La visita del Papa alla Mongolia, i primi quattro giorni di settembre del 2023 non ha radunato decine o centinaia di migliaia di fedeli come in altre occasioni. Qui ci sono solo 1,500 cattolici battezzati. Tuttavia a me è bastato per  entrare in un turbinio di avvenimenti ed emozioni.

I nostri missionari, preti e suore, erano indaffarati per l’organizzazione dell’avvenimento. Uno incontrava i giornalisti RAI e Vaticano, sr Anna organizzava la logistica, p. Dido la liturgia, altri erano incaricati di ospiti di lingua spagnola e sr Esperanza era la cuoca ufficiale del Papa. In casa era tutto un via vai e p. Lourenco e io che eravamo appena arrivati dalla Corea, non riuscivamo a capire cosa stesse succedendo. Una sera p. Ernesto portò a casa due giornalisti e… Giovanni! Proprio p. Giovanni degli OMI che conoscevo bene dalla Corea e che era appena arrivato dalla Cina dove lavora da 12 anni. Che magnifica sorpresa! Che bello incontrare un vecchio amico quando meno te l’aspetti!

A Ulaan Baator erano arrivati anche alcuni fedeli della nostra parrocchia di Arvaikheer, a più di 400 km di distanza da qui, e una di loro aveva espresso il desiderio di poter “toccare” il Papa. Immaginatevi una comunità di cattolici più piccola di qualsiasi nostra comunità parrocchiale: che esperienza unica poter vedere dal vivo il Papa e toccarlo! Per i Cattolici Mongoli è stato come poter toccare la loro comunione con tutta la chiesa universale, e non solo in senso simbolico, ma proprio fisico. Perlima, quella cattolica di Arvaikheer che lo aveva tanto desiderato, insieme a tanti altri, ha avuto l’opportunità di toccare il Papa, quando all’offertorio della messa gli ha portato il calice del vino.

Molti non cristiani si chiedevano chi era questo signore tanto importante, che veniva da Roma e incontrava persino il presidente. Per loro è stata la prima vera esposizione alla Chiesa Cattolica. E da adesso non ci vedono più come una delle tante ditte straniere che vengono qui a far soldi, ma come portatori di una religione di pace e amore. Alcuni commentavano con orgoglio: “Questo grande uomo è il capo di un miliardo e trecento milioni di persone, quindi in questi giorni gli occhi di un miliardo e trecento milioni di persone guarderanno alla Mongolia”. E dopo che ha reso onore alla statua di Ginghis Khaan sulla piazza principale della capitale: “Ha onorato il nostro grande Ginghis Khaan, allora ha un grande rispetto per noi!”

Francesco ha lodato i missionari che lavorano in Mongolia per le loro attività nel sociale. “Questo è importantissimo,- ha detto –è il vostro biglietto da visita come cristiani. Ma sopra tutto ci vuole l’adorazione, la contemplazione. Dovete vivere e comunicare il: “gustate e vedete come è buono il Signore”.

Il giorno dell’incontro con i religiosi, gli incaricati della sicurezza erano sicuri che Lourenco e io, non potevamo entrare al luogo dell’incontro col pontefice a causa di un codice sbagliato. Poi p. Dido, incaricato della liturgia per la visita del Papa è riuscito a farci superare questo primo ostacolo. In seguito abbiamo trovato un altro incaricato della sicurezza che aveva delle sicurezze diverse da quello di prima e finalmente, anche se noi non eravamo più sicuri di niente, siamo potuti entrare nella chiesa cattedrale dove avremmo sicuramente incontrato il Papa. 

Non pensate che io sia uno che ci tiene particolarmente a queste cose. Ma sta di fatto che nelle ultime tre settimane facevo sogni in cui parlavo col Papa, scherzavo con lui, mangiavo pranzo con lui, parlavo di cose serie e facevo bella figura. Ma arrivato davanti a lui non sono riuscito a dire una parola. Certo che Giorgio (cioè sua eminenza il cardinal Marengo, Prefetto apostolico della Mongolia) mi ha presentato bene al Papa. E Francesco mi ha detto: “Ah tu vieni dalla Corea. Lì ci sono troppi preti. Mandateli in missione!” e così, ridendo, ho passato i miei 15 secondi di gloria senza dire una parola! A vederlo, il Papa, sembra proprio tanto invecchiato, ma quando mi ha parlato era tutto allegro e con tanta voglia di scherzare. E’ stato come incontrare un vecchio amico.

