le sue cose.

Raccontaci della tua formazione

Sono entrato nel seminario minore nel 1987. Nel 1990 ho cominciato gli studi di Filosofia; nel 1993 ho fatto l’anno di noviziato a Bucaramanga (Colombia) e il 9 gennaio 1994 ho emesso la prima professione religiosa. Dal 1994 al 1999 ho frequentato i corsi di Teologia a Bogotá, prima la teologia di base e poi anche una specializzazione.

Il giorno della mia ordinazione è stato il 30 ottobre 1999 ad Atalanta, la mia città natale, quindi quest'anno compio 23 anni di sacerdozio.

Il mio primo incarico è stato il Venezuela dove mi trovo attualmente. Nei primi anni ho lavorato nell'animazione missionaria e vocazionale; il lavoro con i giovani è stato un'esperienza bellissima e ho imparato tanto. Ho svolto questo incarico fino al 2005.

Dal 2005 al 2018 ho lavorato con gli indigeni Warao nello Stato di Delta Amacuro. Dal 2018 al 2021 sono stato in amministrazione e dal 2021 sono tornato a lavorare con gli indigeni Warao, dove mi trovo attualmente.

Quali li sfide più importanti, e quali le maggiori soddisfazioni?

Le sfide incontrate in questi anni di vita missionaria sono state molte. Dal punto di vista dell'animazione missionaria e vocazionale posso dire che la principale è stata quella di sapere capire e camminare al ritmo dei giovani, sperimentando la loro stessa realtà per poterli accompagnare nei loro desideri e preoccupazioni. 

Se siamo disposti a stare loro vicini possiamo anche provocare il loro impegno. Un elemento davvero gratificante è stata la "Caminada Juvenil Misionera", un'attività che abbiamo iniziato nel mese di ottobre 2003 per celebrare il mese missionario in modo diverso, camminando e riflettendo sulla realtà missionaria della Chiesa.

Il lavoro con le popolazioni indigene Warao è stato fonte di molte più sfide. Entrare in un'altra cultura significava imparare a vivere la vita e anche la fede in modo diverso e con ritmi diversi. Quelle che erano le mie priorità non sempre erano le loro; si trattava di un altro modo di vivere e di fare le cose.

Poi bisognava imparare a muoversi sui fiumi e in qualche occasione, come Pietro, mi son trovato a dire: "Aiuto, Signore, stiamo per affondare". Con il passare del tempo è stata un'esperienza di grande ricchezza e mi ha reso una persona migliore.

Ricordo alcune frasi: "Padre devi imparare ad amare questo popolo, con i suoi difetti, per scoprire le sue tante virtù". 

Da gioia scoprire l'affetto che le comunità hanno per noi, vedere la disponibilità e l'entusiasmo che provano per le nostre visite periodiche. Dicevano: "Abbiate pazienza, aspettate almeno dieci anni e comincerete a capire; siete i nostri sacerdoti, faremo un cammino insieme, uniti alla comunità".

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Il lavoro pastorale con le popolazioni indigene è una delle priorità dei Missionari della Consolata in America. Che bilancio fai di questo lavoro?

Il primo elemento è la presenza, il sapere stare in mezzo ai popoli nativi. Questa presenza richiede anche permanenza, non basta andare per qualche anno.

Seguendo la metodologia dei nostri stessi primi missionari, così come la ricordiamo anche nella Conferenze di Muranga, si tratta di conoscere la cultura, la lingua e la cosmovisione di ogni popolo. È necessario entrare nel loro mondo, perché siamo noi che andiamo da loro per imparare a stare con loro, valorizzando la ricchezza del loro vivere comunitario: solo in quel contesto potremo proporre in modo opportuno il vangelo di Gesù.

Cerchiamo sempre di incoraggiare i popoli indigeni a essere sempre più protagonisti della loro storia, e anche a scoprire la presenza di Dio nel loro passato e nel loro presente.

Un altro elemento indispensabile è quello di valorizzare all'interno della Chiesa e della società la saggezza e il contributo dei popoli originari per un mondo più umano, capace di rispettare il rapporto con gli altri e con la natura. Creare quell’armonia con l'ambiente che permette la continuità della vita.

