Pubblichiamo la cronaca della visita della Direzione Generale in Eswatini e Sudafrica da parte del Vice Superiore Generale, padre Michelangelo Piovano e dei Consiglieri Generali, i padri Erasto Mgalama e Mathews Odhiambo Owuor.
Arriviamo a Johannesburg il 7 maggio, dopo una notte di volo provenienti da Abidjan, dove troviamo il superiore delegato padre Nathaniel Kagwima Mwangi che è venuto a prenderci. Ci porta nella comunità di Daveyton dove troviamo anche padre Charles Orero Ochieng e padre Michael Miriti M'longi che lavorano in questa comunità e parrocchia di San Nicholas.
Ci portano a visitare le altre parrocchie legate alla comunità di Daveyton e nelle quali essi lavorano: quella di S. Lambert, di S. Martino de Porres e la cappella dedicata a S. Monica. Ognuna ha le sue strutture per le varie attività pastorali.
Verso sera andiamo a Centurion (Pretoria) nella bella sede della Delegazione per riposare. Padre Charles Orero, da ottimo cuoco, ci prepara la cena e la colazione il mattino dopo.
Comunità di Kwaggafontein nella Diocesi di Pretoria
L'8 maggio visitiamo la comunità di Kwaggafontein nella Diocesi di Pretoria dove lavorano padre John Kapule Okula e padre Samuel Matenge Gitonga. Prestano il loro servizio in due parrocchie nella zona rurale, quella di St. Oliver e della Madonna di Lourdes a Dennilton. Due parrocchie assunte nel 2023 avendo lasciato le altre di Mamelodi che avevamo nella stessa diocesi di Pretoria.
Padre John e padre Samuel ci portano in alcune cappelle, sono molto semplici e vengono visitate periodicamente per la celebrazione della Messa, la catechesi e gli altri sacramenti.
Il mattino del 9 maggio facciamo visita all’arcivescovo di Pretoria, mons. Antony Dabula che ci accoglie con familiarità ringraziando per il lavoro che i nostri missionari fanno nella Diocesi, sia nella zona rurale che in quella urbana. Visitiamo in seguito la parrocchia di Queenswood dove ci accoglie padre Daniel Kivuw’a Mutonye. Ci mostra le varie strutture e la bella chiesa dedicata a Cristo Re. Per il pranzo arriva anche padre Gabriel Joseph Oluoch Kwdeho che lavora in altre parrocchie della diocesi della zona urbana di Tembisa insieme a padre Benedict Thomas Msigwa.
Visita all’arcivescovo di Pretoria, mons. Antony Dabula
Dopo pranzo partiamo per Eswatini, un piccolo Stato (regno) all’interno del Sudafrica, governato da Mswati III che ne è l'attuale monarca assoluto, nonché capo della famiglia reale Swazi. Anche qui abbiamo alcune presenze nella sua unica diocesi, quella di Manzini, della quale è vescovo mons. Josè Luis Ponce de Leon, missionario della Consolata argentino.
Vi arriviamo dopo quattro ore di viaggio passando attraverso immense estensioni di prati, campi coltivati a granoturco e bestiame al pascolo. Entriamo nello stato di Eswatini dopo aver fatto i vari controlli di frontiera e dei passaporti. È già notte ed attraverso ad una veloce autostrada arriviamo nella comunità di Kwaluseni accolti da padre Peterson Mwangi Muriithi.
Il giorno dopo, 10 maggio, partiamo con padre Nathaniel Mwangi e padre Peterson Mwangi per visitare la parrocchia dei Santi Pietro e Paolo della quale padre Peterson è parroco e per continuare poi il viaggio verso le altre nostre due presenze nella Diocesi Manzini.
Raggiungiamo la parrocchia della Madonna del Rosario attraverso una bella strada asfaltata tra grandi piantagioni di pini piccoli e grandi che si perdono a vista d'occhio tra colline e montagne molto simili a quelle dei nostri paesaggi alpini. È una delle bellezze di Eswatini e di questo piccolo regno. Su un pianoro appare la missione con la sua bella chiesa, la nuova casa parrocchiale e la scuola primaria e secondaria della Diocesi. Lì ci attende padre Giorgio Massa, un nostro missionario cuneese di 82 anni che ha lavorato per 40 anni in Sudafrica ed ora da quasi 10 anni in Eswatini facendo comunità con il vescovo e lavorando anche in alcune parrocchie.
