Giornata storica non solamente per il cardinale Giorgio Marengo e per gli altri vescovi che oggi sono stati creati cardinali, ma anche per la Chiesa che è in Mongolia e per i Missionari della Consolata. È impegnativo ricevere la responsabilità di contribuire alla guida della Chiesa universale a soli 48 anni, ma è un segno di grande stima da parte di papa Francesco per il servizio che è stato fatto e che si continua a fare in Mongolia e nel mondo.
Arrivando a Roma, mons. Giorgio Marengo, vescovo e prefetto apostolico, ha portato con sé un pezzo di Mongolia ed in particolare è stato accompagnato dal suo segretario don Peter Sanjaajav, che è uno dei primissimi preti mongoli, il secondo per esattezza, e due catechiste: Rufina Chamingerel e Monica Odzaya. Parlando con loro si respira la freschezza di una Chiesa che è agli inizi e che gode di quella benedizione che arriva diretta dai primi secoli, quando molte donne e uomini lasciavano trasparire dai loro volti la gioia di aver incontrato Gesù e la sua Bella Notizia e con il loro entusiasmo contagiavano altri ad incamminarsi per la stessa via.
La nomina a cardinale rappresenta una profonda attenzione del Santo Padre alla Chiesa che è in Mongolia, una realtà in cui la Chiesa è in minoranza ed è segnata da marginalità. E un grande incoraggiamento alla piccola comunità cattolica a rinnovare con fervore la propria fede.
«La Mongolia è grande e la popolazione in rapida crescita, ma molto esigua rispetto alle dimensioni del territorio. Come catechisti siamo pochi, una trentina in tutto il Paese e gli strumenti per l’annuncio non sono molti, abbiamo una traduzione della Bibbia fatta dai protestanti e poco altro, ma la ricchezza più grande per noi è la presenza dei missionari: sono “vite che parlano”».
«La felicità più grande - spiega Rufina - è proprio il poter parlare ai nostri connazionali di Gesù e del suo Vangelo, a volte, però, ti senti piccola di fronte a quello che devi annunciare e davanti a uomini e donne che spesso sono più grandi di te, con un’esperienza di vita ricca e che ha attraversato tante difficoltà».
«In Mongolia molte persone vivono ancora prive dei mezzi minimi per vincere la povertà ed è difficile pensare ad altro quando sei tutto intento a sopravvivere. Ci sono anche alcune persone benestanti che hanno studiato all’estero, ma a loro la proposta cristiana non interessa molto - spiega Monica - Quando vedo un gruppo di catecumeni di quindici persone che con il tempo si assottiglia e rimangono solo in quattro mi chiedo: sto sbagliando qualcosa? Come mai alcuni se ne vanno? È molto bello, però, accompagnarli e parlare loro di una Persona che ha cambiato la mia vita».
«Nel 2003 durante la notte di Pasqua sono stato battezzato e l’anno seguente ho iniziato a fare il catechista nella mia parrocchia, eravamo tra i primi. Una notte - racconta don Peter - ho sentito come una voce che diceva per tre volte: "Peter, Peter, Peter" e ho pensato che forse era una chiamata particolare. Le condizioni in Mongolia non sono semplici ed io ho iniziato ad andare a scuola solamente a quindici anni. Eppure, sono riuscito a portare avanti gli studi, sono partito per la Korea per frequentare il seminario e mi son detto: “Se nonostante abbia iniziato così in ritardo la scuola sono riuscito ugualmente ad arrivare fin qui, forse è un segno che la mia strada è proprio questa”. Adesso sono viceparroco della cattedrale e andare a trovare a casa le persone, in particolare quelle che sono più in difficoltà mi riempie di gioia».
Nella foto da sinistra a destra Monica Odzaya, Rufina Chamingerel, Mons. Giorgio Marengo, don Peter Sanjaajav
«Ho conosciuto p. Giorgio nel 2005 - ricorda don Peter -, quando era un giovane prete alle prese con lo studio della lingua mongola, poi è diventato responsabile di una delle più importanti missioni della Mongolia, ad Arvaikheer, vicino a Karakorum, dove Gengis Khan, molti secoli or sono aveva radunato i responsabili di tutte le religioni allora presenti nel Paese. Due anni fa p. Giorgio è diventato vescovo ed ora cardinale, ma è rimasto sempre se stesso, con la sua gentilezza e attenzione alle persone, con la sua passione missionaria. Gli auguro di continuare così e di non perdere la sua genuinità».
