La «grande isola» è come un ponte tra l’Africa e l’Asia. Porta in sé contrasti e difficoltà, oltre a tanta bellezza. Iniziamo questa serie dall’ultimo paese nel quale hanno messo piede i «figli» di Giuseppe Allamano.
«Ormai è venuto il tempo di una missione più discreta, umile, solidale, propositiva, fondata più sull’essere che sul fare» (cfr. dalla presentazione degli atti del Capitolo Generale dei Missionari della Consolata del 2017).
Nel 2012 il vescovo di Abanja, monsignor Rosario Vella, salesiano, passa alla casa Generalizia a Roma. Mi cerca perché le suore Battistine gli hanno parlato bene di noi. Io all’epoca ero superiore generale dei Missionari della Consolata. Mi dice: «perché non venite ad aprire in Madagascar, è una missione ad gentes, adatta a voi. Venite nella nostra diocesi».
Io gli rispondo: «È una bellissima idea, ma noi stiamo lavorando a livello continentale, per cui per aprire una missione in un nuovo paese, mi piacerebbe sentire cosa pensa il consiglio continentale dell’Africa dell’istituto». «Ma come, un generale non può decidere?», dice lui. Io presento l’idea al consiglio, che ci lavora quasi due anni.
Nel 2016, una prima delegazione va in Madagascar a incontrare il vescovo e vedere il possibile luogo di missione. Ne fanno parte il vice superiore generale padre Dietrich Pendawazima, il consigliere per l’Africa padre Marco Marini, e padre Hyeronimus Joya, all’epoca superiore del Kenya, a rappresentare il consiglio d’Africa.
Ma facciamo un passo indietro. Nel 2010, quando ero vice superiore generale, io ero andato a trovare il nostro confratello padre Noè Cereda (recentemente scomparso, ndr) nella capitale Antananarivo. Lui era lì perché aveva lavorato come responsabile all’Emi (Editrice missionaria italiana), e aveva avuto un contratto per pubblicare i libri per le scuole elementari e medie dello Stato. Quando ha lasciato l’Emi, dati i suoi contatti, si è trasferito in Madagascar, a lavorare con delle suore. Mi ero dunque fatto un’idea del Paese.
Ma perché il Madagascar? Per noi rispondeva a una delle nostre inquietudini come missionari della Consolata. Oggi tutto è missione e il significato dell’«ad gentes» è in crisi. Non si capisce più esattamente quale sia l’identità concreta dell’andare «alle genti». Diciamo che sono i luoghi dove bisogna annunciare il Vangelo per la prima volta. In Madagascar i cattolici sono una minoranza (circa il 16%, ndr).
Una seconda motivazione era che questo Paese è un ponte che unisce l’Africa all’Asia. La popolazione è in parte di origine africana e in parte austronesiana (come i popoli di Malaysia e Indonesia, ndr).
Il terzo elemento di interesse era quello dare occasione ai nostri missionari africani di realizzare una missione tutta africana.
Quando i nostri primi tre sono partiti nel marzo 2019, sono andati dal vescovo di Ambanja e hanno iniziato a imparare la lingua. Si trattava del congolese Jean Tuluba, l’ugandese Kizito Mukalazi e il keniano Jared Makori. Come africani non hanno avuto grosse difficoltà a comprendere la cultura. Ma dopo qualche mese il vescovo è cambiato, monsignor Vella è stato trasferito e siamo rimasti per un paio di anni con un amministratore apostolico, che però stava in un’altra diocesi e aveva molto altro da fare. I nostri sono stati lasciati un po’ soli. Questo aspetto ha penalizzato la nostra missione. Quando abbiamo fatto la visita con la nostra delegazione si è dunque pensato di aprire nel Nord del Paese, a Beandrarezona, dove i nostri sono arrivati nell’ottobre 2020. Abbiamo subito visto che si tratta di una missione puramente ad gentes: è proprio un luogo fuori dal mondo.
Padre Jared Makori, padre Jean Tuluba e padre Kizito Mukalaz a Nairobi, in Kenya, prima della partenza per il Madagascar. Foto: Jaime C. Patias
Durante la stagione delle piogge, per sei mesi all’anno, non si può neppure arrivare con la macchina. Inoltre, l’unica auto che c’è in zona è la nostra. Nella cittadina dove stiamo, le case sono molto vicine tra loro, perché chi vi abita non aveva mai pensato che potesse passare un mezzo, quindi non c’è una vera strada. Anche le comunicazioni sono difficoltose: per usare il telefono cellulare, i missionari devono andare su una montagna.