Dopo il pranzo, tutti insieme partiamo per l'antica Missione di Florens, fondata dai Servi di Maria della Provincia di Firenze. È una Parrocchia e Santuario che il vescovo ci ha affittato all'inizio di quest'anno e dove è anche stata costituita una nostra comunità IMC. Ci accolgono padre Samuel Francis Awuor Oniango e padre Antony Mulwa Muinde, due giovani missionari keniani.
La parrocchia e Santuario (foto) ha più di cento anni di fondazione perché il primo battesimo è registrato al 14 gennaio 1923. È dedicata alla Santissima Annunziata raffigurata anche da una bella pala dell'altare che rappresenta il mistero dell'Annunciazione. Da tempo è anche Santuario mariano ed ogni anno la Diocesi vi si reca in pellegrinaggio. La presenza di una nostra comunità è stata voluta dal vescovo affinché si dia un rinnovato impulso al Santuario facendone anche un luogo di spiritualità, preghiera ed evangelizzazione. Nell' ampio spazio della missione è anche stata costruita recentemente una grotta della Madonna di Lourdes. È anche presente una comunità religiosa di suore locali che si prende cura del dispensario.
La parrocchia ha anche sette cappelle, alcune già con la loro chiesetta, altre da costruire. Una di queste è quella di S. Gregorio ed è la più frequentata perché in mezzo ad un centro abitato vivace con alcune strutture commerciali. Per un'altra, che ora funziona in una piccola struttura circolare a forma di capanna, una famiglia della comunità ha già donato al vescovo il terreno per la costruzione della chiesa. Ecco le sfide pastorali e missionarie per padre Francis e padre Antony che hanno assunto questo servizio con molta disponibilità e passione vivendo anche in una casa molto semplice e povera.
La donatrice del terreno (in centro) per costruire la nuova cappella appartenente alla Parrocchia dell'Annunziata
Certamente la Consolata li benedirà in questo luogo mariano che ci è stato affidato e che ha già anche donato alla diocesi alcune vocazioni. Mentre lasciamo la cappella di S. Gregorio all'orizzonte delle montagne ammiriamo lo spettacolo di un tramonto di fuoco; ci ricorda che stiamo iniziando la novena dello Spirito Santo che invochiamo anche per la nostra presenza a Eswatini e per tutta la Diocesi ed il suo vescovo.
Il mattino di sabato 11 maggio nella curia di Manzini celebriamo la Messa presieduta da Mons. José Luis. Attorno all'altare e con la presenza del vescovo ci sentiamo chiesa, corpo e famiglia. Facciamo colazione insieme e poi visitiamo la cattedrale spaziosa, luminosa e accogliente. Termina così la nostra visita a Manzini e siamo molto grati per ciò che abbiamo visto e vissuto. Salutiamo il vescovo e i padri Giorgio, Peterson e Francis e riprendiamo il cammino per ritornare in Sudafrica. Ci affidiamo alla Consolata affinché tutti benedica e protegga.
* Padri Michelangelo Piovano, Erasto Mgalama e Mathews Odhiambo Owuor. Daveyton, 12 maggio 2024, Solennità dell’Ascensione del Signore
Cappella di San Gregorio al tramonto del sole.
Nella Missione di Neisu a una trentina di chilometri da Isiro nel nord est della Repubblica Democratica del Congo (RDC), il 18 maggio 2024, si celebrerà il Venticinquesimo Anniversario della morte di padre Oscar José Goapper Pascual, giovane Missionario della Consolata e Medico. Un missionario che “ha lasciato il segno”.