«Quando vedo p. Giorgio vorrei diventare come lui, con il suo sorriso, con la sua grande pazienza con tutti... - confida Rufina - P. Giorgio, ti siamo vicini!»
«Hai una responsabilità molto grande adesso, p. Giorgio, hai bisogno di un’équipe: noi ci siamo, qualunque cosa deciderai di fare, ti sosterremo».
Grazie p. Giorgio, grazie don Peter, Monica e Rufina perché ci trasmettete la bellezza di scoprire un mondo nuovo, una via non ancora percorsa, e contagiate anche noi con la voglia di essere cristiani veri, trasparenti, desiderosi di trasmettere con tanto rispetto ciò che ha conquistato il vostro cuore.
Per noi Missionari e Missionarie della Consolata la celebrazione [in questo santuario della Consolata ricordando il centenario della morte di Giacomo Camisassa, fedele collaboratore del Beato Allamano] è una celebrazione speciale e diventa doppiamente speciale perché ricordiamo un grande che insieme all’Allamano, un altro grande, ha sognato, realizzato e costruito due istituti missionari.
I nostri missionari e le nostre missionarie della Mongolia ci hanno insegnato a dire che la missione in Asia, ma non solo lí, possiamo farla solo in punta di piedi. La missione non ha bisogno di pompe, applausi, protagonismi ma si fa nell’unità quotidiana cercando di costruire il vangelo pezzo per pezzo con le persone che il Signore mette sul nostro cammino.
La prima volta che sono andato in Mongolia, a visitare i nostri confratelli e le nostre consorelle, eravamo con Giorgio nel cuore della Mongolia nella prima parrocchia lontana dalla capitale. La domenica abbiamo celebrato la messa con quindici cristiani e qualche curioso che ci sbirciava da fuori e poi dopo ci siamo incontrati con questi cristiani e abbiamo preso qualcosa assieme.
Quello che mi ha segnato per anni e lo porto ancora nel cuore, è che mi sono seduto vicino a un giovane di approssimativamente diciott’anni che vedevo veramente contento, sprizzava gioia da tutte le parti. Con l’aiuto di un missionario che mi ha tradotto mi sono sentito di chiedergli
– Ma perché sei così contento?
La risposta che lui ha dato è stata la più bella che si possa dare e fino ad ora non ne ho trovate altre
– Io voglio essere cristiano perché essere cristiano mi da la gioia di vivere.
C’è tutto; questo giovane ragazzo ha capito tutto! Essere cristiani in mezzo a tutti gli altri che non lo sono, appartenendo a un piccolo gruppo come sono i cristiani della Mongolia, e manifestare la gioia che si vive incontrando a Cristo, per me è la cosa più bella.
Questo ha caratterizzato i nostri grandi: Allamano e Camisassa ed è per quello che dopo cent’anni oggi ricordiamo ancora il Camisassa. Sono delle persone che hanno fondato la loro vita si Gesù Cristo; hanno cercato solo di vivere il vangelo e di fare la volontà di Dio. La volontà di Dio li ha portati a stare 42 anni in questo santuario in amicizia, in compagnia e in collaborazione stretta e insieme hanno realizzato questo grande sogno: la creazione dei due grandi Istituti Missionari della Consolata.
Il Camisassa era un uomo di grande intelligenza e non era solo l’uomo concreto che sapeva fare i lavori manuali e materiali. Era un uomo di visione, il primo nella teologia, esperto in diritto canonico e civile, un’autorità riconosciuta nella Torino di quel tempo... eppure era di una umiltà tale che quando parlavi con lui diceva “guardate l’Allamano, è lui il maestro, io accompagno soltanto” e quando andavi dall’Allamano lui diceva “andate dal Camisassa”... i due giocavano a ping-pong non in una falsa umiltà ma nella vera umiltà di chi capisce che senza l’altro non fa niente; che ha bisogno dell’altro per costruire qualcosa che valga la pena. Non per essere protagonista ma per costruire sempre nel nome del Signore.