Una grande richiesta che riceviamo dai popoli indigeni è che nelle case di formazione si lavori e si studi anche la teologia india, in modo che non sia conosciuta solo da alcuni addetti ai lavori ma da tutti coloro che un giorno potranno lavorare con loro. 

Evidentemente dovrà arrivare il giorno in cui loro stessi sapranno elaborare la loro propria teologia, con metodologia e contenuti propri, non necessariamente ereditati dalla razionalità occidentale. Non è un percorso semplice né corto, il Consiglio Episcopale Latinoamericano sta cercando di favorirlo.

Le sfide di essere missionario oggi

Essere missionari oggi comporta come prima sfida quella di aprire la mente e il cuore alla cultura in cui siamo inseriti. È un processo piuttosto arduo, perché richiede di aprire la mente al nuovo e mettere in secondo piano la propria cultura, il proprio modo di pensare, per essere disposti a iniziare un nuovo processo di apprendimento. La Chiesa oggi ci chiede di saper camminare con le comunità e i popoli, non come padroni ma come compagni, come fratelli e sorelle. "Mi sono fatto Giudeo con i Giudei... Greco con i Greci, schiavo con gli schiavi... Mi sono fatto tutto come tutti gli altri per conquistare alcuni a Cristo". (1 Cor 9,20-23)

*Maria Emerenciana Raia è redattrice della rivista Missões da dove è tratta questa intervista

Il 9 agosto, Giornata internazionale dei popoli indigeni del mondo, è un'occasione per ricordare che siamo chiamati a promuovere e proteggere i diritti dei popoli indigeni, ma anche a ringraziare per il loro contributo alla protezione della nostra casa comune.

Nella Pan-Amazzonia ci sono circa 3 milioni di indigeni, organizzati in più di 390 popoli, che parlano 240 lingue vive, appartenenti a 49 famiglie linguistiche. Potrebbe sembrare strano ma di questi popoli sono ben 137 quelli che vivono in “isolamento volontario” o in contatto iniziale. Questa diversità culturale è una ricchezza che non possiamo perdere.

La ONU ha inoltre riconosciuto che “le comunità indigene sono leader nella protezione dell'ambiente”: la foresta amazzonica immagazzina almeno un quarto di tutto il carbonio presente nelle foreste tropicali e quindi “la lotta dei popoli indigeni per la difesa del loro ambiente fa delle loro comunità una garanzia imprescindibile”. 

Cura e rispetto

Papa Francesco, scrivendo l'esortazione apostolica “Querida Amazonía”, ha ricordato che “La saggezza dei popoli originari dell’Amazzonia ispira cura e rispetto per il creato, con una chiara consapevolezza dei suoi limiti, proibendone l’abuso. Abusare della natura significa abusare degli antenati, dei fratelli e delle sorelle, della creazione e del Creatore, ipotecando il futuro” (N. 42).

Siamo quindi chiamati ad alzare la voce, in tutto il mondo (Africa, America, Asia, Europa, Oceania), e a denunciare quando i diritti fondamentali dei popoli indigeni sono oltraggiati come conseguenza degli interessi di alcuni gruppi economici e politici che pensano solo al profitto, senza pensare al grande danno causato alla natura, ai popoli, soprattutto i più poveri, con conseguenze visibili nell’intero pianeta. 

Questa preoccupante situazione la vediamo nei progetti smisurati e non sostenibili nell’ambito minerario, agroalimentare ed energetico; nella crisi climatica che produce inondazioni, siccità, incendi e malattie; nel razzismo e la discriminazione nei confronti dei popoli indigeni. Ma è ancora possibile cambiare questa situazione!

