Una volta visitai una certa comunità religiosa, che si preparava a celebrare il giorno del loro Fondatore. Tutto era stato ben organizzato ed era chiaro che tutti con entusiasmo si erano resi disponibili per preparare la festa. Nel momento centrale delle celebrazioni, quando il superiore della comunità si è alzato per parlare, tutti noi siamo rimasti scioccati. "È con grande tristezza”, ha detto, “che vi comunico che qualcuno nella nostra comunità sta sottraendo denaro dai conti della comunità. Ha persino fatto causa a me e all'Istituto per alcune pretese inconsistenti".
Come puoi capire, noi, che eravamo solo degli invitati, siamo rimasti sbalorditi e d’altra parte i membri della comunità si sono coperti dalla vergogna. Nella sala da pranzo era piombato un improvviso silenzio subito seguito da bisbigli mentre tutti cercavano di capire di chi stesse parlando il superiore. Si potevano vedere persone che l'un l'altro si lanciavano sguardi sospettosi, cercando di leggere il volto del vicino per trovare segni di tradimento.
Il successivo silenzio del superiore ha complicato la situazione, perché lo shock si era trasformato in rabbia. I sussurri si trasformarono allora in discorsi veri e propri. Si sentiva la gente chiedere: "Ma perché il superiore ha detto una cosa del genere proprio in questo evento?". Alcuni erano infastiditi dal fatto che un membro della comunità potesse fare una cosa del genere, rubare alla comunità e decidere di distruggere l'immagine del superiore. Altri erano infastiditi dal fatto che il superiore avesse scelto di parlare in quel modo proprio durante un giorno così importante.
Come era prevedibile, la gioia della festa fu completamente rovinata. I volti felici divennero improvvisamente pallidi e il sorriso svanì con la stessa rapidità con cui era apparso. A quel punto, per evitare ulteriori imbarazzi a chi mi aveva invitato, mi scusai dicendo che dovevo andare in un altro posto. Questo però avvenne dopo che uno dei membri della comunità avvilito aveva lasciato la stanza, seguito dai mormorii dei suoi confratelli.
L'episodio che avete letto è quello che abbiamo ascoltato qualche giorno fa nella liturgia della Settimana Santa. Evidentemente, questa storia è una mia invenzione per esprimere un messaggio. La storia vuole imitare l'episodio dell'ultima cena. Mentre mangiavano, Gesù disse: "In verità vi dico che uno di voi mi tradirà". La Domenica delle Palme e il Venerdì Santo abbiamo letto come l'atmosfera del Cenacolo cambiò dopo che Gesù ebbe pronunciato queste parole. C'era confusione, mentre ognuno cominciava a dire: "Non sono forse io Signore?". L'episodio si concluse con la partenza di Giuda Iscariota, probabilmente infastidito dal fatto che il suo piano sembrava essere arrivato al suo maestro e vittima. Alcuni di noi si sono chiesti: "Ma come ha potuto Gesù parlare così in un giorno così importante?". Alcuni di noi sono rimasti infastiditi dal fatto che Giuda Iscariota sia diventato un traditore dopo aver beneficiato della vicinanza di Gesù e della comunità apostolica. Era la prova evidente che era un opportunista ingrato.
Oggi, a distanza di una settimana dalla celebrazione dell’evento e dopo l'agitazione emotiva, possiamo rivisitare con calma e obiettività l'episodio e cercare di capire perché Gesù abbia scelto proprio quel giorno per dare quel messaggio. Uno sguardo attento all'evento mostra che Gesù voleva richiamare l’attenzione degli apostoli sugli eventi che si stavano avvicinando. Sebbene Gesù avesse parlato tre volte della sua morte, alcuni dei suoi discepoli non avevano ancora capito. Questo spiega perché, mentre Gesù parlava della sua passione i discepoli discutevano chi tra loro fosse il più grande. E questo accadeva proprio nello stesso momento dell'ultima cena (Lc 22,14-24). Non era la prima volta che i discepoli litigavano e si contendevano l'attenzione del Maestro e un posto d’onore (Mt 20,17-28).