Inoltre, la nostra è stata la prima presenza missionaria straniera in assoluto. Prima c’era solo un gruppo di suore malgasce che, ancora oggi, gestiscono una scuola. Forse come prima apertura in un paese nuovo è stata un po’ un azzardo.
Quando ho fatto la mia ultima visita canonica, nel luglio 2022, abbiamo confermato che la missione di Beandrarezona è quella dove vogliamo stare. Allo stesso tempo abbiamo rinforzato l’idea di aprire una nuova comunità nella capitale Antananarivo. Abbiamo infatti visto che in Madagascar, tutto si gioca in capitale, quindi una nostra presenza lì è fondamentale. Non soltanto per gli aspetti pratici ma anche per essere riconosciuti e significativi. Molte congregazioni presenti nel Paese non sanno neppure che esistiamo.
Nella stagione delle piogge le strade sono impraticabili. Foto: Godfrey Msumange
È una missione povera, le entrate sono limitate, anche per mantenere il minimo di strutture non è facile. I tre missionari sono rimasti per tre anni in una famiglia il cui papà era direttore della scuola. Loro si sono ristretti e ci hanno lasciato due stanze con una specie di cucina. Solo recentemente abbiamo fatto fare una casa e poi anche una scuola, che potrebbe dare un senso alla missione e una piccola entrata economica. Il luogo ci definisce, ovvero certe scelte ci definiscono. Essere in Madagascar in questo momento storico è una scelta di campo, da ad gentes, tra i più poveri e abbandonati. La forza di questo Paese è il turismo, ma si concentra sulle coste mentre all’interno la popolazione vive in una povertà estrema.
Adesso padre Kizito ha cambiato destinazione, mentre due padri giovani si stanno preparando per integrare il gruppo.
Questa nuova modalità di missione, si presenta con pochi mezzi. Si esplicita in tre punti: stare con la gente, avere meno potere e più condivisione. Il missionario non deve essere il solito straniero potente che risolve tutto. Questa è però una fatica per i giovani, che sono portati a essere protagonisti.
Bisogna trovare le condizioni per riuscire a stare o, al contrario, capire le condizioni che ti obbligano ad andare via.
La missione oggi chiede una grande conversione: si fa fatica a individuarla, è diversa da quella di una volta, ed è difficile portarla avanti.
* Padre Stefano Camerlengo, IMC, missionario in Costa d’Avorio. Pubblicato originalmente in: Missioni Consolata, Maggio 2024.
“La cappellania è un luogo di incontro dei latinoamericani che siamo di religione cattolica”, ci ricorda Maria, cilena, oriunda di Valparaiso, arrivata da poco agli austeri 60 anni e sbarcata in Italia quando era ancora abbastanza giovane e alla fine di un percorso personale non facile, come non lo è stato per tutti coloro che, a un certo punto della loro vita, hanno fatto della migrazione una scelta dolorosa ma in qualche modo necessaria.
La storia della cappellania si intreccia fortemente con le storie di queste persone che l’hanno fatta, voluta e a modo loro realizzata. È una costruzione collettiva più che istituzionale; è nata attorno alla storia e alle storie delle persone che ne fanno parte o ne hanno fatto parte… alcuni sono ancora lì a distanza di anni, altri si sono allontanati; alcuni sono andati in cielo –anche più di un cappellano– e invece altri ancora sono tornati in patria, magari alla fine di una vita lavorativa impegnata e impegnativa. Di qualcuno si è persa la memoria, altri hanno lasciato un ricordo incancellabile.
Celebrazione della Santa Messa nella Domenica delle Palme. Foto: Archivio Capellania Latinoamericana
Come le circostanze di ognuno sono variate, lo stesso anche la cappellania ha avuto i suoi andirivieni, le sue enfasi, i suoi punti forti e anche le sue debolezze. Sebbene tutti siano latinoamericani, non tutti si riconoscono nella stessa nazionalità o nelle stesse devozioni: ogni paese ha le sue e spesso all’interno di ogni paese ce ne possono essere varie, legate a geografie, culture ed esperienze che non sono le stesse per tutti.