Padre Oscar era figlio di José Elgasto e di Nelly Terma ed era nato il 25 settembre 1951 a Venado Tuerto nella provincia di Santa Fé in Argentina. Suo bisnonno era bretone, cioè, francese ed era emigrato a Buenos Aires dove aveva trovato lavoro presso un ricco allevatore. Il bisnonno poi si era messo in proprio nell’allevamento del bestiame; aveva anche aperto una macelleria vivendo agevolmente, senza diventare ricco.
Dopo le scuole secondarie, Oscar sente la chiamata ad essere missionario, e domanda di entrare dai missionari della Consolata presenti nella sua città. Viene accolto e inviato in Italia per continuare il cammino formativo. Ebbe anche l’occasione di recarsi a Kernével, in Bretagna, dove scopri che la famiglia Goapper era ancora presente e ritrovò con gioia i suoi lontani cugini. Terminato il cammino di formazione, fu ordinato sacerdote a Torino il 19 giugno 1976. Viene subito inviato in Argentina per essere animatore missionario e formatore.
Nel 1981, scrive al superiore generale per chiedergli di poter finalmente andare in missione, anche se aggiungeva: «Seguire il Signore fedelmente e senza mettere condizioni è vitale per me», manifestando la disponibilità che lo avrà sempre caratterizzato. Pensando che gli sarebbe stato utile in missione, aveva seguito il corso per infermieri professionali; diceva: «Aspetto con impazienza il giorno della partenza, ma sono cosciente che non si può improvvisare la missione».
Missionario e medico disponibile ad ogni momento anche di notte se un ammalato aveva bisogno di assistenza
Il 27 aprile 1982 arriva finalmente nella missione di Neisu, nel nord est dello Zaire. Padre Oscar si accorse subito della necessità di avere un luogo adatto per curare tanta gente ammalata. In un primo tempo trovò aiuto occasionale da parte del Dottor Leta, direttore della Clinica dell’Est a Isiro . Con l’accordo dei suoi confratelli, padre Antonello Rossi e padre Richard Larose e con l’aiuto di Fratel Domenico Bugatti, decise di seguire la costruzione di un ospedale, anche se sarebbe stata necessaria la presenza di un medico. Diceva al suo superiore «Se non ci sono dei medici laici che vogliono venire a Neisu, diventerò io stesso medico». Con il permesso del Padre Generale, s’iscrisse alla facoltà di Medicina dell’Università di Milano.
Cominciano lunghi anni di studio, aggiunto all’attività medica e pastorale e padre Oscar divide il suo tempo, le sue energie e fatiche tra Europa e Zaire. Finalmente dottore, resta definitivamente a Neisu tra i suoi ammalati.
A quei tempi mi trovavo a Kisangani, piuttosto distante da Neisu, ma ho avuto modo di incontrarlo alcune volte in occasione di qualche viaggio a Isiro e ancora meglio quando venne a Kisangani assieme a suor Cristina, per partecipare a giornate di formazione per i dottori. Come tanti, anch’io fui colpito dalla sua giovialità, apertura e capacità di istaurare subito un rapporto di amicizia.
Raccolgo le testimonianze di padre Lorenzo Farronato e padre Juan Antonio Fraile che l’hanno conosciuto e quella della dottoressa suor Cristina Antolin Tomas, collega di lavoro.
Padre Oscar è arrivato a Isiro giovanissimo e ha sostituito padre Venturini nella pastorale nella missione di Neisu con molto entusiasmo. Ci siamo accorti subito che aveva un’attenzione particolare per gli ammalati. Si mise a studiare medicina aiutato dal dott. Leta della Clinica dell’Est e da suor Cristina, anche lei dottore e chirurgo. Oltre l’attenzione agli ammalati ,non dimenticava il suo impegno nella pastorale. A Neisu aveva iniziato a coltivare le erbe che avevano caratteristiche medicinali nuove. Fin da subito mi è rimasta impressa la figura di questo missionario giovane, semplice, capace, entusiasta, e anche se era Missionario della Consolata, sono tentato di dire: «Come il Comboni, voleva i missionari: santi e capaci». Faceva facilmente amicizia e la coltivava. Grazie alla sua opera, l’Ospedale di Neisu riuscì ad imporsi e divenne importante in tutta la nostra zona.