Chi ha parlato bene invece è Rufina, che ha conosciuto la fede quando era studentessa. Quando aveva 18 anni , una sera si trovò a parlare per ore con entusiasmo al papà di sua nonna materna, ottantenne, sulla vita di Gesù, partendo dalla nascita fino alla risurrezione. Questo episodio le fece capire che doveva comunicare la buona notizia anche ai suoi amici Mongoli. Così colse l’occasione di una iniziativa della Diocesi, andò a Roma a studiare catechesi, e adesso è operatrice pastorale della diocesi. Lavoro preziosissimo per portare il Vangelo più vicino al sentire della gente.

Saanja, il secondo prete mongolo ordinato, con la sua umiltà e semplicità, ha salutato il Papa a nome della chiesa mongola. Orfano di padre e aiutato dalle suore di Madre Teresa, ha poi conosciuto il padre Kim Stefano (sacerdote fidei donum coreano, morto a maggio di quest’anno e compianto da tutti), che lo ha battezzato e ispirato a diventare sacerdote.

Bella è sta a anche la cerimonia di intronizzazione della Madonna del Cielo. E’ una storia commovente. Tanti anni fa una signora trovò questa statua, avvolta nella carta, in una discarica di rifiuti. Si disse : “Chi sarà questa bella signora, forse ha voluto farsi trovare da me perché la portassi in casa mia.” La mise nella sua umile ger  (tenda mongola). Il parroco venne a saperlo e in seguito portò la statua in chiesa. Poi passò in mano ai salesiani. Infine Giorgio (cioè il Cardinale ecc. ecc.), toccato da questa storia, ebbe l’ispirazione di portarla in cattedrale e proclamarla protettrice della chiesa mongola col titolo di “Madre del Cielo”. E quella signora, che è stata battezzata un anno fa, sabato ha incontrato personalmente il Santo Pontefice.

Non c’erano solo Mongoli a ricevere il Papa, ma anche piccoli gruppi di fedeli e missionari dei paesi vicini. Russi, Vietnamiti, Coreani, Khazaki, Cinesi, ecc.. I Cinesi appena potevano incontrare un prete erano emozionatissimi. Subito volevano la foto insieme e poi ognuno chiedeva di essere benedetto.

Nella Messa di Domenica, Francesco ha sottolineato che dobbiamo avere coscienza della sete profonda che c’è dentro di noi, che è come la sete del nomade in queste sconfinate praterie mongole. E l’unica acqua che può spegnere questa sete è l’acqua dell’amore che conosce chi ha incontrato Cristo! 

Infine è arrivato lunedì, il Papa ha finito la sua visita, e anche i nostri missionari erano “finiti” e sono andati tutti a prendersi il meritato riposo, dopo notti con poche ore di sonno, corse di qua e di là per controllare che tutto funzionasse, e viaggi agli alberghi per seguire le varie delegazioni internazionali.

Ma tutti, fedeli e missionari siamo rimasti pieni di gioia e pace. E’ stato come se la Santa Madre Chiesa, nella persona di Papa Francesco, avesse preso in braccio e baciato il figlio più piccolo. E Francesco ci ha ricordato che la piccolezza può diventare una grande opportunità!

 

La missione come visita

La visita è una componente della nostra esperienza umana, un fatto antropologico che assume caratteristiche particolari in ogni tempo e luogo, a seconda delle culture, dei popoli e delle società, diventando così un fatto culturale.

Nella Bibbia Dio è spesso presentato come colui che visita e consola il suo popolo con buone notizie di liberazione e di pace. Gesù è la migliore espressione della visita di Dio all'umanità, e dopo di lui seguono le visite dei suoi discepoli missionari, inviati fino ai confini della terra e alla fine dei tempi.

Anche nel Vicariato di Puerto Leguízamo Solano, nei territori amazzonici del Caquetá e Putumayo (Colombia) e ai confini con l'Ecuador e il Perù, la visita è una parte importante dell’impegno pastorale di Mons. Joaquín Pinzón e tutti i missionari che lo accompagnano, fa parte della loro quotidianità missionaria.

