In una edizione speciale interamente dedicata alla figura di Giuseppe Allamano, la rivista “Dimensión Misionera” curata della Regione Colombia, esplora varie dimensioni della sua eredità esistenziale, carismatica e missionaria.
La copertina presenta un'opera di padre Carlos Zulaga (CAZ), in cui il Padre Fondatore è presentato con linee geometriche sul volto. Secondo l'artista, si tratta del “kipará”, che nella lingua "êpera Pedea" del popolo Emberá, gruppo etnico della Colombia, designa una pittura del viso e del corpo di profondo significato nella loro struttura cosmologica.
Padre Salvador Medina, direttore della rivista “Dimensión Misionera”, afferma che questa figura non solo ispira, ma incoraggia la vita, la contemplazione e l'azione, sottolineando che "in un mondo segnato da sfide e disuguaglianze, la sua eredità ci ricorda l'urgenza della missione evangelizzatrice, la necessità di costruire ponti di dialogo tra le culture e l'importanza di lavorare instancabilmente per un mondo giusto e fraterno".
Secondo Santiago Quiñonez, giornalista e direttore di questa pubblicazione monografica, la 349ª edizione si presenta come “un pellegrinaggio nel cuore dell'Allamano, guidato da chi conosce bene questo luogo, lo frequenta e lo vive: la sua famiglia, i missionari e le missionarie della Consolata”.
La pubblicazione accenna anche al fatto che, parlando dei missionari e missionarie, ogni articolo vuol offrire “…diverse sfaccettature, alcune già note e altre molto nuove, del loro essere, capire e operare missionario: la passione per l'evangelizzazione, l'impegno per la giustizia sociale, l'amore profondo per i più bisognosi, l'interesse per i media e l'instancabile lavoro per costruire il Regno di Dio, già su questa terra”.
“Dimensión Misionera” aspira ad essere uno spazio di incontro e di riflessione per tutti coloro che si sentono chiamati alla missione. In questa nuova fase, la rivista intende continuare a offrire contenuti di qualità che alimentino la nostra fede, rafforzino il nostro impegno missionario e ci ispirino ad andare avanti nella costruzione di "un altro mondo possibile".
* Equipe di comunicazione IMC Regione Colombia.
I missionari della Consolata che operano in Venezuela si sono radunati per la loro IX Conferenza con il motto "Camminatori della consolazione e della speranza". Il gruppo incontrandosi vuole ricollegarsi alle parole che più volte hanno ispirato il Fondatore, il Beato Giuseppe Allamano: "Consolate, consolate il mio popolo" (Is 40,1).
Questo momento di grazia si svolge dall'8 al 12 luglio presso il Centro di Animazione Missionaria (CAM) di Barquisimeto con la partecipazione dei membri della Direzione Generale: padre James Lengarin, padre Michelangelo Piovano e padre Juan Pablo De los Rios, arrivati da Roma, i 14 missionari della Consolata insieme a tre LMC, tutti che operano nelle missioni di Caracas, Barlovento, Barquisimeto, Tucupita e Nabasanuka.
È questa anche una un’occasione di gioia dare il benvenuto ai nuovi missionari che si uniscono alla nostra Delegazione. La nostra missione in Venezuela è offrire la consolazione che Dio stesso offre all'umanità.
Il Consigliere Generale per l’America, padre Juan Pablo ha ricordato le parole di Papa Francesco che ci invita a non dimenticare di essere una Chiesa in uscita, sottolineando la necessità di concentrarsi sull'ad gentes del nostro Istituto.
“L'obiettivo di ogni cristiano è quello di essere discepolo missionario e di rendere discepoli gli altri. Dobbiamo riflettere personalmente sulla capacità di uscire da noi stessi, dai nostri interessi personali, per lasciare agire lo Spirito, lavorare in unità di intenti, concentrando lo sguardo insieme”.