Padre Oscar Goapper ha lasciato un segno molto profondo nella missione
Periodicamente andava in Italia per sostenere gli esami di Medicina, a Milano. In Italia, padre Oscar non perdeva l’occasione di dedicarsi all’Animazione Missionaria. Andò anche a Bassano, dove lavorava mia sorella come infermiera. Il padre impressionò la gente per la sua testimonianza e capacità di donazione. Mia sorella ne rimase colpita ed entusiasta, tanto che coltivò sempre l’amicizia con p. Oscar. Anche negli ambienti ospedalieri sapeva dare una bella testimonianza, e in molte strutture ospedaliere creò belle amicizie.
Un aneddoto simpatico di quel tempo. I capi della motorizzazione vollero revisionare le patenti dei missionari. Passarono per primi gli italiani, l’esaminatore era nervoso e irritato. Arrivò anche padre Senen Gandara. L’esaminatore arrabbiato, lo apostrofò: «Voi italiani…». Senen lo bloccò dicendo: «Calma, io non sono italiano, sono spagnolo”. Arriva padre Oscar e il tipetto, sempre arrabbiato, gli dice: «Ma voi europei…». E Oscar: «Alt e sangue freddo! Sappia che sono del terzo mondo come voi. Vengo dall’Argentina».
Ero a Londra, quando ricevetti la notizia che padre Oscar era morto: rimasi allibito e addolorato. Era un missionario che ha lasciato un segno molto profondo. Ringrazio il Signore di averlo conosciuto
Effettivamente ho conosciuto padre Oscar quando sono arrivato a Isiro nel 1995 e, come ben dici, visto che avevamo la lingua comune, prendevamo sempre l’occasione per mantenerla fresca. Mi invitò a Neisu e ci andai per un paio di giorni per conoscere l’ospedale e il suo lavoro. In seguito, ci andai diverse volte, anche perché io stesso avevo problemi di pelle e lui era un ottimo dottore. Curava non solo con la medicina classica, ma anche con piante medicinali che lui stesso coltivava. Con lui mi trovai subito a mio agio, perché era una persona che sapeva coltivare non solo le piante medicinali ma ancora meglio le amicizie ed era sempre gioioso.
Assieme a padre Oscar lavoravano suor Cristina Antolin Tomas, delle suore domenicane, e pure Luis e Rosa, due dottori spagnoli volontari laici con i missionari della Consolata. Avendo la lingua in comune, era bello ritrovarci assieme e conoscere i nostri rispettivi impegni missionari. Oscar ci comunicava i suoi progetti per cercare soluzioni al problema delle medicine. Quelle importate non sempre erano facilmente reperibili e i costi per la gente erano elevati e, addirittura, proibitivi. Padre Oscar aveva a cuore anche questo problema e di conseguenza trovava nuove soluzioni con l’uso di piante medicinali. Coltivava queste piante lui stesso in un grande campo. Ad esempio, già prima che si sentisse parlare dell’Artemisia come erba medicinale contro la malaria, lui la coltivava e la impiegava nelle cure, facendone pure pubblicità.
Insegnava alla gente come conoscere le piante, le loro qualità e il loro uso per le diverse cure mediche. Il suo grande desiderio era di curare sempre meglio le persone ammalate. La gente lo stimava e amava. Amico sincero e sempre gioioso, gli piaceva scherzare per rallegrare la compagnia.
Fu Fratel Tarcisio, il nostro bravo e santo confratello meccanico (ma non solo), ad annunciarmi la morte improvvisa di padre Oscar. Rimasi stordito e non riuscivo a crederci, anche perché ci eravamo parlati qualche giorno prima. Padre Oscar era conosciutissimo e la notizia per molti era stata una gran botta. Fummo presenti al suo funerale con una folla eccezionale che veniva anche da lontano e molti dei quali erano stati suoi pazienti.
Ho conosciuto padre Oscar nel 1985. Ero giunta a Isiro il mese di luglio di quell’anno. Ho iniziato a lavorare alla Clinica dell’Est con il dott. Leta. Durante quel periodo andavo spesso a Neisu per fare interventi chirurgici, ed è lì che ho conosciuto padre Oscar.