Ci sono della frasi che noi missionari e missionarie conosciamo ma permettetemi di recuperarle perché sono troppo belle. Dice l’Allamano: “tutte le sere passavano in questo mio studio (nel santuario) diverse ore, qui è nato il progetto dell’Istituto, qui si parlava di andare in Africa, insomma, tutto si combinava qui. Se non avessi avuto al mio fianco il canonico Camisassa non avrei fatto quello che ho fatto”. Questa era una amicizia profonda fondata sulla sincerità, oggi che è così difficile essere sinceri.
L’Allamano diceva: “ci siamo promessi di dirci sempre tutto in verità” e questo ha fatto si che la loro amicizia durasse nel tempo, per ben 42 anni. Quello che noi abbiamo cominciato a chiamare, usando termini un po’ più abbelliti , “promozione fraterna” loro l’hanno sempre fatta senza chiamarla in quel modo e ci hanno insegnato che solo aiutandoci a vicenda si può costruire qualcosa di valido.
Gesù Cristo è il fondamento ma dietro il loro comune impegno c’era anche una umanità vera, non fittizia o fatta di immagine, e che porta a dirsi le cose in verità, per costruire e camminare insieme, per vivere in Comunione. Sono tutti valori che il Papa Francesco e la chiesa attuale ci sta proponendo in questo cammino di sinodalità, dove ognuno è chiamato ad essere protagonista là dove ognuno sta. È una chiesa nuova che ha il vangelo al centro e dove Gesù Cristo è quello che conta, non tutto il resto.
Celebrare per noi il centenario della morte del Camisassa è prima di tutto un momento di grande commozione e fraternità perché ci aiuta a recuperare l’amicizia, la correzione, il camminare insieme, la comunione ma poi è anche un momento di revisione per vedere come i nostri Istituti stanno tentando di portare avanti gli orientamenti, il progetto e i sogni che l’Allamano e il Camisassa, in questo santuario, hanno covato nel loro cuore dialogando e pregando insieme.
I nostri istituti sono ancora fedeli a quest’opera originaria? Anche se facciamo fatica da qualche parte io risponderei a questa domanda con un sí. Con semplicità e con umiltà dobbiamo dire che stiamo camminando anche se il tempo magari ti logora un pochino. Con verità possiamo dire che Il Signore continua a benedire questi Istituti perché siamo fondati e formati da dei grandi che ricordiamo in questo santuario.
Il mondo è fondato su pilastri e questi pilastri sono i santi, le persone buone, le persone vere che nella vita di ogni giorno costruiscono la storia. Noi ricordiamo l’Allamano, il Camisassa e tanti fratelli e sorelle che sono morti dando la vita per la missione.
Che bello che in questa eucaristia inviamo a Suor Francesca in Mongolia. Gesù ci ha voluti missionari; l’Allamano e il Camisassa sono stati missionari; noi continuiamo a inviare missionari: questa missione è una missione vera, autentica, di Istituto, di comunione. Le difficoltà non mancheranno perché fanno parte della vita, ma quello che conta è l’amore al Signore e quell’autenticità di vita che abbiamo imparato dai nostri grandi.
Continuiamo ad ascoltare le parole dell’Allamano sul Camisassa: “Se abbiamo fatto qualcosa di buono è appunto perché eravamo tanto diversi. Se fossimo stati uguali non avremmo visto i difetti l’uno dell’altro e avremmo fatto molti sbagli di più”. Noi parliamo tanto di interculturalità e diversità, ma che fatica che facciamo spesso per accettarla, questi già allora la vivevano.
Poi ancora: “Tocca a me fare i suoi elogi: era sempre intento a sacrificarsi pur di risparmiare me; aveva l’arte di nascondersi e possedeva la vera umiltà. Egli viveva per voi e per le missioni”. Oggi, quando tutti vogliono apparire, vediamo che nascondendosi, come fece il Camisassa, si continua a vivere per cent’anni nella storia di un Istituto.