Per presentare e riflettere sulla realtà del Venezuela, siamo stati aiutati dall'esperienza del gesuita padre Manuel Zapata, sociologo, ricercatore e amico dell'Istituto. Padre Manuel propone il suo intervento come un discernimento e uno sguardo profondo su ciò che stiamo vivendo nel Paese. "Guardare la realtà può generare angoscia e disperazione, ma può anche aiutare a scoprire le manifestazioni dello Spirito di Dio che accompagna le persone” e continua il relatore: “Ci sono fattori che ostacolano il progresso, ma nel popolo venezuelano c'è anche una forza di resilienza molto elevata che si manifesta nel modo in cui le persone vanno avanti, anche di fronte alle avversità”.
In Venezuela esistono diverse forme di povertà ed esclusione sociale: si può parlare di povertà economica; di povertà sociale risultata dalla mancanza di opportunità e da alti livelli di disuguaglianza sociale; di povertà umana o danno antropologico; di povertà spirituale nel deterioramento dei valori; di povertà educativa che si manifesta, tra le altre forme, nelle lacune nell'accesso alle tecnologie di comunicazione e informazione.
La povertà nelle sue diverse realtà riguarda il 51,9% della popolazione. L'89% soffre di insicurezza alimentare. Ci sono carenze nei servizi pubblici, nell’ l'istruzione e nella sanità in tutto il paese.
Il padre Manuel Zapata, SJ, sociologo, ricercatore e amico dell'Istituto in Venezuela
Si parla di 8 a 9 milioni di venezuelani, specialmente giovani, che sono emigrati in altri paesi e molti continuano a migrare, nell’attesa di un possibile cambiamento politico. Le conseguenze di questo fenomeno migratorio includono l'invecchiamento della popolazione , l’aumentano dei bambini non accompagnati dai genitori e affidati ai nonni o ad altri parenti. C'è grande risentimento verso lo Stato a causa del problema migratorio. La pornografia digitale è diffusa come conseguenza della vulnerabilità, così come la presenza di situazioni di traffico di esseri umani.
A livello psicosociale, il Venezuela presenta ferite multiple dovute alla frammentazione delle comunità sociali, delle famiglie e anche delle comunità cristiane. La riconciliazione è una necessità nel Paese, anche se non sappiamo o non c'è una proposta concreta su come attuarla.
Come evidenziato in precedenza, è tuttavia positiva l'alta resilienza dei venezuelani e nonostante il significativo deterioramento della salute mentale e l'aumento dei suicidi, l'ottimismo è ancora alto nel Paese.
Superare la paura di andare oltre le frontiere
I missionari della Consolata sono arrivati in Venezuela nel 1970 con il padre Giovanni Vespertini, inizialmente nella diocesi di Trujillo, assumendo la parrocchia di La Quebrada. Nel 1974, con l'arrivo di padre Francesco Babbini, il Gruppo IMC Venezuela divenne autonomo sotto la responsabilità della Direzione Generale staccandosi dalla Regione Colombia. Nel 1982 il Gruppo è diventato una Delegazione, dedicata alla Vergine di Coromoto, patrona del Venezuela.
Attualmente sono 15 i missionari della Consolata provenienti da diversi Paesi che lavorano in Venezuela: a Caracas (quartiere Carapita e nella sede della Delegazione), Barquisimeto (Centro di Animazione Missionaria), Barlovento (Pastorale afro in quattro parrocchie), Tucupita e Nabasanuka (Pastorale indigena con il popolo Warao). Mons. Lisandro Rivas Durán, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Caracas.
La participazione dei LMC alla IX Conferenza: Fatima Contreras, Roger Quiñones e Damari Mujica.
In Venezuela operano anche le Suore Missionarie della Consolata (MC) e i Missionari Laici della Consolata (LMC) sono presenti in varie attività missionarie.
Il programma della IX Conferenza prosegue con un lavoro di gruppo sulle nostre realtà come Delegazione IMC. Le giornate si concludono sempre con un momento di preghiera animata dalle diverse équipe secondo le opzioni missionarie: pastorale indigena, pastorale afro, pastorale urbana, AMJV, ecc.
* Padre Beni Kapala, IMC, comunicazione IMC Venezuela.