In breve, Gesù voleva rivelare chiaramente la verità che i suoi discepoli non avevano compreso fino a quel momento: solo attraverso la morte sarebbe germogliata di nuovo la vita. Una cosa era stare con Gesù, un'altra cosa era capirlo. Anche per noi oggi, una cosa è essere una persona consacrata, un'altra cosa è essere un vero discepolo di Gesù. Come Giuda Iscariota, è possibile vivere nelle comunità religiose, eppure avere molti progetti e ambizioni nascoste, le quali il più delle volte vanno contro gli scopi dell'Istituto religioso e la stessa volontà di Dio. È un invito ad esaminare noi stessi e a conformare la nostra vita a quella di Cristo.
Infine, le parole di Gesù nell'ultima cena sono una lezione per tutti noi. Ci rendiamo conto di come le parole possono favorire o distruggere l'atmosfera di una comunità. Gesù, essendo Dio, era sicuro della resurrezione dopo tre giorni. Attraverso la risurrezione era possibile annullare qualsiasi "danno" che le sue parole potevano aver creato nella vita degli apostoli.
Noi che siamo semplici esseri umani, dobbiamo stare molto attenti alle parole che usiamo nella comunità. Possono sembrare innocue e persino inutili, ma ogni parola sbagliata può alterare per sempre l'atmosfera della comunità o distruggere per sempre la fede, la reputazione e l'autostima delle persone. Noi, che non abbiamo una "resurrezione dopo tre giorni", dobbiamo imparare a valutare il peso delle nostre parole e le conseguenze delle nostre affermazioni. Ogni parola sbagliata può distruggere ciò che il Signore ha costruito nella storia dell'Istituto attraverso il sacrificio della vita di molti confratelli. Che il periodo pasquale sia un periodo di costruzione di ciò che abbiamo distrutto con i nostri discorsi sconsiderati. Vi auguro un felice periodo pasquale.
* Padre Jonah M. Makau, IMC, Casa Generalizia a Roma, frequenta il corso in Cause dei Santi.
Il vescovo di Odienné, Mons. Alain Clément Amiézi, ha visitato dal 24 al 28 febbraio, la parrocchia San Giovanni Battista di Marandallah nel nord del Paese. I missionari della Consolata padre Wema Meta Duwanghe e padre Isac José Manuel Ernesto hanno organizzato la visita del vescovo in modo tale che potesse raggiungere i villaggi più sperduti, nel cuore della savana ivoriana.
È stata la prima volta che Mons. Amiézi ha raggiunto la missione di Marandallah per visitare e conoscere da vicino le comunità cristiane, alla presenza dei diversi capi tradizionali rendendo la visita una gioiosa occasione di incontro e di condivisione intorno al vescovo e ai nostri missionari. La precarietà delle strade sterrate e la fatica delle distanze sono un ulteriore motivo che conferma l’importanza di valorizzare la presenza dei missionari della Consolata in questa terra di prima evangelizzazione dove i cristiani sono solo il tre per cento. La provincia di Marandallah conta settantuno villaggi e insediamenti. “Devo accompagnare il vescovo nella visita ovunque egli voglia andare perché è una benedizione per la nostra comunità parrocchiale”, ha affermato orgogliosamente Yéo Fatoumata Sylvie, vice-presidente del consiglio parrocchiale.
* Padre Ariel Tosoni, è missionario della Consolata argentino che lavora nella Costa d’Avorio.
Periferia nord di Torino. Il quartiere più povero e multietnico della città dalla quale partirono i primi missionari della Consolata per il Kenya. Qui, un missionario keniano, da dieci anni, vive l’ad gentes tra italiani, stranieri, poveri, tossicodipendenti, migranti appena arrivati. L’annuncio attraverso la difesa dei diritti di chi non ha voce, l’accoglienza e la vicinanza.