Molto gioioso di carattere, uomo di donazione, sempre pronto a servire. Era disponibile ad ogni momento anche di notte se un ammalato aveva bisogno di assistenza. Ho imparato da lui che prima di eseguire un intervento chirurgico, era indispensabile pregare e domandare a Dio che guidasse le nostre mani, e fosse Lui stesso a guarire i pazienti; una bella abitudine che da allora ho integrato nella mia vita professionale.
Era un uomo appassionato di Dio e dell’umanità, soprattutto quella sofferente. Profondo nelle sue convinzioni, e lo manifestava nelle omelie e nelle riflessioni. Era anche un amico fedele . Se gli avessi confidato delle cose, le avrebbe tenuto nel suo cuore, e aveva sempre una parola di incoraggiamento e sostegno.
La sua intelligenza e l’amore per gli altri hanno fatto sì che allo stesso tempo riuscisse a realizzare la missione di evangelizzazione e la cura dei malati. Era appassionato per la medicina, per lui era una grande vocazione. Grande ricercatore, non si conformava soltanto alla medicina tradizionale, ma cercava alternative: medicina naturale, agopuntura… in modo da completare i vuoti della medicina moderna e offrire agli ammalati differenti opportunità per arrivare alla guarigione. Faceva tesoro di tutto quello che poteva essere di aiuto all’ammalato. Molto creativo, aveva continuamente nuove iniziative per fare passi in avanti.
Nei primi tempi, avevo conosciuto l’ospedale di Neisu come un insieme di piccole case in fango e paglia. Solo qualche anno più tardi, era diventato un grande ospedale di riferimento. P. Oscar aveva sempre il sorriso sulle labbra, la dolcezza nelle mani, l’amore e la tenerezza nel cuore. Se si arrabbiava, era sempre per il bene degli ammalati. Quando il personale infermieristico era lento a reagire, o non espletava i suoi compiti con responsabilità… si arrabbiava. Per lui contava sempre il bene dei suoi ammalati e per questo era rigoroso nel lavoro.
Guariva il corpo e l’anima degli ammalati, pregava molto con loro e dava conforto alle famiglie. Cosciente di essere un intermediario di Dio, si riteneva solo uno strumento attraverso il quale Dio guariva gli ammalati. Si faceva prossimo per tutti.
La tomba di Padre Oscar Goapper
Ho trascorso molto tempo con lui, visitando gli ammalati, curandoli e intervenendo chirurgicamente secondo il bisogno e le urgenze. Lavorare con padre Oscar era essere complementari. Era bello e gradevole lavorare con lui. Ricordo anche che siamo stati assieme per un mese di formazione medica, a Kisangani e mi era di esempio il suo forte desiderio di sapere, imparare, fare bagaglio di nuove tecniche per rendere un servizio sempre migliore per l’ammalato; era la sua preoccupazione.
Trovandoti con lui, trasmetteva sempre la gioia di vivere, l’entusiasmo. Per dirla tutta, padre Oscar è stato un fratello, un grande amico, un bravo collega e un vero compagno di strada. Grazie di cuore, padre Oscar.
Fr. Duilio Plazzotta, Missionario Comboniano.
Scuola Padre Oscar Goapper a Santa Fé in Argentina
Nel 2009 la Casa Madre dei Missionari della Consolata, Corso Ferrucci 14, Torino, ha compiuto 100 anni. Essa fu voluta espressamente dall’Allamano, iniziata nel 1907 e inaugurata nel 1909. L’Allamano la frequentò con regolarità, considerandola il luogo più adatto per curare la formazione missionaria dei suoi figli.
Tra i tantissimi scritti che padre Francesco Pavese ci ha lasciato, continuiamo ad attingere informazioni interessanti relative ai tempi, all'opera e alla spiritualità del Beato Allamano, al lavoro delle Missionarie e dei Missionari nelle varie parti del mondo. In questo scritto ci viene narrato il sorgere delle due Case Madri a Torino. Buona lettura!