In questo mese di luglio è in programma la Conferenza della Delegazione IMC Venezuela con la partecipazione del Superiore Generale, padre James Lengarin, e di padre Michelangelo Piovano, Vice Superiore Generale e padre Juan Pablo De los Rios, Consigliere Generale per l’America. Pubblichiamo una cronaca della visita scritta da padre Michelangelo.
Partiti da Roma siamo arrivati a Caracas giovedì 5 luglio ed il giorno dopo, guidati dal Superiore, padre Nebyu Elias Gabriel, abbiamo avuto la possibilità di visitare, nel centro della città, la casa natale di Simon Bolivar (liberatore dell'America spagnola - Caracas 1783 - San Pedro Alessandrino, Santa Marta, Colombia 1830) e la Cattedrale di Caracas. La sera, nella nostra casa, un incontro di accoglienza e fraternità con i confratelli arrivati da Nabasanuka, le Missionarie della Consolata ed i Laici Missionari della Consolata, cena e musica popolare che ci hanno fatto entrare nello spirito festivo e di condivisione della gente e dei nostri missionari.
Comuinità San Giuseppe a Carapita
Il sabato è stato un giorno speciale che abbiamo iniziato con la celebrazione della Messa nella comunità delle Suore di Madre Teresa (Suore della Carità) presieduta da padre James Lengarin e poi, accompagnati dal parroco della Parrocchia dei Santi Gioacchino e Anna di Carapita, padre Charles Gachara Munyu, abbiamo visitato le varie comunità sparse sulle alte colline e montagne che circondano Caracas.
In ognuna di esse alcuni membri della comunità ci stavano aspettando per accoglierci, farci vedere la loro comunità e, in un breve incontro, presentarci i vari lavori pastorali e sociali che stanno facendo. Le varie comunità sono disseminate in un enorme agglomerato di case e casette costruite una sull’altra e arroccate sulle colline. Una realtà molto povera comune nelle periferie delle grandi città dell'America Latina, dove la gente lotta e va avanti dandosi da fare per vivere e sopravvivere.
Il senso delle comunità lì presenti è proprio quello di dare speranza, infondere coraggio e soprattutto dare una testimonianza di presenza e vita cristiana.
Comunità Consolata a Carapita
Così è per le Comunità di Nostra Signora della Speranza che si trova nella parte più alta della collina, quelle dedicate alla Consolata, a San Giuseppe, alla Madonna Miracolosa e alla Grotta di Betlemme.
In ognuna di esse e nella parrocchia si celebra la Messa ogni domenica, si insegna il catechismo, c’è il gruppo dei giovani e un prezioso servizio caritativo.
Le responsabili di comunità sono per lo più donne che con grande spirito di servizio portano avanti la vita della comunità con le loro attività pastorali.
In particolare, ogni giorno nella sede della parrocchia, vi è una cucina e mensa che prepara il pranzo per 400 bambini ed altri pasti che vengono portati nelle rispettive comunità dove i bambini si ritrovano. È la missione che si fa condivisione, consolazione, partecipazione e alimentazione per chi ha fame ed ha bisogno del pane quotidiano, ma che offre anche il Pane della Parola e dell’Eucarestia.
Nuova cappella per l’Adorazione nella Parrocchia dei Santi Gioacchino e Anna di Carapita
È quasi un miracolo quotidiano che avviene grazie alla partecipazione e condivisione di molti che rende visibile una chiesa in uscita, missionaria e sinodale.
Mentre eravamo nella Cappella della Consolata abbiamo ricordato l’invito che l’Allamano faceva ai nostri Missionari e che abbiamo anche nelle nostre Costituzioni: quello di fare una visita, il sabato, al Santuario della Consolata per chi era a Torino. Non eravamo a Torino, ma a Carapita, nella periferia povera di Caracas nella quale vi lavoriamo da vari anni e dove sono passati tanti missionari e missionarie della Consolata. Abbiamo fatto il nostro pellegrinaggio arrivando ai piedi di questa “Consolata Missionaria”, ringraziando per ciò che anche lì si fa in suo nome con spirito allamaniano e consolatino.