Il giovane seminarista Alfredo Cortés ha voluto raccontare la visita a Puerto Refugio, territorio indigena ed ancestrale del Putumayo, per mezzo di tre doni –tre sacramenti– che sono stati motivo di festa per la comunità cristiana di questo territorio: il battesimo, la comunione e la cresima.

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Il dono del battesimo che è frutto della fede. "Sono stati celebrati tre battesimi e, per mezzo di questo sacramento, tre vite che sono state consacrate a Dio. I genitori sono incoraggiati a continuare i progetti di Colui che ha voluto abitare nei loro piccoli cuori".

Il dono della comunione che consolida la comunità. "Dieci erano coloro che diventavano una cosa sola con Gesù ricevendo il suo Corpo e il suo Sangue. Dopo la messa anche la tavola è stata imbandita e tutti abbiamo assaportato una grande zuppa patronale che ha sottolineato la comunione e il vissuto comunitario".

Il dono dello Spirito che anima l'impegno della vita cristiana. "Cinque giovani indigeni hanno ricevuto la pienezza dello Spirito Santo. Monsignor Joaquín li ha ascoltato la loro testimonianza e confermato la loro fede per mezzo dell'olio santo che inumidisce la fronte di chi vuole seguire da vicino il Signore". 

Monsignor Joaquín ha presieduto la celebrazione di questi tre doni e sacramenti ed è stato accompagnato all'altare dai padri Fernando e Alejandro, missionari dal volto amazzonico che accompagnano i processi di fede in questi territori che si affacciano sul fiume Putumayo.

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Vogliamo sottolineare le parole del vescovo di Montreal (Canadà) che ha conferito un importante incarico pastorale a un nostro confratello missionario nella sua diocesi.

Cari collaboratori dell'Arcidiocesi di Montreal, sono lieto di annunciarvi che ho nominato padre Jean-Marie Bilwala Kabesa, IMC come Vicario episcopale per le comunità francofone dei quattro decanati occidentali della nostra diocesi.

Nelle ultime settimane il vescovo Marc Rivest, che ricopriva questo ruolo, ha dovuto lasciare l'incarico per essere più disponibile per la sua parrocchia. 

Padre Jean-Marie Bilwala Kabesa è nato l'11 febbraio 1974 nella Repubblica Democratica del Congo (Kinshasa). Si è unito ai Missionari della Consolata nel 1993, ha emesso i voti religiosi nel 1999 a Maputo, in Mozambico, ed è stato ordinato sacerdote il 20 luglio 2003 a Kinshasa. 

Padre Jean-Marie ha prestato servizio in Etiopia (2003-2010) come parroco di Wonji, una città semiarida dell'Etiopia centrale, coordinando progetti umanitari in collaborazione con il Catholic Relief Services. Ha lavorato a stretto contatto con gli agricoltori locali, seguendo la realizzazione di progetti di carattere sociale. 

In Quebec, padre Jean-Marie è stato direttore del centro di animazione missionaria dei Missionari della Consolata "Hall Notre-Dame", direttore della rivista "Réveil Missionnaire" e animatore pastorale della scuola Augustin Roscelli.

Dal 2016 al 2019 è stato direttore diocesano delle Pontificie Opere Missionarie per l'arcidiocesi di Montreal. 

Attualmente è ospite occasionale di Maria-Montréal, una radio cattolica in lingua italiana, membro del Consiglio di amministrazione delle Pontificie Opere Missionarie nel Canada francofono e, dal 2020, amministratore della parrocchia di Saint-Jean-Bosco dove continuerà a prestare servizio. 

Oltre al baccellierato in filosofia e teologia (Pontificia Università Urbaniana), padre Jean-Marie ha conseguito un master in comunicazione e giornalismo (Daystar University, Kenya-USA) e un master in salute e spiritualità (Université de Montréal). Vorrei ringraziare padre Jean-Marie e augurargli ogni successo nel suo nuovo ruolo all'interno della nostra archidiocesi. Che Dio vi benedica, vi riempia della sua luce e vi custodisca nella sua pace. 