L’Allamano, dando l’annuncio della morte del Camisassa, dice una cosa importante che può anche aiutarci nella nostra vita: “fino all’ultima ora, pur essendo ammalato, il Camisassa continuava a pensare, a pregare e a parlare degli Istituti”. Il suo amore è tutto descritto in questi tre verbi.
Oggi questi Istituti che loro due hanno pensato e sognato insieme esistono ancora e mandano ancora delle persone. Che bella questa continuità, che bella questa catena d’amore che va avanti, perché la storia non la fanno i grandi e i potenti, non la fanno neanche i cattivi anche se poi subiamo le conseguenze delle loro azioni, ma la fanno i buoni, quelli che rimangono per l’eternità perché il loro ricordo rimane per sempre.
*Stefano Camerlengo è Superiore Generale dei Missionari della Consolata. Testo dell'omelia tenuta nel Santuario della Consolata in occasione della celebrazione del centenario della morte del canonico Camisassa.
Padre Clovis Audet, Missionario della Consolata, è nato nel 1935 in Quebec (Canada); ha emesso la prima professione religiosa nel 1959 ed è stato ordinato sacerdote nel 1963. La sua vocazione missionaria l’ha portato a lavorare 22 anni in Colombia; altri 17 in Africa (fra Costa d'Avorio e Congo) e poi, inarrestabile, in anni recenti ha raggiunto il Messico dove si trova tutt’oggi. Un mese fa ha pubblicato in Canadà il suo libro di memorie “Qui m’a appelé. Une vie missionnarie” (Chi mi ha chiamato. Una vita missionaria). Pubblichiamo un estratto del prefazio di questo libro, firmato dal padre Stefano Camerlengo, superiore Generale dei Missionari della Consolata, che fa una lettura del significato della missione nella vita di un missionario.
Molte volte mi sono domandato come la mia esperienza missionaria abbia influito sul mio modo di percepire gli altri, sul mio rapporto con il mondo delle cose, sulla mia relazione con Dio. Detto in altro modo: quali percorsi mi hanno condotto a essere quello che sono? In quale modo i contatti con gente di diversa cultura e sensibilità mi hanno cambiato? In che modo la vita in comune con confratelli, segnati da esperienze positive ma anche tragiche, mi ha cambiato? Come situazioni dense e difficili hanno affinato la mia sensibilità missionaria?
Nel racconto che fa padre Clovis della sua vita e missione ho trovato risposte interessante a queste domande. Leggendo il suo racconto conosciamo la missione non come qualcosa di perfetto e stupendamente unico, ma come un camminare passo dopo passo con l’umiltà di quello che siamo, la voglia di non mollare, il desiderio di andare avanti.
Raccontare la missione non è allora solo riportare fatti e problematiche missionarie e non si tratta nemmeno di esporre "criteri missionari" che forse solleticano la mente ma non il cuore. Raccontare la missione è soprattutto "ricordare" gli eventi fondanti che hanno segnato la vita, nel senso più ampio del termine e nei quali ci siamo sentiti accarezzati dalla mano invisibile di Dio. Lo ricorda anche il Papa Francesco quando dice che solo grazie all'incontro con l'amore di Dio siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall'autoreferenzialità; solo quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi, giungiamo ad essere pienamente umani oltre che disposti ad annunciare l'amore che ridona valore alla nostra stessa vita. (cf EG 8)
Il padre Clovis in una foto recente, con un carissimo amico dei Missionari della Consolata: Jacques Pelletier
Nel libro di padre Clovis mi sembra si possano identificare tre tipi di eventi che sono quasi paradigmatici e diventano insegnamento perché esprimono le costanti, gli atteggiamenti e le dimensioni fondamentali del nostro vivere la missione.
1. La narrazione dei dettagli della sua vocazione e del suo impegno missionario: i posti dove ha vissuto, le persone con cui ha condiviso. Nel suo suo racconto si mettono in evidenza azioni che, per quanto apparentemente insignificanti, innescano trasformazioni e mettono in movimento persone che, a loro volta, diventano strumenti di cambio. Le situazioni e le persone che si intrecciano con la missione di tutti i giorni, e la fanno crescere nella dimensione dell’annuncio, descrivono perfettamente la missione che non ci appartiene mai pienamente perché è di Dio.