Una scritta sulla parete della Cappella diceva anche: “La Consolata es especialmente nuestra y tenemos que estar felices de tenerla como protectora” (Beato Giuseppe Allamano).
Non è mancato anche un altro bel momento: quello di benedire la nuova cappella per l’Adorazione nella Parrocchia. Uno spazio di preghiera per chi vuole adorare il Signore e stare un po' alla sua presenza, ma anche, come ci diceva il parroco padre Charles, dove portare la vita della gente, delle comunità e tutto ciò che a volte sembra impossibile poter fare o risolvere in una realtà come questa che presenta tante sfide e necessità.
Preparandoci alla canonizzazione del Beato Giuseppe Allamano il 20 ottobre abbiamo trovato qui quanto a lui stava tanto a cuore per poter essere santi e missionari: l’Eucarestia, la Consolata e lo zelo missionario vissuto con spirito di fede, di sacrificio e di amore e attenzione alle persone.
Alla Consolata e al Beato Allamano affidiamo queste comunità, i missionari e laici che vi lavorano e la Conferenza che inizieremo questo lunedì, 8 luglio nel Centro di Animazione Missionaria di Barquisimeto.
* Padre Michelangelo Piovano, IMC, Vice Superiore Generale.
Il Beato Giuseppe Allamano ha sempre promosso un cammino di santità missionaria per i suoi figli e figlie, i missionari e le missionarie della Consolata.
La santità, secondo il Padre Allamano, è premessa necessaria per ogni attività apostolica. Egli insegnava che l'essere precede l’operare. «Prima dobbiamo santificare noi… e fatti santi in poco tempo potremo compiere la nostra missione fra le genti e con gran frutto». Santifichiamo prima noi stessi e poi gli altri. Quanto più uno sarà santo, tante più anime salverà.
Giuseppe Allamano sottolineava che il primo scopo del nostro Istituto è la nostra santificazione, e poi le missioni. «Prima di tutto la nostra santificazione e poi le missioni: la prima cosa che dobbiamo fare è questa, se non facciamo questo, niente. Se non siamo santi, non saremo buoni né per noi, né per gli altri. Nemo dat quod non habet (Non si può dare se non si ha)». Il nostro Fondatore ci ricorda: «Se non si è santi… eh… non si fa niente! Qui non ardet non incendit (Colui che non arde non può incendiare). Si fa ridere il demonio».
Unisciti a noi il 20 ottobre 2024 per celebrare la canonizzazione di Giuseppe Allamano, colui che ci ha donato il nostro carisma missionario e ci ha insegnato che la santità è la chiave per una missione fruttuosa. La sua vita e i suoi insegnamenti continuano a guidarci nel nostro impegno missionario: santificare prima noi stessi e poi il mondo.
* Comunicazione Generale IMC e MC
«Monsignore ma non troppo» (1)
È diventato vescovo della nuova diocesi di Maralal, nel Nord del Kenya, nel 2001. Ha lasciato il suo posto di servizio per raggiunti limiti di età nel 2022. Considerazioni, esperienze, gioie e dolori, condivisi in libertà.
Il mio primo contatto con il futuro monsignore, avviene a Torino, nel 1970. Ricordo che, entrando nel cortile della Casa Madre e dell’annesso seminario teologico, noto una vecchia moto con sidecar (del 1937, di fabbricazione inglese) parcheggiata in un angolo, una di quelle che si vedono nei classici film di guerra. Mi dicono che la usano alcuni degli studenti dell’ultimo anno di teologia per andare a scuola a oltre due chilometri di distanza nei locali del seminario del Cottolengo. Chi la guida è un certo chierico Virgilio Pante, matto per le moto. Una simpatica «pazzia» che non lo abbandonerà mai.
Quando dopo la Pasqua del 1989, arrivo nel Nord del Kenya, destinato alla cittadina di Maralal, la missione è ormai ben piantata. La prima cappellina è stata rimpiazzata da una chiesa spaziosa, c’è l’asilo, il dispensario, la casa delle suore, la scuola primaria con il boarding per quasi duecento bambine, il centro catechistico, il seminario della diocesi di Marsabit, il centro pastorale, il cimitero: un mondo nel quale si muovono oltre seicento persone, una vera e propria cittadella.