È sufficiente anche solo visitare la parte posteriore dell’attuale sede della Cappellania, in via Nizza 47, per accorgersi di questa verità così evidente. Agli occhi superficiali di un estraneo quel che abbiamo lì è una specie di accozzaglia di santini, santoni, madonnine e madonnone, immagini di Cristo quasi sempre sanguinante e sofferente come il continente di provenienza. Invece nel cuore delle persone che sono devote c’è tutta una storia, una tradizione, una serie di esperienza che sopravvivono in rituali, festività, novene, “sahumerios”, “paradas”, processioni e perfino folklore, ballo e musica a tutto spiano.
Quindi il luogo di riunione, come lo chiama Maria, è forse qualcosa di più di un luogo... diventa anche un tempo, una occasione, un’opportunità, un riscatto, una nostalgia, spesso anche una gastronomia perché “il pollo, quello cucinato con la ricetta di mia mamma, quello sì che era buono!” La cappellania è ognuna di queste cose e anche tutte loro messe assieme e diversamente miscelate.
Padre Horacio Zuluaga guida la processione nella Domenica della Divina Misericordia
La cappellania è la storia che cammina, e lo fa anche, o la fa ancora, nelle giovani generazione. Sono ragazzi nati in Italia oppure giunti piccolissimi, –magari con anche in tasca la nazionalità di questo paese che li ha accolti– ma che in diversi modi continuano ad accompagnare i loro genitori nelle loro “stranezze” che alla fine non sono nemmeno così strane, sono diverse e basta.
L’integrazione è sempre un processo, si fa a piccoli passi, con simpatia e non sollevando sterili conflitti e rivendicazioni, con gesti straordinari di solidarietà che si celano nella quotidianità di coloro che si avventurano nei meandri della società italiana che spesso sta a guardare e ci mette poco a giudicare.
E allora lo spazio della cappellania può anche diventare l’occasione in cui ci si trova tutti assieme, trattando di superare le differenze –che pur ci sono, che creano anche divisioni dolorose, o incomprensioni lancinanti– per assaporate amicizie nuove, accompagnate dalle onnipresenti patate alla “huancaína” salsa dalle mille sfumature –tante come le mani e la creatività di ogni chef– con la quale si condiscono delle semplici patate lesse.
In questa scorsa Settimana Santa abbiamo fatto una prova… forse non del tutto riuscita, ma un primo passo per accorciare distanze. La celebrazione del triduo pasquale tutti assieme. Tutti chi? La fedele comunità italiana che frequentava questa chiesa quando era ancora la cappella delle suore adoratrici di Bergamo, e la variegata comunità latina che, da qualche anno a questa parte, ha fatto di questa cappella la sua casa e la casa delle loro “hermandades”.
Le varie immagini dei santi e della Madonna nella sede della Cappellania Latinoamericana, chiesa dell’Immacolata Concezione a Torino.
Un po’ di musica più mossa, qualche solennità stemperata, gesti di una ritualità più vistosa, costumi e “travestimenti” che hanno riempito di colore la sobria liturgia romana… forse non ci conosciamo ancora per nome e non abbiamo avuto molti risultati quando si è tentato di sederci attorno allo stesso tavolo. Insomma, il “compartir” stenta ancora… ma se son rose fioriranno.
Nel territorio dell’archidiocesi di Torino sono presenti un numero significativo di comunità etniche accompagnate da sacerdoti e religiose, solitamente provenienti dalla relativa area geografica o missionari di ritorno.
A Torino sono presenti 13 comunità che nel tempo hanno vissuto diverse trasformazioni. Se nei primi anni 2000 le comunità rappresentavano un punto di riferimento per chi era appena giunto in Italia, oggi in assenza di grandi flussi migratori in entrata le comunità hanno assunto altri ruoli, con sviluppi differenti tra loro.
Le comunità sono: lusofona, brasiliana, africana anglofona, filippina, latinoamerica, cinese, africana francofona, africana ecumenica, ucraina, albanese, srilankese, rumena e indiana.
* Padre Gianantonio Sozzi, IMC, è cappellano della Cappellania Latinoamericana a Torino. (foto sotto)
Celebrazione nella Parrocchia di Salsasio a Torino in occasione della Festa dei Popoli 2024
«Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
“Il sacerdote è più di tutto l'uomo della carità, ed egli è prete assai più a vantaggio dei suoi fratelli che di se stesso.” (Beato Giuseppe Allamano)
Il nostro caro Padre Matteo Pettinari ci ha lasciato, una vita generosa spazzata via in pochi istanti. Nel pomeriggio del 18 aprile verso le 14 e 30, ha avuto un terribile incidente stradale contro un autobus di linea a Niakara nel nord della Costa d’Avorio dove viveva da missionario da 13 anni.