I Missionari della Consolata sono arrivati nella parrocchia di Maria Speranza Nostra, zona Nord di Torino, nel 2013. Il parroco, padre Godfrey Msumange, classe 1973, era tanzaniano; il vice, padre Nicholas Muthoka, dell’81, keniano.
La stampa locale, ai tempi, aveva parlato del «parroco nero» con un certo stupore. Ad accoglierli, una donna italiana che lanciava insulti dal balcone. Nello storico quartiere torinese di Barriera di Milano, il più multietnico della città, non tutti, forse, erano ancora pronti a vedere la chiesa locale guidata da sacerdoti africani.
Parrocchia Maria Speranza Nostra a Torino
Dal 2017 il parroco è padre Nicholas. Lo incontriamo in una fredda mattina d’inverno dopo dieci anni da quell’inizio per farci raccontare una delle frontiere della missione ad gentes dell’Imc in Europa.
Arriviamo in via Ceresole 44 alle 11. Le strutture della parrocchia prendono un intero isolato.
Suoniamo il citofono: viene ad aprire un giovane vietnamita che non dice una parola di italiano. È uno dei cinque migranti accolti in parrocchia.
Ci conduce dal parroco nel suo spartano ufficio ricavato in una stanzetta al fondo della chiesa.
Tra i banchi, nella navata, alcune persone fanno le pulizie: una donna nigeriana con suo figlio, un uomo brasiliano-peruviano, due donne italiane, una pugliese, l’altra piemontese.
Il missionario ci aspetta seduto su una poltrona in tessuto marrone. Maglioncino e camicia grigi, collarino bianco «d’ordinanza» in evidenza. Occhi brillanti, sorriso ironico, voce squillante. È in compagnia di padre Elmer Pelaez Epitacio, l’attuale viceparroco, messicano del 1982.
La parrocchia, fondata nel 1929, si trova nel cuore di un quartiere popolare da sempre meta di migranti: prima dalle campagne piemontesi, poi dal Sud Italia, oggi da tutto il mondo.
La popolazione di «Barriera» è la più povera della città, con un reddito medio di 17mila euro, contro i 35mila del centro e i 47mila della collina, ma è anche la più giovane e, forse, vivace. Se nel capoluogo piemontese gli stranieri, provenienti per quasi la metà dall’Europa e per l’altra metà da Africa, Asia e America Latina, sono il 15,6% della popolazione (134mila su 858mila), in Barriera di Milano sono uno su tre (18mila su 50mila, il 36%), senza contare quelli che negli anni hanno acquisito la cittadinanza italiana.
Barriera è anche il quartiere nel quale viene sentita maggiore insicurezza da parte dei residenti, tanto da indurre le forze dell’ordine a fare frequenti retate che servono più a lavorare sulla percezione della popolazione che non sulla soluzione dei problemi. Proprio come denunciato più volte negli anni da padre Nicholas: le istituzioni parlano solo di degrado e mai delle persone che ne sono coinvolte, e affrontano lo spaccio, la violenza, i bivacchi di donne e uomini senza dimora, spostandoli da una zona all’altra del quartiere, senza offrire prospettive a chi volesse iniziare una vita più dignitosa.
Padre Nicholas ci fa accomodare. Accanto a lui, padre Elmer è seduto dietro la scrivania: volto ampio e allegro, capelli nerissimi, sciarpa beige sopra una maglia di pile grigia. Il missionario messicano è stato ordinato sacerdote nel 2021, ed è arrivato qui da un anno e mezzo, dopo un’esperienza tra gli indigeni Nasa della Colombia.
Racconta: «Sono felice di essere qua. Siamo in un territorio molto ricco. In questi dieci anni, la presenza missionaria ha dato un nuovo volto alla parrocchia». Poi elenca le attività: «Oltre alla pastorale ordinaria e al catecumenato, c’è l’oratorio aperto tutta la settimana, il gruppo caritativo che offre cibo ai poveri, il gruppo di mutuo aiuto per ex tossicodipendenti, il centro d’ascolto, due doposcuola. Poi abbiamo una prima accoglienza per stranieri: in uno spazio gestito dall’Ong Cisv ospitiamo una dozzina di donne; nella nostra canonica invece, in questo momento, stanno con noi cinque uomini».