Mi guardo intorno incuriosito, faccio domande, cerco di capire. Ho già sentito tante storie sulla missione e i suoi missionari. Tra questi uno di cui si parla con ammirata simpatia è padre Virgilio Pante, che nel 1979 ha fondato il primo seminario della diocesi. Quando arrivo, lui è già stato trasferito tra i Luo, nella nuova missione di Chiga, vicino al Lago Vittoria, ma il suo ricordo persiste perché è impossibile dimenticare quel grande cacciatore che, grazie al suo fucile, aveva assicurato il cibo ai suoi primi seminaristi. E non solo. Quando qualche leone o altro animale diventava pericoloso per gli uomini, attaccando i pastori o avvicinandosi troppo ai villaggi o alle manyatte dei Samburu, gli stessi guardiacaccia lo chiamavano perché andasse con loro nella foresta ad aiutarli a risolvere il problema.
La sua era un’abilità innata, ereditata dai suoi nonni, come lui stesso mi ha confermato sorridendo, solo poco tempo fa. «Da noi, fin da piccoli si andava a caccia. I miei nonni, lassù sulle montagne del bellunese, sono sempre stati bracconieri per necessità. Mio papà ricorda che durante la guerra mangiavano “polenta e osei” e topi, perché c’era tanta fame». Dopo soli tre anni a Maralal, abbastanza per innamorarsi per sempre di quella terra, vengo mandato a Nairobi a lavorare nella rivista The Seed (Il seme) e lì, finalmente, comincio a vivere con padre Virgilio, perché nel 1996 viene nominato vice superiore regionale con residenza nella capitale keniana, nella mia stessa comunità.
Arriva il 2001, l’anno del centenario della fondazione dell’Istituto. È il 30 giugno, stiamo finendo il pranzo. Il superiore regionale, padre Francesco Viotto, si alza e dice: «Scusate se vi interrompo, ma ho una notizia importante da darvi. Il Santo Padre oggi ha costituito la nuova diocesi di Maralal, dividendola da Marsabit. Ha anche scelto il nuovo vescovo, il quale è un missionario della Consolata ed è qui presente tra noi». Ci guardiamo gli uni gli altri incuriositi e il superiore prosegue: «È padre Virgilio Pante». Siamo tutti contenti, ci scappa qualche battuta, siamo sorpresi sì, ma non troppo visti gli anni che il nostro confratello aveva speso con passione nel Nord del Kenya. Stappiamo una bottiglia e scatto un po’ di foto.
Così il 6 ottobre dello stesso anno mi trovo nel grande campo sportivo dell’oratorio della missione di Maralal, diventata sede della diocesi omonima. È il giorno della consacrazione del nuovo vescovo. La gioia è effervescente. Sono arrivati in tanti da tutte le missioni. Il grande prato dell’oratorio è strapieno e coloratissimo. Ci sono tutti: Samburu, Turkana e Pokot, i popoli pastori indigeni, e Kikuyu, Meru, Akamba, Luo e quanti altri vivono nella città o lavorano per il governo. Scatto foto a gogò, mentre con il cuore pieno di gioia accompagno il tutto con un’intensa preghiera. L’avventura che aspetta il nuovo vescovo, infatti è tutt’altro che facile.
La nuova diocesi nata dalla divisione di quella di Marsabit (creata nel 1964), è una realtà con tante bellezze ma anche un sacco di problemi. Estesa 21mila km2 e con circa 144mila abitanti (contro i 70 mila km2 e i 200mila abitanti di Marsabit, dati del 1999), la diocesi coincide con il distretto (oggi contea) Samburu ed è caratterizzata da montagne stupende e pianure aride e semidesertiche, da valli profonde e caldissime e rari fiumi, da mancanza di strade e infrastrutture e da poche terre adatte all’agricoltura, con villaggi sparsi a grandi distanze e gruppi etnici molto diversi tra loro che si contendono l’acqua e i pascoli.