Padre Matteo, 42 anni, dei quali 17 di professione religiosa e 13 di sacerdozio, nella prefettura di Dianra, era punto di riferimento per l’intera popolazione.
Papa Francesco all’angelus di domenica 21 aprile ha così commentato: "Con dolore ho appreso la notizia della morte, in un incidente, di padre Matteo Pettinari, giovane missionario della Consolata in Costa d'Avorio, conosciuto come il "missionario instancabile", che ha lasciato “una grande testimonianza di generoso servizio”.
Una vita spesa per gli ultimi della Costa d’Avorio, vissuta con energia e vitalità. Non si è mai risparmiato, si è dedicato soprattutto alla costruzione di una Chiesa e di un Centro Sanitario, riferimento per tanta gente della Regione e tanta vicinanza e carità con tutti.
"Quello che l’Africa mi ha insegnato – aveva detto anni fa in un’intervista – è vivere la vita non a partire dai problemi che ci sono o che non ci sono, che potrebbero esserci o non esserci, ma dalle relazioni che comunque sempre sono il sale, la gioia, la ricchezza del quotidiano. Io amo dire quando sono a Dianra che abbiamo mille problemi ma mille e uno soluzioni, nel senso che le difficoltà, le crisi, la precarietà di ogni tipo non possono determinare lo stile con cui si affrontano le giornate".
Era un missionario vero, buono, un cristiano, che divorava la Parola di Dio e non si è mai stancato di spezzarla per tutti. Cercava di aiutare tutti e il tempo non gli bastava mai perché doveva sempre correre ad aiutare e servire. Era sempre il primo a fare la sua parte a servire e amare fino alla fine, a sorridere al prossimo. Una signora l’ha definito: “un missionario senza religione”, perché era sempre pronto ad aiutare tutti senza guardare a quale confessione religiosa appartenesse.
Punto di riferimento era e resta anche a Monte San Vito (Ancona) dove tutta la sua famiglia è conosciuta e apprezzata.
La famiglia ha deciso di lasciare il suo corpo a Dianra Village, nella “sua missione” dove ha offerto la sua vita affinché continui ad essere punto di riferimento, guida sicura, porto di speranza.
Lo ricordiamo con affetto ed amicizia, facciamo fatica a capire il piano di Dio, ma sappiamo che Dio conosce il perché.
Grazie Signore perché ce lo hai donato e perché è stato un grande missionario, ora lo hai chiamato te lo affidiamo, che dal cielo continui ad accompagnarci e si prenda cura di tutti noi che lo abbiamo conosciuto ed amato quaggiù.
* Padre Stefano Camerlengo, imc, missionario in Costa d’Avorio.
“In Brasile, la Pastorale afro ha mosso i primi passi nel 1988, ma ha ancora bisogno di essere strutturata in tutte le diocesi come parte dell'azione evangelizzatrice della Chiesa”, dice padre Ibrahim Musyoka, IMC, coordinatore della Pastorale afro dell'arcidiocesi di Feira de Santana (Bahia).
E’ questa un pastorale che cerca di porre attenzione ai gruppi di afrodiscendenti presenti nella società brasiliana. “Un Sinodo dei vescovi sulla Pastorale afro, come è stato fatto per l'Amazzonia, aiuterebbe molto in questo difficile lavoro”, afferma il missionario.
Quest'anno si conclude il Decennio internazionale per le persone di origine africana (2015-2024), proclamato dalle Nazioni Unite per incoraggiare gli Stati membri a promuovere attività con il fine di riconoscere, rendere giustizia e facilitare lo sviluppo dei milioni di persone di origine africana nel mondo che ancora soffrono dello stigma del razzismo, della discriminazione e dell'inferiorità che ha accompagnato le loro vite da quando i loro antenati sono stati sradicati dall'Africa e portati in altri Paesi in condizioni di schiavitù.