2. La narrazione delle sconfitte, gli sbagli, le difficoltà. Questa è pure missione! Questa è la difficile strada della vita, e lui la presenta così com’è senza camuffare o barare! Ecco allora un richiamo a ritornare all’essenziale, a “Colui che ci ha chiamati". Anche la tragedia, le sconfitte, la perdita, l’annullamento delle nostre certezze mondane diventano appello alla conversione, si trasformano in eventi fondanti che ci riportano alle radici della nostra identità e missione.
3. La narrazione delle tensioni, dei cambi, dei problemi, dei conflitti. Anche tutto questo fa parte della missione, del camminare lento e quotidiano alla ricerca del meglio che sta sempre più avanti.
Il conflitto non si dissimula; tanto meno vi si rimane prigionieri gettando sugli altri le proprie “confusioni e insoddisfazioni”; semplicemente si accetta, si risolve, ci trasforma. Va affrontato nell’orizzonte della propria identità carismatica e missionaria e a partire dal criterio dell’accettazione dell'altro. Così le occasioni di conflitto sono trasformate in potenzialità a vantaggio della missione.
Il libro di padre Clovis chiede a tutti noi, nessuno escluso, di far fruttare questo talento: fare della comunicazione, del racconto, uno strumento per costruire ponti, per condividere la bellezza dell'essere fratelli in un tempo segnato da contrasti e divisioni. I primi destinatari di un messaggio così impegnativo siamo noi, Missionari della Consolata come lui.
* p. Stefano Camerlengo è Superiore Generale dei Missionari della Consolata.
Clovis bambino e la sorella Rita nella terra di famiglia a Maria, suo paese natale.
I padri Stefano Camerlengo e Godfrey Msumange, Consigliere Generale per l'Africa, hanno potuto finalmente visitare la nuova missione del Madagascar, dopo due anni di tentativi andati a vuoto a causa delle restrizioni molto rigorose messe in atto da parte del governo del paese. Nella grande isola rossa dell'Oceano Indiano, che con i suoi 587.000 km² è la quarta più grande del mondo, lavorano fin del 2019 tre Missionari della Consolata: Jared Makori, Jean Tuluba e Kizito Mukalaz.
"Per ora, ricorda il padre Godfrey Msumange, abbiamo una missione a Beandrarezona, nella regione di Sofia a 1.124 metri sul livello del mare. Siamo nella diocesi di Ambanja, a mille chilometri a nord della capitale, in una situazione di missione ad gentes e un luogo in buona parte di prima evangelizzazione". La popolazione è di circa 25 mila abitanti distribuiti in 20 villaggi. La comunità cristiana più lontana è a 70 km da Beandrarezona ma, a causa delle montagne e della mancanza di strade, ci vogliono quattro giorni di cammino per raggiungerla. Il gruppo etnico più numeroso della zona è quello degli Tsimihety, piccoli agricoltori che coltivano riso, tabacco, arachidi, fagioli, mais e allevano bestiame.
Padre Msumange ricorda che "dopo aver studiato il francese e il malgascio, la lingua locale, i tre sacerdoti arrivarono alla Missione dove andarono a vivere in una piccola casa in affitto in mezzo alla popolazione. Hanno iniziato a studiare come organizzare la vita nel villaggio, senza dimenticare i villaggi remoti, difficili da raggiungere a causa della precarietà delle strade. Nella regione, i cristiani rappresentano solo il 3% della popolazione. Il primo lavoro è la formazione delle comunità, degli animatori e dei catechisti, ma poi anche la promozione umana: i missionari stanno lavorando alla costruzione e gestione di una scuola secondaria che non è mai esistita nel villaggio. L’educazione diventa così non solo uno strumento di promozione umana ma anche un mezzo indispensabile per l'evangelizzazione"
Parlando della visita il padre Stefano Camerlengo ha sottolineato la bellezza del Madagascar e della sua gente. "Sono molto accoglienti e quando parlano si percepisce una bontà che viene da dentro, molto educata e presente. È un Paese che potrebbe svilupparsi bene attraverso il turismo perché è circondato da un mare meraviglioso, ma si trova in una situazione molto precaria. Il malgoverno è un problema molto diffuso, la gente vive poveramente, le autorità politiche e sociali sembrano più preoccupate dei loro interessi che del bene comune. La rete stradale è quasi inesistente e soprattutto durante la stagione delle piogge, che dura sei mesi all'anno, le strade sono letteralmente impraticabili... così che la vita, e lo sviluppo, si arresta completamente.