Protettori dell’Amazzonia

Durante il Congresso Mondiale della Conservazione del 2021, il Coordinamento delle Organizzazioni Indigene del Bacino Amazzonico (Coica) ha presentato una proposta concreta che prevede la protezione dell'ottanta per cento del Bacino Amazzonico entro il 2025. Questa campagna, precisamente chiamata 80×25, mira a evitare che la più grande foresta pluviale del pianeta raggiunga il punto di non ritorno. Le comunità indigene del bacino amazzonico e i loro alleati stanno alzando la voce per chiedere la protezione dell'Amazzonia e la salvaguardia del futuro dell'umanità.

Il responsabile del Fondo per le foreste della Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (Fao), David Kaimowitz, ha riconosciuto che “i popoli indigeni e le comunità tradizionali sono i migliori protettori della foresta amazzonica ma i loro territori sono sempre più minacciati da attività legali e illegali: loro hanno bisogno del sostegno della comunità internazionale e dei governi nazionali affinché i loro territori siano riconosciuti e i loro diritti rispettati”. Dobbiamo rafforzare la loro gestione tradizionale delle foreste, le loro conoscenze tradizionali, la loro identità culturale e la loro capacità di conservare le risorse che sono fondamentali per raggiungere gli obiettivi in materia di clima e biodiversità.

Guardiani della Casa Comune

Papa Francesco, nell'enciclica Laudato Si' (2015) ha ricordato che “è indispensabile prestare speciale attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali. Non sono una semplice minoranza tra le altre, ma piuttosto devono diventare i principali interlocutori, soprattutto nel momento in cui si procede con grandi progetti che interessano i loro spazi. Per loro, infatti, la terra non è un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati che in essa riposano, uno spazio sacro con il quale hanno il bisogno di interagire per alimentare la loro identità e i loro valori. Quando rimangono nei loro territori, sono quelli che meglio se ne prendono cura” (N. 146)

Impariamo dai popoli indigeni l'amore e la cura per la nostra casa comune!

Difendiamo i custodi della Casa comune, le loro vite e i loro territori, perché abbiano "vita in abbondanza" (cfr. Gv 10, 10)!

Care popolazioni indigene di Maskwacis e di questa terra canadese, cari fratelli e care sorelle!

È da qui, da questo luogo tristemente evocativo, che vorrei iniziare quanto ho nell’animo: un pellegrinaggio penitenziale. Giungo nelle vostre terre natie per dirvi di persona che sono addolorato, per implorare da Dio perdono, guarigione e riconciliazione, per manifestarvi la mia vicinanza, per pregare con voi e per voi.

Negli incontri avuti a Roma quattro mesi fa mi erano state consegnate in pegno due paia di mocassini, segno della sofferenza patita dai bambini indigeni, in particolare da quanti purtroppo non fecero più ritorno a casa dalle scuole residenziali e mi era stato chiesto di restituire i mocassini una volta arrivato in Canada: li ho portati e lo farò al termine di queste parole. Il ricordo di quei bambini infonde afflizione ed esorta ad agire affinché ogni bambino sia trattato con amore, onore e rispetto. Ma quei mocassini ci parlano anche di un cammino, di un percorso che desideriamo fare insieme. Camminare insieme, pregare insieme, lavorare insieme, perché le sofferenze del passato lascino il posto a un futuro di giustizia, guarigione e riconciliazione.

Ecco perché la prima tappa del mio pellegrinaggio in mezzo a voi si svolge in questa regione che vede, da tempo immemorabile, la presenza delle popolazioni indigene. È un territorio che ci parla, che permette di fare memoria.

Fratelli e sorelle, avete vissuto in questa terra per migliaia di anni con stili di vita che hanno rispettato la terra stessa, ereditata dalle generazioni passate e custodita per quelle future. L’avete trattata come un dono del Creatore da condividere con gli altri e da amare in armonia con tutto quanto esiste, in una vivida interconnessione tra tutti gli esseri viventi. Avete così imparato a nutrire un senso di famiglia e di comunità, e sviluppato legami saldi tra le generazioni, onorando gli anziani e prendendovi cura dei piccoli. Quante buone usanze e insegnamenti, incentrati sull’attenzione agli altri e sull’amore per la verità, sul coraggio e sul rispetto, sull’umiltà e sull’onestà, sulla sapienza di vita!