Il missionario illustra anche l’ampia e variegata comunità IMC che vive in parrocchia: quattro sacerdoti (lui, padre Nicholas, padre Samuel Kabiru, keniano, e padre Frederick Odhiambo, keniano) e cinque seminaristi, provenienti da Etiopia, Tanzania, Kenya, Uganda e Costa d’Avorio, che studiano teologia e fanno pastorale in parrocchia. «Questo è un posto ricco di missione – chiosa -. Domenica scorsa, quattro donne africane e quattro adolescenti latinoamericani hanno chiesto ufficialmente il battesimo. Non è necessario andare in Africa o America o Asia. Oggi il mondo è qui».
Domandiamo da chi sono aiutati i missionari. «Ci sono suor Romana, una vincenziana, e Ivana, dell’Ordo virginum – risponde padre Nicholas -. Si occupano di catechesi, centro di ascolto, carità, anziani… praticamente di tutto. E poi ci sono i laici: il laicato qui è forte, non è solo manovalanza. Le cose le pensiamo e facciamo assieme».
Il missionario ha visto crescere, in questi dieci anni, il protagonismo dei laici e la loro attenzione ai «lontani», oltre che ai «vicini». «C’è stata anche una crescita nell’annuncio – aggiunge, dando una particolare forza a questa sottolineatura -. Una maggiore consapevolezza che non dobbiamo stare solo tra noi».
In oratorio le attività principali sono tre: l’oratorio feriale nel quale le persone, soprattutto ragazzi, vengono, giocano, stanno assieme. Questa è l’occasione per conoscerli. «Poi proponiamo il gruppo formativo – aggiunge padre Nicholas -. Infine, c’è il doposcuola due giorni alla settimana: sono quasi tutti magrebini, asiatici e africani. Poi c’è un gruppo di 35 bambini cinesi che fanno doposcuola la domenica, seguiti da una donna cinese. Per imparare la loro lingua e ripassare le materie di scuola. Da una parte, tutto questo è promozione umana, dall’altra è annuncio: all’estate ragazzi vengono tutti, sentono il Vangelo, cantano. La donna cinese, spesso, si ferma davanti alla madonna a pregare. Anche se non è cristiana».
Volantini del gruppo di mutuo aiuto Narcotici anonimi formato da almeno 40 persone.
Nel quartiere, uno dei problemi più visibili è la droga: sia il consumo che lo spaccio.
Negli ultimi anni la stampa locale ha parlato spesso di un gruppo di tossicodipendenti che fino a poche settimane fa occupava il capannone abbandonato di un’azienda, la ex Gondrand.
Dopo l’ennesimo sgombero e l’inizio dell’abbattimento della struttura, ora i giovani si sono spostati. Sempre nei dintorni di Maria Speranza Nostra.
Padre Nicholas segue dal 2020 le persone coinvolte, e ha denunciato a più riprese l’indifferenza delle istituzioni nei loro confronti. «Per me sono prima di tutto dei giovani, non “tossici” o “migranti” o “barboni”. E sono nostri parrocchiani.
Hanno iniziato a venire da noi per il cibo – racconta -. Li abbiamo conosciuti e poi abbiamo iniziato ad andare a trovarli. C’è un gruppo più o meno fisso di venti, trenta persone. Ma il giro è più ampio: vengono da tutta la città e arrivano anche a cento. Formano una comunità. Stanno assieme, si picchiano, fanno di tutto, sono pieni di malattie.
Noi stiamo loro vicini con il cibo, le medicine, l’ascolto e con la difesa dei loro diritti presso chi dovrebbe occuparsene. Si spera che si muova qualcosa, ma sono anni che facciamo a pugni con l’aria».