(Pietro Trabucco, IMC, Castelnuovo don Bosco)
Nel lontano 1926, i missionari della Consolata arrivavano in Mozambico nella missione Milulu, nel distretto di Zumbo, al confine con lo Zambia, oggi territorio della diocesi di Tete eretta nel 1962. La presenza dei figli dell’Allamano in questa missione poi è stata interrotta per lunghi anni.
I nostri missionari sono tornati a Tete soltanto nel 2012 con la nomina di Mons. Ignazio Saure, IMC, come vescovo della diocesi. Nel 2017, Mons. Ignazio Saure è stato nominato arcivescovo di Nampula, e la diocesi di Tete ha avuto il padre Sandro Giancarlo Faedi, IMC, come amministratore diocesano per due anni.
Il 12 maggio 2019, il Signore ha dato al popolo di Tete il suo quinto pastore nella persona di Mons. Diamantino Guapo Antunes, missionario della Consolata, portoghese di origine, che ha scelto come motto per il suo episcopato le parole “Gaudium et spes” (gioia e speranza), un messaggio di grande attualità.
In occasione del quinto anniversario della sua ordinazione episcopale e approfittando della sua visita a Roma, abbiamo intervistato Mons. Diamantino che ci ha parlato del lavoro missionario nella sua diocesi e della situazione nel paese dell'Africa meridionale.
* Padre Jaime C. Patias e Fr. Adolphe Mulengezi, IMC, Segreteria per la Comunicazione.
Il racconto di Alex Zappalà, direttore del Centro missionario di Concordia-Pordenone (Italia), che ha guidato un gruppo giovanile a Oujda: "Viviamo in una parte di mondo in cui facciamo tante cose ma non abbiamo il tempo per stare accanto alle persone, la missione è questo. Troppe vittime di tratta, non possiamo più tacere". Padre Patrick Mandondo, missionario della Consolata: fasciamo le ferite di chi attraversa il confine, l'anno scorso 3.800 giovani, e salviamo i prigionieri dei trafficanti. "Venite a visitarci"
Fasciare le ferite di chi percorre i deserti inseguendo il sogno di una vita senza guerre, dittature, privazioni. È quanto da anni fanno i Missionari della Consolata che vivono a Oujda, la città marocchina più vicina, solo sette chilometri, al confine con l'Algeria. Un confine sanguinoso, irto di ostacoli per chi vuole oltrepassarlo, sul quale nel 1963 si consumò la famigerata Guerra delle Sabbie, uno degli apici di quell'antagonismo che separa ostilmente i due Paesi pur accomunati da molti elementi linguistici, religiosi, etnici. Differenze storiche, politiche e ideologiche dalla loro rispettiva indipendenza influenzano tutt'ora pesantemente i rapporti e a farne le spese sono proprio le persone migranti che tentano di risalire dalle regioni subsahariane verso la Spagna scegliendo, o costretti a scegliere, quella rotta in cerca di un futuro vivibile.
A gettare luce su una realtà di cui poco si parla è stato negli ultimi giorni Alex Zappalà, direttore del Centro missionario diocesano di Concordia-Pordenone che, su Popoli e Missione, ha raccontato l'esperienza di accompagnamento, dal 21 al 29 aprile, di una quindicina di giovani del gruppo "Missio Giovani" fino a Oujda. Un viaggio di spiritualità missionaria a contatto con le vite stremate di persone che qui trovano un luogo di sosta, di cura, di ripartenza. Un viaggio di conoscenza sul campo dopo un anno di lavoro sui temi dell'accoglienza e della migrazione, che ha fatto riscoprire il vero senso della missione: "stare con", al di là del "fare".
Ascolta l'intervista ad Alex Zappalà
Quando Alex e i suoi ragazzi sono giunti a Oujda, un'ottantina di altri giovani africani erano presenti dai padri della Consolata. E subito è partito uno scambio, un ascolto di storie anche "impronunciabili", tanto il dolore. "Quasi tutti venivano anche da quattro anni di cammino, attraverso il deserto, o nelle prigioni della Libia. Ci hanno raccontato di violenze, abusi visibili dentro i loro occhi. C’era però anche tanta forza e desiderio di proseguire il viaggio per inseguire il loro sogno. Pochi fanno marcia indietro. Se tornano indietro è perché non hanno più soldi, per esempio. Oppure pensano che il loro sogno non è più alla propria portata".