Ma, se questi sono stati i primi passi mossi in questi territori, la memoria ci porta tristemente a quelli successivi. Il luogo in cui ci troviamo fa risuonare in me un grido di dolore, un urlo soffocato che mi ha accompagnato in questi mesi. Ripenso al dramma subito da tanti di voi, dalle vostre famiglie, dalle vostre comunità; a ciò che avete condiviso con me sulle sofferenze patite nelle scuole residenziali. Sono traumi che, in un certo modo, rivivono ogni volta che vengono rievocati e mi rendo conto che anche il nostro incontro odierno può risvegliare ricordi e ferite, e che molti di voi potrebbero trovarsi in difficoltà mentre parlo. Ma è giusto fare memoria, perché la dimenticanza porta all’indifferenza e, come è stato detto, «l’opposto dell’amore non è l’odio, è l’indifferenza… l’opposto della vita non è la morte, ma l’indifferenza alla vita o alla morte» (E. Wiesel). Fare memoria delle esperienze devastanti avvenute nelle scuole residenziali ci colpisce, ci indigna, ci addolora, ma è necessario.

È necessario ricordare come le politiche di assimilazione e di affrancamento, che comprendevano anche il sistema delle scuole residenziali, siano state devastanti per la gente di queste terre. Quando i coloni europei vi arrivarono per la prima volta, c’era la grande opportunità di sviluppare un fecondo incontro tra culture, tradizioni e spiritualità. Ma in gran parte ciò non è avvenuto. E mi tornano alla mente i vostri racconti: di come le politiche di assimilazione hanno finito per emarginare sistematicamente i popoli indigeni; di come, anche attraverso il sistema delle scuole residenziali, le vostre lingue, le vostre culture sono state denigrate e soppresse; e di come i bambini hanno subito abusi fisici e verbali, psicologici e spirituali; di come sono stati portati via dalle loro case quando erano piccini e di come ciò abbia segnato in modo indelebile il rapporto tra i genitori e i figli, i nonni e i nipoti.

Io vi ringrazio per avermi fatto entrare nel cuore tutto questo, per aver tirato fuori i pesanti fardelli che portate dentro, per aver condiviso con me questa memoria sanguinante. 

Prego e spero che i cristiani e la società di questa terra crescano nella capacità di accogliere e rispettare l’identità e l’esperienza delle popolazioni indigene. Auspico che si trovino vie concrete per conoscerle e apprezzarle, imparando a camminare tutti insieme. Da parte mia, continuerò a incoraggiare l’impegno di tutti i Cattolici nei riguardi dei popoli indigeni. L’ho fatto in altre occasioni e in vari luoghi, mediante incontri, appelli e anche attraverso un’Esortazione apostolica. So che tutto ciò richiede tempo e pazienza: si tratta di processi che devono entrare nei cuori, e la mia presenza qui e l’impegno dei Vescovi canadesi sono testimonianza della volontà di procedere in questo cammino.

In questa prima tappa ho voluto fare spazio alla memoria. Oggi sono qui a ricordare il passato, a piangere con voi, a guardare in silenzio la terra, a pregare presso le tombe. Lasciamo che il silenzio ci aiuti tutti a interiorizzare il dolore. Silenzio. E preghiera: di fronte al male preghiamo il Signore del bene; di fronte alla morte preghiamo il Dio della vita. Il Signore Gesù Cristo ha fatto di un sepolcro, capolinea della speranza di fronte al quale erano svaniti tutti i sogni ed erano rimasti solo pianto, dolore e rassegnazione, ha fatto di un sepolcro il luogo della rinascita, della risurrezione, da cui è partita una storia di vita nuova e di riconciliazione universale. Non bastano i nostri sforzi per guarire e riconciliare, occorre la sua Grazia: occorre la sapienza mite e forte dello Spirito, la tenerezza del Consolatore. Sia Lui a colmare le attese dei cuori. Sia Lui a prenderci per mano. Sia Lui a farci camminare insieme.

Maskwacis, Lunedì, 25 luglio 2022

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