In Madagascar ci sono 22 circoscrizioni ecclesiastiche: cinque archidiocesi e 17 diocesi. I vescovi in questo momento sono 28 e fra di loro anche un cardinale arcivescovo attivo: Mons. Désiré Tsarahzana. Le forza pastorali in campo non sono poche: ci sono 1.747 sacerdoti (892 clero secolare e 855 religiosi), 2 diaconi permanenti, 1202 seminaristi, 735 fratelli, 133 membri di istituti secolari, 1703 missionari laici, 5.006 religiose consacrate, 14.395 catechisti. Il cristianesimo è arrivato in Madagascar nel XVI secolo con i Padri Domenicani, seguiti dai Gesuiti e dai Lazzaristi e, nel secolo successivo, dai missionari di San Vincenzo de' Paoli.
Non si tratta quindi di un cammino recente eppure, commenta Padre Stefano, "il lavoro è ancora molto grande. Da quello che possiamo vedere, in tanti aspetti si stanno muovendo i primi passi: non c'è una catechesi ben organizzata o una preparazione al battesimo consolidata. I sacramenti sono poco celebrati e la gente non sembra molto interessata alla vita della cominità cristiana. Con una popolazione approssimativamente 25 milioni di abitanti, solo il 10% è cristiano". c'è tanto da fare, ma tutto questo appartiene chiaramente al carisma di noi Missionari della Consolata.
Il Padre Generale sottolinea che la Missione di Beandrarezona, dove si trovano i Missionari della Consolata, è molto bella e impegnativa. "È una missione ad gentes con circa 20 comunità (villaggi) e circa 25.000 abitanti che conta per la prima volta con una presenza stabile di sacerdoti; prima la comunità era visitata dalla parrocchia vicina.
La situazione nella quale vivono le famiglie dei nostri villaggi è molto povera e spesso priva di servizi basici. Se per la posizione geografica l’acqua è abbondante in cambio l'elettricità arriva con difficoltà e l’assistenza sanitaria è garantita solo da un piccolo centro medico servito da una sola dottoressa, in questi giorni assente perché in vacanza con la sua famiglia. In caso di emergenza, l'auto della missione, la sola presente nel villaggio, diventa anche ambulanza. Anche in questo modo si cerca di fare un po’ di consolazione.
Soprattutto i giovani sembrano un po' abbandonati al loro destino e per questo i missionari hanno iniziato a costruire una scuola superiore per dare qualche strumento in più ai ragazzi che vivono quasi senza nessuna opportunità.
Ci sono molte difficoltà, ma anche molta gioia nel sentirsi veramente utili, protagonisti di una missione che sta nascendo.
In questo momento si deve ancora costruire una casa per i sacerdoti e una cappella un po’ più grande, l’attuale è fatta di fango ed è piccola. Sappiamo che una struttura valida e significativa aiuta ad attrarre le persone.
A Beandrarezona ci sono anche quattro Suore Francescane di Notre Dame che lavorano in tre scuole primarie e secondarie. Vivono in una casa costruita dal vescovo e aiutano nella missione.
In sintesi, ricorda il padre Stefano, “questa è l'esperienza dei nostri missionari in Madagascar che vorrei condividere con voi, perché credo sia importante farla conoscere. Scrivendo all'amministratore della diocesi ho sottolineato che questa missione è un dono che abbiamo ricevuto e che vogliamo mantenere e curare. È davvero una missione che ci stimola e ci aiuta a essere sempre più disponibili e sensibili”.