In più, alcune delle terre più rigogliose e ricche di animali sono diventate parchi nazionali o riserve turistiche, e altre sono state date in uso esclusivo ad agricoltori industriali che fanno coltivazioni intensive (disboscando impattano sull’habitat e lasciano poi terreni aridi). Ci sono dodici missioni o parrocchie, attorno alle quali c’è una fitta rete di oltre cento piccole cappelle nei vari villaggi, le quali, durante la settimana, diventano asili per i bambini. In ogni missione ci sono scuole primarie e centri di salute e tante altre attività per aiutare la gente. A Maralal, nella periferia Sud Est della cittadina, c’è il centro di formazione dei catechisti, che sono la spina dorsale della vita di ogni comunità, il seminario (fondato a suo tempo dal nuovo vescovo), una scuola tecnica per ragazzi e una per ragazze. A Wamba, invece, la diocesi ha un fiorente ospedale, una scuola per infermieri, una casa per bimbi disabili e una scuola secondaria per ragazze.
Il lavoro certo non manca e le forze presenti, missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti fidei donum di Torino, missionari Yarumal e diverse comunità di suore, tra cui quelle di Madre Teresa, sono ben impegnate sul territorio. Ma le sfide sono tante.
Monsignor Virgilio è da sempre innamorato di quelle terre dove si può ancora vivere la missione vera, dove la Chiesa può davvero realizzare i sogni del Concilio Vaticano II. Il suo primo viaggio in quelle zone è stato nel 1972, una scappata in moto fino a Loyangallani sulle rive del Lago Turkana che gli ha meritato il «castigo» più bello della sua vita: essere mandato proprio in quella che allora era la diocesi di Marsabit, fondata nel 1964, con monsignor Carlo Cavallera (Imc) che ne era stato il primo vescovo.
Appena saputo della sua nomina, padre Virgilio riprende la sua amata moto e va a visitare a tappeto la sua futura «sposa», per farsi conoscere e soprattutto per prendere coscienza della realtà che lo aspetta.
Nel suo peregrinare arriva a Kawop, un villaggio di Tuum, ai piedi del Monte Nyro, giù nella Suguta Valley ai confini con la contea Turkana. E lì gli si spezza il cuore: vede morte e distruzione ovunque, il villaggio è stato depredato, la chiesetta distrutta, la gente fuggita. È la scintilla che accende in lui una decisione: sarà il vescovo della pace, cosciente che il titolo che porterà, «vescovo», nel suo significato etimologico vuol dire «colui che vigila», come un guardiano, una sentinella. Lui sarà il «guardiano della pace».
Tornato a Nairobi, viene da me. Sa che ho già fatto degli stemmi per altri vescovi. E allora insieme creiamo il suo stemma episcopale dal motto «With the ministry of reconciliation», con il servizio della riconciliazione, sotto l’immagine di un leone che giace con l’agnello (vedi Isaia 11,6-9 e 65,25). Sullo sfondo il monte Kenya, il tutto sotto l’influenza dello Spirito Santo, colomba della pace.
Una leonessa adotta una gazzellina di orice. gennaio 2002.
Davvero nella nuova diocesi la sfida più grande è la pace. Da sempre le varie tribù (scusate, ma allora si diceva così, oggi ci preferisce dire gruppi etnici o popoli indigeni, nda) sono in lotta tra loro per il controllo delle magre risorse (acqua e pascoli), per garantirsi la sopravvivenza. Tre i gruppi principali in competizione, tutti pastori: i Samburu (probabilmente una sezione dei Masai stabilitisi in queste zone montuose); poi i Turkana, di origine nilotica e non circoncisi, molto presenti e attivi nell’Ovest della contea; e i Pokot, nilotici anche loro, stanziati a Sud Ovest.
Quello che padre Virgilio capisce subito, però, è che gli scontri tra le tribù non avvengono più nel modo tradizionale, con lance, razzie e scaramucce che coinvolgevano piccole realtà locali. Oggi i conflitti sono aggravati dalla diffusione capillare delle armi da fuoco che arrivano molto facilmente dalla Somalia; dalle manipolazioni messe in opera da politicanti senza scrupoli, soprattutto in tempi di elezioni; da interessi economici legati al traffico di bestiame; dalle appropriazioni di terre da parte di chi le sfrutta per l’agricoltura intensiva o per la creazione di aree riservate a resort turistici.