*Christian Lépine è Arcivescovo di Montreal 

Omelia della Santa Messa nella “Steppe Arena” (3 settembre)

«O Dio, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua» (Sal 63,2). Questa stupenda invocazione accompagna il viaggio della nostra vita, in mezzo ai deserti che siamo chiamati ad attraversare. E proprio in questa terra arida ci raggiunge una buona notizia: nel nostro cammino non siamo soli; le nostre aridità non hanno il potere di rendere sterile per sempre la nostra vita; il grido della nostra sete non rimane inascoltato. Dio Padre ha mandato il suo Figlio a donarci l’acqua viva dello Spirito Santo per dissetare la nostra anima (cfr Gv 4,10). Tanti di voi sono abituati alla bellezza e alla fatica del camminare, azione che richiama un aspetto essenziale della spiritualità biblica, rappresentato dalla figura di Abramo e, più in generale, proprio del popolo d’Israele e di ogni discepolo del Signore: tutti, tutti noi infatti, siamo “nomadi di Dio”, pellegrini alla ricerca della felicità, viandanti assetati d’amore. Il deserto evocato dal salmista si riferisce, dunque, alla nostra vita: siamo noi quella terra arida che ha sete di un’acqua limpida, di un’acqua che disseta in profondità; è il nostro cuore che desidera scoprire il segreto della vera gioia, quella che anche in mezzo alle aridità esistenziali, può accompagnarci e sostenerci. Sì, ci portiamo dentro una sete inestinguibile di felicità; siamo alla ricerca di un significato e una direzione della nostra vita, di una motivazione per le attività che portiamo avanti ogni giorno; e soprattutto siamo assetati di amore, perché è solo l’amore che ci appaga davvero, che ci fa stare bene, che ci apre alla fiducia facendoci gustare la bellezza della vita. Cari fratelli e sorelle, la fede cristiana risponde a questa sete; la prende sul serio; non la rimuove, non cerca di placarla con palliativi o surrogati: no! Perché in questa sete c’è il nostro grande mistero: essa ci apre al Dio vivente, al Dio Amore che ci viene incontro per farci figli suoi e fratelli e sorelle tra di noi.

Questo è il contenuto della fede cristiana: Dio, che è amore, nel suo Figlio Gesù si è fatto vicino a te, a me, a tutti noi, desidera condividere la tua vita, le tue fatiche, i tuoi sogni, la tua sete di felicità. È vero, a volte ci sentiamo come una terra deserta, arida e senz’acqua, ma è altrettanto vero che Dio si prende cura di noi e ci offre l’acqua limpida e dissetante, l’acqua viva dello Spirito che sgorgando in noi ci rinnova liberandoci dal pericolo della siccità. Queste parole, carissimi, richiamano la vostra storia: nei deserti della vita e nella fatica di essere una comunità piccola, il Signore non vi fa mancare l’acqua della sua Parola, specialmente attraverso i predicatori e i missionari che, unti dallo Spirito Santo, ne seminano la bellezza. E la Parola sempre, sempre ci riporta all’essenziale, all’essenziale della fede: lasciarsi amare da Dio per fare della nostra vita un’offerta d’amore. Perché solo l’amore ci disseta veramente. Non dimentichiamo: solo l’amore disseta veramente.

Questa è la verità che Gesù ci invita a scoprire, che Gesù vuole svelare a voi tutti, a questa terra di Mongolia: non serve essere grandi, ricchi o potenti per essere felici: no! Solo l’amore ci disseta il cuore, solo l’amore guarisce le nostre ferite, solo l’amore ci dà la vera gioia. E questa è la via che Gesù ci ha insegnato e ha aperto per noi.

Anche noi, fratelli e sorelle, allora ascoltiamo la parola che il Signore dice a Pietro: «Va’ dietro a me» (Mt 16,23), vale a dire: diventa mio discepolo, fai la stessa strada che faccio io e non pensare più secondo il mondo. Allora, con la grazia di Cristo e dello Spirito Santo, potremo camminare sulla via dell’amore. Anche quando amare significa rinnegare sé stessi, lottare contro gli egoismi personali e mondani, correre il rischio di vivere la fraternità.

In vista del viaggio apostolico del Papa nel Paese asiatico, dal 31 agosto al 4 settembre, l'intervista ai media vaticani del cardinale Giorgio Marengo, prefetto apostolico di Ulaanbaatar e missionario della Consolata. "Questa visita - afferma - servirà anche a rafforzare i già buoni rapporti tra la Santa Sede e lo Stato”. L’arrivo del Pontefice preceduto dal pellegrinaggio, in tutte le comunità cattoliche, della statua della Vergine trovata in una discarica

Eminenza, cosa s’aspetta da questo viaggio del Papa che ha come tema "Sperare insieme"?