L’attenzione della parrocchia alle persone è segno della missione che si fa prossimità. Padre Nicholas ci racconta la storia di alcuni di loro: «Ad esempio, quella di un trentenne del Ghana: lavorava come meccanico, ma beveva molto, giocava alle macchinette, e poi chissà cos’altro faceva. Spendeva tutto in due giorni, ed era finito a vivere alla ex Gondrand. Io gli ho parlato molte volte, ma per due anni non c’è stato verso. Un giorno, cinque minuti prima della messa, arriva in lacrime: “Padre mi devi aiutare”. Io gli dico: “Proprio adesso? Cinque minuti prima della messa? Dopo due anni, che ti sto dietro?” – ride padre Nicholas -. Mi sono fatto sostituire per la messa e l’ho ascoltato. Poi gli ho proposto: “Domani vieni con me al Sert, il servizio dell’Asl per le dipendenze. Una casa non te la trovo se prima non fai un percorso”. Allora lui ha iniziato a dirmi: “Sei cattivo, tu non mi vuoi aiutare…”, ma il giorno dopo è venuto con me. Dopo due mesi, era a posto.
Adesso è tranquillo, sereno, mi ha fatto pure un’offerta», conclude con un’altra risata.
Un’altra storia riguarda una trentenne musulmana: «Una volta sono arrivato lì, alla Gondrand, proprio mentre la stupravano in tre – racconta padre Nicholas -. Meno male che mi conoscevano, e che, quando mi hanno visto, sono andati via. Per lei non era la prima volta, né l’ultima, ma non voleva denunciare per paura. Io le parlavo, ma lei non voleva andarsene. Quel gruppo è come una comunità. Si sentono legati tra loro, nel bene e nel male.
Un po’ di tempo dopo, è rimasta incinta. Non sapeva neanche chi fosse il padre. Allora si è convinta. Abbiamo contattato i servizi sociali ed è andata in una casa protetta. L’ho rivista poco tempo fa: era con il piccolo e abbiamo chiacchierato».
Nel gruppo non mancano le ragazze italiane: «Alla Gondrand, fino a un po’ di tempo fa, c’era un boss, originario dell’Africa occidentale. Era violento e controllava tutto, anche la droga che entrava e usciva. La sua ragazza di 25 anni era di Asti. Vivevano assieme al terzo piano della palazzina abbandonata. Un giorno sono stato chiamato con urgenza e, quando sono arrivato lì, ho trovato la ragazza con un ferro conficcato nella pancia. C’era sangue dappertutto. A mani nude ho tamponato la ferita e ho chiamato l’ambulanza. È stata salvata. Ma poi, quando è stata un po’ meglio, ha firmato l’uscita dall’ospedale ed è tornata lì con quell’uomo.
Io ho anche provato a chiamare la mamma, che però non ne voleva sapere. Poi se ne sono interessati i servizi sociali e alla fine è andata via. Dopo un po’ di tempo mi ha mandato un messaggio per farmi gli auguri di compleanno. In quel momento era a casa con la mamma. Qui non l’abbiamo più vista».
Oggi alla ex Gondrand non c’è più nessuno. «La stanno buttando giù – dice padre Nicholas -. Ma è solo una questione di facciata. I giovani senza casa si sono semplicemente spostati».
A 50 metri dalla parrocchia, le strutture abbandonate della ex Gondrand in via di abbattimento dopo l'ultimo sgombero dei giovani senza tetto del novembre 2023
Arrivano Franca e Mimma, due volontarie del gruppo caritativo, sulla sessantina. «Loro sono quelle a cui abbiamo sbolognato la faccenda della Gondrand», ride sornione il missionario.
«La maggior parte sono tossici, alcuni spacciatori – racconta Franca con voce calma e calda -. Ci sono anche donne italiane cui sono stati tolti i figli. Da poco siamo riusciti a sistemarne una che ha trovato un lavoretto ed è tornata a casa. Un’altra ha smesso di drogarsi da un mese. I ragazzi sono in gran parte di origine africana. Il problema di tutti loro è la droga. Vivono come randagi, un po’ qua e un po’ là.