Quando padre Virgilio diventa vescovo di quelle terre, però succede un avvenimento eccezionale che diventa quasi un segno divino a conferma del suo impegno e della sua missione davanti a tutta la comunità.
Poco tempo dopo la sua consacrazione episcopale, infatti, nel Parco Samburu, situato nella zona Est della diocesi, una leonessa adotta un cucciolo di orice, un’antilope, permette alla mamma vera di allattarla, la cura e la difende dagli altri predatori (questo purtroppo dura solo due settimane, perché poi un leone si mangia il cucciolo, nda). La notizia è sulla bocca di tutti. La meraviglia è grande. L’avvenimento è considerato un segno del cielo che conferma il motto e lo stemma del nuovo vescovo.
Visita alla chiesa di Kawap distrutta per lotte tribali. Chiesa costruita da padre Cornelio Dalzocchio
L’impegno per la pace è capillare, intenso e mai finito. Tre le aree di intervento: l’educazione, il commercio e la religione.
Il vescovo Pante, che dall’ottobre 2022 è ormai emerito per raggiunti limiti di età, si spiega. «I bambini non sono tribalisti. Per questo è importante offrire loro occasioni di convivenza e formazione insieme. Da qui la costruzione dei dormitori e delle scuole per la pace, dove bambini Samburu, Turkana e Pokot possono vivere, giocare e studiare insieme, diventando amici e superando gli stereotipi e i pregiudizi».
Poi i mercati. «Può sembrare una stranezza, ma come dice un proverbio swahili biashara haigombani, “il mercato non crea nemici”, anzi diventa luogo di incontro e scambio dove ciascuno può contribuire con il meglio che ha e trovare quello di cui ha bisogno. Con il mercato la gente si incontra, fa affari, si conosce, crea relazioni alla pari, scoprendo che è bello aver bisogno gli uni degli altri».
E la religione. «Riunire i diversi gruppi a pregare insieme aiuta, fa crescere, aumenta la conoscenza reciproca, fa vincere i pregiudizi.
Ricordo una volta che abbiamo invitato i tre gruppi a un incontro di preghiera vicino a Barsaloi. I Samburu e i Turkana, che venivano a piedi da villaggi relativamente vicini, erano già presenti. Poi da lontano è arrivato un camion carico di Pokot. Prima sono scesi i giovanotti nelle loro tenute da guerrieri e poi donne e bambini. È stato un momento di panico. C’è voluto tutto il mio sangue freddo e il mio prestigio per evitare un fuggi fuggi. Poi hanno iniziato a pregare insieme e a cantare, e il canto è diventato danza. Bellissimo. Allora sì, è stata davvero una bella festa, senza più paure e tutti uniti come figli dello stesso Padre».
Villaggio abbandonato per guerre tribali
«I risultati del lavoro fatto dalla diocesi sono tanti e belli, anche se non si è mai finito, perché c’è sempre qualcuno che ha interesse a fomentare le divisioni per il proprio vantaggio, sia per il traffico di armi che per quello del bestiame rubato, che spesso e volentieri finisce poi venduto a Nairobi o addirittura spedito a Mombasa per il mercato dei paesi arabi».
Il vescovo ricorda quando un giorno è stato chiamato a Nairobi per una riunione di una commissione governativa impegnata a capire come implementare la pace nel territorio. Dopo averli ascoltati, ha detto loro parole chiare. «Voi mandate l’esercito per farvi consegnare le armi, spaventate la gente con atteggiamenti minacciosi, e vi ritenete soddisfatti quando riuscite a farvi consegnare un centinaio di fucili, dimenticando che ne rimangono almeno altri 20mila in giro. E che poi, chi ve li consegna, ne acquista degli altri più moderni. Signori non serve disarmare le mani, occorre disarmare la testa e il cuore. Per questo dovete costruire strade, potenziare le scuole, offrire servizi sanitari, migliorare il livello della vita della gente. Questa è la via della pace, quella che costruisce davvero una nuova società».