Credo che aiuterà soprattutto i fedeli cattolici mongoli a sentirsi veramente nel cuore della Chiesa. A noi, che viviamo geograficamente in una zona del mondo molto periferica, la presenza del Papa ci farà sentire non lontani ma vicini, al centro della Chiesa. E poi sarà importante per il rafforzamento dei rapporti tra la Santa Sede e lo Stato mongolo, che già sono buoni.

La Chiesa come si è preparata ad accogliere il Pontefice?

Questa visita per noi è molto importante e per questo l’abbiamo voluta far precedere dal pellegrinaggio della statua della Vergine Maria che fu trovata, qualche tempo fa, in una discarica del nord del Paese da una donna povera e non cristiana. Questa statua, che è la nostra patrona, sta visitando le varie comunità cattoliche.

(video di Gianni Valente, Agenzia Fides)

Quali sono le dimensioni della Chiesa che il Santo Padre verrà a visitare?

La chiesa mongola è composta da un gregge molto esiguo: millecinquecento battezzati locali radunati in otto parrocchie ed una cappella. Cinque di esse si trovano nella capitale e le altre in zone più remote. E’ una comunità piccola ma molto viva.

Quali sono le principali attività ecclesiali?

La Chiesa è impegnata per il settanta per cento delle sue attività in progetti di promozione umana integrale: dall’educazione alla sanità, passando per la cura delle persone più fragili. Ma si occupa anche della vita di fede che si concretizza con il pre-catecumenato, con il catecumenato, con la vita liturgica e con la catechesi continua. E’ una pastorale che cerca di concentrarsi soprattutto sulla qualità della scelta di fede delle persone. 

La Chiesa in Mongolia quali sfide deve affrontare?

La prima, quella più importante, è vivere secondo il Vangelo. La grande sfida per ogni comunità è quella di essere discepoli e missionari. E questa coerenza di vita si traduce nella necessità di un radicamento sempre maggiore nella società mongola, con la speranza di una più forte coesione della Chiesa particolare intorno ad un progetto comune. Un’altra sfida è quella dell’inculturazione, che ha bisogno di tempi lunghi perché accompagna la maturazione della fede in un determinato contesto culturale. Infine, c’è la sfida della formazione dei catechisti locali, degli operatori pastorali e, ovviamente, del clero locale ed internazionale.

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La maggioranza della popolazione si dichiara buddista. Per la Chiesa locale, quanto è importante il dialogo interreligioso?

Il dialogo interreligioso da sempre ha segnato l’esperienza ecclesiale in Mongolia. La Chiesa si trova ad essere, anche per necessità, in una situazione di assoluto bisogno di relazioni con i fedeli di altre tradizioni religiose. E’ una dimensione fondamentale che ci ha sempre accompagnato e che, negli ultimi anni, si è intensificata a tal punto che gli incontri tra i leader religiosi, che prima avvenivano annualmente, ora si organizzano ogni due mesi. 

La Chiesa della Mongolia come sta vivendo il cammino sinodale?

Quasi spontaneamente, perché la dimensione della sinodalità fa parte della nostra esperienza ecclesiale. La dinamica della consultazione di tutte le componenti ecclesiali appartiene alla prassi di questa Chiesa. È bello sentirsi in piena sintonia con tutto il mondo cattolico in questa fase in cui la Chiesa universale si ferma a riflettere maggiormente sulla sinodalità.

Qual è oggi la situazione sociale nel Paese?

La società mongola è in una fase di grande trasformazione. C’è una rincorsa veloce a modelli sociali e culturali che sono nuovi rispetto alla tradizione. E’ una nazione in fermento la cui crescita economica sta imponendo un cambiamento anche negli stili di vita che stanno diventando più aperti alla globalizzazione. Questo rapido sviluppo comporta delle opportunità ma anche dei rischi, come quello di lasciare indietro chi non riesce a tenere il passo oppure quello di indebolire alcune tradizioni locali che invece favoriscono una maggiore coesione sociale. 

Ascolta l'intervista completa

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