Quando abbiamo iniziato, temevamo che fossero violenti, ma è bastato dire loro: “Ciao, come ti chiami, cosa fai, perché sei lì?”, e adesso ti salutano, ti ringraziano, ti abbracciano». «C’è una cosa che mi dà molta tristezza – interviene Mimma, che è rimasta in piedi accanto alla porta -. Questi ragazzi, uomini o donne che siano, non hanno la speranza di raggiungere un qualche obiettivo. È la droga che ammazza tutte le loro speranze. Quando vedi l’abbattimento totale di una persona ti manca il fiato».
«Sono gli “invisibili” – riprende Franca -. In realtà visibilissimi, perché sono per strada, da tutte le parti, ma sono invisibili per le istituzioni».
Vorremmo fotografare le volontarie, ma loro preferiscono di no: non vogliono «farsi pubblicità».
Si è fatto tardi. L’ora e mezza che avevamo a disposizione è già trascorsa. Rivolgiamo ai missionari le ultime due domande: «Cosa dice questa esperienza all’Istituto Missioni Consolata?».
Risponde padre Nicholas: «Penso che questa esperienza metta in luce qualcosa che sapevamo già: che la missione è anche in Europa. Facciamo opere di carità che hanno al centro l’annuncio. E indubbiamente qui siamo in un territorio ad gentes. Questa esperienza si inserisce nel nostro carisma e lo arricchisce. Qui non s’incontra un ambiente culturale omogeneo, come nella missione classica, ma molteplici culture in un contesto complesso».
Alla seconda domanda, «che cosa porta il carisma IMC in questo quartiere?», risponde invece padre Elmer: «Noi, come IMC, portiamo l’annuncio, e questo annuncio è la consolazione. E questo è un posto in cui offrire a poveri, adulti, bambini, anziani la vera consolazione».
* Luca Lorusso è giornalista della rivista Missioni Consolata. Pubblicato originalmente in: Missioni Consolata, Marzo 2024 (www.rivistamissioniconsolata.it)
Il 24 marzo si celebrerà nella Chiesa italiana la 32esima edizione della Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri, appuntamento istituito nel 1993 dal Movimento Giovanile Missionario della direzione nazionale italiana delle Pontificie Opere Missionarie.
Quest’anno lo slogan scelto da Missio Giovani (settore della Fondazione Missio che si occupa dell’animazione di quest’iniziativa) è “Un cuore che arde”, espressione che riprende il tema della Giornata missionaria mondiale dell’ottobre scorso. Il riferimento è al brano dei discepoli di Emmaus che ha guidato la riflessione durante lo scorso Ottobre missionario.
Per celebrare questa Giornata sono disponibili vari materiali prodotti da Missio. Qui è possibile visionarli e scaricarli.
In occasione della Giornata dei Missionari Martiri 2024, Missio, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana, presenta il progetto "Accoglienza Migranti Oujda" – A.M.O. gestito dai Missionari della Consolata per far fronte alla situazione di estrema vulnerabilità in cui si trovano giovani, donne e minori che hanno appena varcato il confine.
Presenti nella diocesi di Rabat dal 2021, i Missionari della Consolata lavorano nella parrocchia San Luigi che accoglie persone migranti che attraversano la frontiera tra Algeria e Marocco nel progetto chiamato "Accoglienza Migranti Oujda" - A.M.O.
I giovani, le donne e i minori, accompagnati o non accompagnati, arrivano al Centro di accoglienza in condizioni davvero fisiche e psicologiche estreme. Attraversano il confine, chiuso al transito delle persone, nascosti in nascondigli a cielo aperto, fino al momento opportuno.