La missione tra i migranti aiuta a ricucire cicatrici . Vite che recuperano una dignità
C’è un continuo via vai, racconta Alex. I missionari stanno accanto ai migranti, li sfamano, li curano. Questi arrivano con gambe rotte, ferite. I religiosi, che sono aperti ad accoglierli 24 ore su 24, li portano in ospedale, se necessario. L’anno scorso sono passati da qui 3.800 persone, il 10 percento sono donne e bambini. Arrivano per lo più ragazzi maschi, minorenni non accompagnati e giovani. La maggioranza proviene dalla Guinea Conakry, circa il 60 percento. Poi arrivano dal Sud Sudan, costoro preferiscono intraprendere la rotta verso il Marocco pur di evitare la Libia. Arrivano anche da Camerun, Costa D’Avorio, Mali, Ciad, Burkina Faso. Alcuni anche dal Congo, dal Benin, dal Togo, dal Senegal. Chi ha attraversato la Libia, ha tentato più volte, è stato maltrattato nelle carceri, vittima di ogni genere di abusi. C'è chi ha provato la via verso la Tunisia, se falliscono quella tentano in direzione Marocco nella speranza di raggiungere Melilla, altra dura frontiera tra l'Africa e l'Europa.
"Il nostro lavoro è di testimonianza cristiana e sostituisce la mancanza di operatori capaci di portare avanti questa realtà di accoglienza", spiega a radio Vaticana, padre Patrick Mandondo, IMC, parroco di San Luigi, responsabile della pastorale migratoria del Centro parrocchia Accueil migrants Oujda (AMO). Originario della Repubblica Democratica del Congo, si è specializzato in Teologia pastorale e Mobilità umana a Roma, dove nel 2020 è stato ordinato sacerdote.
Dal 2022 è in Marocco dove porta avanti, insieme ai suoi due confratelli, questo progetto assunto dalla diocesi di Rabat e avviato da un prete locale nel 2018. "È una esperienza molto ricca e sfidante - racconta - abbiamo pochi mezzi, viviamo di provvidenza e non abbiamo possibilità economiche adeguate, considerato che si tratta di un progetto che richiede molti soldi, fino a 300 mila euro l’anno". Spiega come tanti ragazzi arrivano con i piedi spaccati, "se un giorno venite a trovarci lo vedrete con i vostri occhi".
Ascolta l'intervista a padre Patrick Mandondo
Per i minori soli i missionari hanno creato un programma di alfabetizzazione e per i più grandi uno professionale (elettricista, panettiere…). "Valutiamo caso per caso come aiutarli", afferma Patrick da questa città di transito dove, precisa, non ci sono strutture di accoglienza, né statali né delle associazioni. "Qui la Chiesa è proprio un ospedale da campo, come dice Papa Francesco. È una Chiesa che si apre alle sofferenze". Quella di San Luigi è l’unica parrocchia di una città di 600 mila abitanti, dove i cristiani non arrivano all'1 percento della popolazione. "La nostra piccola comunità è formata in maggior parte da giovani dell’Africa sub-sahariana venuti qua per studiare con borse di studio del Marocco. Frequentano la messa domenicale, quasi un centinaio, poi durante la settimana non li vediamo perché impegnati nelle loro attività. Noi dunque portiamo avanti il progetto con i migranti applicando il nostro carisma di missionari ad gentes. Per noi la promozione umana è molto importante". E insiste nel descrivere il confine tra i due Paesi, un fossato con due muri presidiati da ingenti forze di polizia che spesso usano violenza nei confronti di chi intende attraversarli.