Padre Jean Tuluba, che ha già lavorato a Roraima, in Amazzonia, è uno dei tre missionari della Consolata in Madagascar. Egli ritiene che “la visita canonica sia stata per noi un tempo di grazia, di incontro fraterno, di gioia, di rinnovamento, di condivisione delle gioie e dei dolori della missione; un tempo per progettare il nostro futuro sull'Isola Grande. Non è un mero adempimento formale, né un atto di controllo, ma un evento di grazia per tutti, un passaggio del Signore che viene a visitare il suo popolo per rivendicarlo e portarlo alla salvezza.
Abbiamo aspettato a lungo in questo momento, ma non è stato possibile a causa della pandemia di Covid-19. La gioia non era solo nostra, ma anche di tutta la gente della Missione di Beandrarezona che ha potuto vedere con i propri occhi il Padre Generale e la sua delegazione raggiungere questo territorio. Loro hanno visto che i tre missionari non sono soli e che la Consolata è una grande famiglia presente in tutto il mondo”.
Con un’area di 587 mila Km2, il Madagascar è un'isola dell'Oceano Indiano con 4.800 km di costa marittima. Nel Paese si parla malgascio, francese e inglese. La sua capitale è Antananarivo, con 1,4 milioni di abitanti. L'aspettativa di vita è di 66,9 anni e nelle città vive il 26,81% della popolazione. Al di sotto della soglia di povertà vive cerca del 70% de la popolazione e l'acqua potabile è disponibile per il 10%.
* Padre Jaime C. Patias, IMC, Consigliere Generale per l'America.
Padre Camillo Calliari, per tutti Baba Camillo, si è spento nella sua missione in Africa lo scorso 25 luglio all'età di 83 anni.
Nato a Romeno, in Val di Non, l’8 aprile del 1939, in una famiglia di contadini, fin da bambino ha sempre coltivato il sogno di andare in Africa per aiutare le persone più povere e bisognose. Ordinato sacerdote nel dicembre del 1965, il suo sogno si realizza quando, diventato missionario della Consolata, viene mandato in Tanzania: è il 1969. La sua prima missione è quella di Kisinga e, a quel tempo non c’era ancora nemmeno la chiesa, però nelle semplici camere dei padri c’era un grande lusso: l’acqua corrente. Il piccolo acquedotto della missione era l’unico presente in tutta la zona. Osservando la gente, soprattutto le donne, che ogni giorno erano costrette a scendere fino in fondo alla valle per attingere l’acqua, padre Camillo sente che deve fare qualcosa per migliorare la situazione perché senza acqua potabile nelle vicinanze, la vita è impossibile, anche perché questa situazione contribuisce alla proliferazione di molte malattie come il colera. Nelle missioni dove viene mandato negli anni successivi, il suo impegno più grande sarà proprio dedicato alla costruzione di acquedotti, che oggi vengono utilizzati da più di 16.000 persone.
In seguito l’opera di Padre Camillo si era spostata nel villaggio di Kipengere, una piccola comunità africana nel sud della Tanzania dove le montagne toccano i 2200 metri e fa freddo tutto l’anno, dove aveva costruito un orfanotrofio totalmente autosufficiente. La cittadina, amministrata da un sindaco e da un consiglio comunale, conta circa 3000 abitanti.
Molti i suoi campi di azione, con un’attenzione speciale per quanto riguarda l’acqua: ha costruito vari acquedotti nelle varie realtà dove si è trovato ad operare per agevolare la vita delle persone. Anche la formazione professionale dei giovani è stata un’attività da lui molto seguita nel mondo della falegnameria per quanto riguarda i ragazzi e del taglio e cucito, cucina, orticultura per le ragazze. Figura di missionario molto nota, che ha portato alla realizzazione di alcuni video come “Gocce d’Africa – La Val di Non in Tanzania e Madagascar” di Michele Bello e Sara Covi, e “Mi chiamo Mama – La Tanzania di Baba Camillo” di Aurora Vision.
Nel 2012 il missionario era stato colpito da un’ischemia coronarica che lo aveva costretto al ricovero, ma una volta migliorate le sue condizioni era tornato, con lo stesso entusiasmo e la voglia di mettersi al servizio nella sua missione, per occuparsi in particolare dei bambini più piccoli, orfani a causa dell’Aids, rappresentando per loro nei suoi ultimi anni una preziosa figura di nonno affettuoso.
(Vita Trentina)