Il periodo più favorevole è l'inverno, quando il freddo e le tempeste di sabbia rendono più debole il controllo della polizia. Questo genera casi di ipotermia, disidratazione e stress estremo. A ciò bisogna aggiungere che l'attraversamento degli ostacoli presenti sulla linea di confine (recinzioni, fossati, inseguimenti della polizia), provoca molteplici problemi traumatici, talvolta dovuti anche alla violenza degli agenti di frontiera. Oltre alle problematiche fisiche, i migranti arrivano in preda a seri problemi psicologici a causa degli stress vissuti durante la traversata. Le donne, durante il viaggio, subiscono ogni tipo di abuso e stupro. Una percentuale molto alta è incinta o viaggia con bambini molto piccoli.
In questo contesto drammatico, otto anni fa fu creato il progetto A.M.O. mettendo a disposizione i locali della parrocchia San Luigi, facendola diventare un vero e proprio Centro di accoglienza.
Quando le persone arrivano, viene loro consegnato un kit igienico (materiale per lavarsi) e un kit di indumenti, viene offerta loro una doccia calda e un posto dove riposare. Successivamente iniziano le pratiche di registrazione. Poiché i posti sono molto limitati, è stabilito che venga data priorità a coloro che necessitano di assistenza medica urgente come donne e minori.
L'équipe di lavoro che coordina l'A.M.O. è composta dai Missionari della Consolata, (P. Francesco Giuliani, P. Patrick Osaleh Mandondo e il P. Edwin Duyani), due suore che si prendono cura delle donne e dell'educazione, un membro della chiesa protestante che coordina il centro con i cattolici, diventando così un centro ecumenico, due giovani residenti che si occupano dell'accoglienza dei nuovi arrivati e dell'organizzazione tecnica nel Centro (manutenzione, cucina, pulizia, ecc.), un giovane residente che si occupa dell'amministrazione interna e due medici.
Per saperne di più sul progetto e su come effettuare una donazione, cliccate qui.
Aiutiamo i Missionari della Consolata ad aiutare, giovani, donne e bambini, nel loro difficile percorso migratorio, così potranno trovare uno spazio sicuro in cui fermarsi lungo il cammino verso un futuro più sereno. Dal punto di vista amministrativo noi calcoliamo che il Centro di accoglienza A.M.O. abbia bisogno di 15 € al giorno per migrante per potersi sostenere. Costo totale del Progetto € 10.000.
COME DONARE
MODULO DI DONAZIONE ONLINE: www.missioitalia.it
BONIFICO BANCARIO: Missio - Pontificie Opere Missionarie IT03N0501803200000011155116 Banca Popolare Etica
BOLLETTINO POSTALE: Missio - Pontificie Opere Missionarie Via Aurelia 796 00165 Roma - CCP n° 63062855
CAUSALE: Progetto 95 – MAROCCO
Fonte: MISSIO - organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana
Suor Margherita Demaria (1887 - 1964) è la prima e più stretta collaboratrice dell'Allamano nella direzione e formazione delle Suore Missionarie della Consolata, a partire dal 1913. Possiamo definirla come figlia e collaboratrice dell’Allamano.
Entrata nell'Istituto il 2 ottobre 1910, anno della fondazione, accolta direttamente dall'Allamano, ha emesso la professione religiosa il 5 aprile 1913. Dal maggio successivo, giovane di 26 anni, è stata posta dal Fondatore come sua vicaria per la cura della comunità di Casa Madre, incarico che ha svolto per poco tempo, perché alla fine dell'anno è stata destinata responsabile del gruppo delle prime missionarie partite per il Kenya. Per 34 anni ha lavorato in Africa, prima in Kenya, poi in Tanzania e Mozambico coprendo incarichi di responsabilità. Dal 1947 al 1958 è stata Superiora Generale dell'Istituto. Dopo alcuni anni, trascorsi a Roma, come superiora della comunità, si è ritirata a Torino, ove è morta l'8 dicembre 1964.
Le prime 15 suore missionarie della Consolata accolte in Kenya tra cui Margherita Demaria
Vi presentiamo un breve profilo di questa bella figura che è tra le radici dei nostri Istituti che hanno attinto a piene mani dal Fondatore.