L’impegno di monsignor Pante in questi 21 anni di episcopato, dal 2001 al 2022, non è stato solo per la pace. Una delle sue priorità è stata quella di far crescere la Chiesa locale nella sua completezza.
All’inizio del suo mandato, la maggioranza delle parrocchie era nelle mani dei missionari, di cui tanti ancora europei. Oggi sono quasi tutte gestite dai sacerdoti locali. I Missionari della Consolata hanno ancora tre missioni, ma solo una guidata da un europeo, padre Aldo Giuliani, un trentino sempre arzillo e appassionato nonostante gli anni. I sacerdoti locali sono ora 26, anzi 25 perché purtroppo uno è morto all’inizio di maggio per malattia. Di questi, monsignore ne ha ordinati ben 21. Un bel risultato, anche se il cammino per avere una Chiesa davvero inculturata, partecipativa (o sinodale, come si ama dire oggi) e corresponsabile, che non dipenda troppo dagli aiuti esterni e con la mentalità di «la Chiesa siamo noi», è ancora tutto aperto.
Il cammino è impervio, anche perché ci sono delle situazioni oggettive da affrontare. Una di queste è la povertà aggravata anche dal cambiamento climatico. Negli ultimi tre anni c’è stata una grande siccità, che ha causato la morte di persone e di quasi l’80% delle vacche. Finita la siccità, quest’anno sono arrivate le piogge torrenziali che stanno creando disastri e causando oltre 200 morti soprattutto a Nairobi e sulla costa. Ma anche nel Samburu hanno distrutto ponti, allagato villaggi, travolto viaggiatori. La rete stradale, già malridotta, non ci ha certo guadagnato e i poveri si sono ulteriormente impoveriti.
Benedizione del Dormitorio della Pace per le ragazze. 19/5/2012
Ci sono poi altre due aree di impegno della Chiesa che le hanno permesso di entrare in un territorio che un tempo, fino ai primi anni Cinquanta, era totalmente off limits per i missionari e trascurato dal governo (coloniale e non): la scuola e la sanità.
Arrivando in un villaggio, i missionari per prima cosa hanno costruito una capanna polivalente: asilo o scuola per i bambini durante la settimana, cappella la domenica attorno al catechista, e periodicamente centro di salute e spesso anche scuola di maendeleo (che include sviluppo, cucito, igiene) per le donne.
Con il tempo hanno costruito vere e proprie scuole con relativi dormitori per i ragazzi che non potevano tornare ogni sera alle loro capanne spesso distanti decine di chilometri.
I centri di salute sono diventati capillari, mentre a Wamba fioriva la «Rosa del deserto», il favoloso ospedale con annessa scuola per infermieri e casa per bimbi disabili, che tanto bene ha fatto al territorio.
Le due aree di impegno rimangono importanti tutt’oggi, perché la scuola, conferma il vescovo, è essenziale per la formazione delle persone e per renderle protagoniste della loro storia di lotta alla povertà e a certe tradizioni, come la mutilazione genitale femminile (Fgm, female genital mutilation), che non aiutano a costruire un mondo libero e pacifico.
Una delle soddisfazioni più grandi di monsignor Pante è vedere i ragazzi e ragazze che hanno studiato nelle scuole della missione diventare insegnanti, infermieri, medici, operai, tecnici, anche politici e pure missionari, come l’attuale superiore generale dei Missionari della Consolata, un samburu nato sull’auto mentre la mamma veniva portata all’ospedale di Wamba.
Uno dei risultati più belli è stato raggiunto con le donne. Quante ragazze, uscite dalla scuola secondaria di Santa Teresa a Wamba, sono diventate insegnanti, infermiere, suore, catechiste, attiviste contro la Fgm e anche donne impegnate nella politica, chief locali e attiviste per la pace. (1 – continua)
* Padre Gigi Anataloni, IMC, rivista Missioni Consolata. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it
Mercato Pokot e Samburu, luogo di incontro, dialogo e collaborazione