Vite che non ce la fanno. La missione non è solo 'fare', è soprattutto 'stare accanto'
"Ci raccontano le difficoltà vissute, come hanno attraversato il deserto, come sono stati venduti da trafficanti, deportati nella foresta abbandonati a se stessi, depredati di tutto, privati di cibo e acqua. Raccontano in lacrime questi ricordi", prosegue Patrick che insiste sul rischioso lavoro che i religiosi fanno per salvare i migranti dalle minacce dei trafficanti. "Noi facciamo un lavoro molto pericoloso perché andiamo nei quartieri a liberare questi ragazzi maltrattati dai mafiosi". Racconta di persone al di qua e al di là dei del confine che prelevano questi ragazzi vittime di una vera e propria tratta. "Sono merce, valgono circa 300 euro a testa". Arrivati in Marocco vengono bloccati nelle "case" dei trafficanti i quali, riferisce Mandondo, cominciano a ricattare le loro famiglie di origine. Il sacerdote ricorda quando una volta ne ha quaranta di ragazzi lasciati in una stanza di tre metri per quattro. Una volta intercettati, i religiosi cercano di fare un'opera di mediazione non senza il rischio di essere picchiati. "Spesso capita. Alla fine riusciamo". L’appello che il parroco fa alla comunità internazionale è di non considerare la migrazione come un problema. "La gente non cerca di sapere perché la gente si muove. Dobbiamo andare alla radice delle questioni. Dobbiamo dare dignità".
Su questo impegno di ridonare una dignità persa insiste molto Zappalà. "Questa cosa ci ha spiazzato. Bisognerebbe creare, e non vale solo per l’Italia, dei canali regolari attraverso i quali questi ragazzi possano giocarsi una chance", sottolinea. "I visti o non ci sono o sono pochissimi. Sono persone dentro una tratta che sta facendo morti su morti. Non possiamo più tacere. Chiudersi per paura significa innazitutto perdersi la ricchezza dell’incontro con l’altro". E ricorda come i ragazzi ventenni e trentenni che ha guidato a Oujda abbiano potuto condividere i sogni dei loro coetanei. "Un giovane tra loro, Jacob, quattro anni di cammino alle spalle ha il sogno di fare lo chef. Non ha mai smesso di sorridere con noi pur raccontando il dramma del suo percorso. L’ultimo giorno, al momento dei saluti, si è tolto la maglietta con i colori della sua terra di origine, la Guinea Conakry, e l’ha data a una ragazza dei nostri. 'Voglio che tu non ti dimentichi', le ha detto. Lei ha donato la sua felpa, era quella della Gmg in Portogallo. Da allora ci sono canali di comunicazione tra i giovani che sono diventati amici.
Dopo la sosta
"Se ci perdiamo l’umanità dell’altro allora non avremo più freno nello schiacciare un bottone e far saltare tutti per aria", conclude Alex che sintetizza il frutto più prezioso di questo viaggio. "Noi siamo partiti senza un progetto particolare da fare. Ma siamo stati con loro. Spesso alla parola missione associamo solo la dimensione del ‘fare’. Ma lo ‘stare’ vale ancora di più, anche quando non puoi fare nulla. Viviamo in una parte di mondo in cui facciamo tante cose ma non abbiamo il tempo per stare accanto alle persone. Le nostre giornate sono scandite, fin da piccolissimi, da agende pienissime. Abbiamo perso il gusto di stare e raccontarci, di incrociare lo sguardo dell’altro".
Alex osserva come l'esperienza alla frontiera abbia fatto riscoprire il valore profondo dell’umanità. "Non è una lettura 'moderna' del Vangelo, questa, è sempre stato così al tempo di Gesù che chiedeva appunto di ‘stare con’, di mettere al centro l’altro per avere uno sguardo più tenero. Che loro possano credere - è il suo auspicio - che da questa parte di mondo non è vero che ci sono solo persone che non ti vogliono ma che ci sono persone che si aprono. La paura porta solo distorsione della verità. C’è una parte di mondo di cui ci possiamo ancora fidare e che deve vincere in qualche modo: è il profumo del Regno di cui ci ha parlato Gesù".
* Antonella Palermo Fonte - Città del Vaticano. Pubblicato originalmente in: Vatican News