Padre Ibrahim Muinde Musyoka, missionario della Consolata kenyota in Brasile. Foto: Ed Santos/Acorda Cidade
La Pastorale afro, che la Chiesa in Brasile (e in altri Paesi) ha creato, ha forse accolto questa iniziativa dell'ONU per dare nuova linfa al lodevole sforzo di inclusione, valorizzazione e dialogo interreligioso che dal 1988 si sta realizzando per le persone di origine africana? “A quanto pare, no”. Padre Ibrahim, missionario della Consolata del Kenya, in Brasile dal 2016, dove ha studiato teologia ed attualmente vicario della parrocchia di São Roque da Matinha, la prima parrocchia quilombola in Brasile (eretta nel 2021) – spiega che questa iniziativa dell'ONU non ha avuto alcuna ripercussione nella Chiesa, perché essa “non mostra ancora molto piacere nel parlare della questione”.
Nell’intervista, il padre Ibrahim ha parlato della Pastorale afro che porta avanti nella parrocchia di Matinha, di come è strutturata, nonché dello sforzo di aiutare la popolazione, tutta di origine africana, a superare steccati e barriere, anche se in generale più abituata a pensare di non avere nulla da dare e nulla da pretendere. Così, nell'illustrare le numerose attività svolte (in campo educativo, culturale, religioso e storico), il missionario sottolinea che esse sono orientate ad accrescere l'autostima degli afrobrasiliani e la visione generale dell'Africa, che viene sempre mostrata a partire da una prospettiva negativa. La Pastorale afro “cerca di presentare l'altra faccia dell'Africa e della popolazione afrobrasiliana”, ribadisce.
Un momento culturale della Pastorale afro nella parrocchia di São Roque da Matinha, Bahia. Foto: Jaime C. Patias
La Pastorale afro in Brasile è iniziata in modo strutturato nel 1988, proprio con la Campagna della Fraternità promossa dalla Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile (CNBB) durante la Quaresima di quell’anno che aveva come tema “Fraternità e il popolo nero” e come motto “Ascolta il grido del mio popolo”. Purtroppo, “a molti membri della Chiesa manca ancora” - secondo il nostro intervistato – “un atteggiamento e un'educazione che li porti a considerare e ad abbracciare la Pastorale afro come parte integrante dell'azione evangelizzatrice della Chiesa e non solo come carisma particolare di pochi. È necessario ascoltare davvero il grido di questo popolo”. Dobbiamo ricordare che “la Pastorale afro non è una fantasia, ma uno sguardo sincero e onesto sulla vita reale della gente” - sottolinea padre Ibrahim.
Alla domanda sul contributo che il Sinodo dei vescovi per l'Amazzonia potrebbe dare anche per la Pastorale afro e sulla necessità di un Sinodo dei vescovi sul tema degli afrodiscendenti, il vicario della parrocchia di São Roque di Matinha risponde che “Tale sinodo è necessario e urgente” e ipotizza la sua tenuta a livello continentale o in paesi dove l’esperienza della pastorale afro sembra già assodata come Brasile, Colombia, Caraibi...
Francisca das Virgens Fonseca, membro dell'équipe di formazione Pastorale afro dell'Arcidiocesi di Feira de Santana. Foto: Ed Santos /Acorda Cidade
Nell’intervista si citano anche argomenti espressi su questo tema nei documenti della chiesa come l'incoraggiamento del Concilio Vaticano II per l'inculturazione e l'inclusione dei popoli; le conferenze continentali latinoamericane come Puebla, Medellin, Santo Domingos e altre, che hanno in qualche modo creato un clima favorevole alla Pastorale afro. Nella sua valutazione il padre Ibrahim Muinde dice “mancano le risorse umane e materiali, così come una maggiore volontà di vitalizzare questa Pastorale”.
La questione della necessità di un maggiore dialogo interreligioso tra il cristianesimo e le religioni di origine africana, un tempo considerate “primitive”, e il tema della teologia africana non sono assenti da questa ampia conversazione. Si tratta di temi che vengono presi in considerazione anche negli incontri di Pastorale afro a livello nazionale e continentale e risultano molto utili per uno scambio generale sui vari aspetti del lavoro che la Chiesa deve fare per riconoscere pienamente l'importanza e il contributo dei discendenti dell'Africa al Brasile.
Incontro continentale di Pastorale afro nel 2022 in Messico. Foto: archivio personale di p. Ibrahim Musyoka
In realtà, il prossimo incontro continentale si terrà nel 2025 e potrebbe svolgersi in Argentina, un Paese la cui patrona, la Madonna di Lujan, è legata alla figura di un afrodiscendente schiavizzato, tuttavia l’Argentina è uno di quei Paesi in cui la presenza storica dei afrodiscendenti è stata, in gran parte, negata, rifiutata.
Fonte: Pubblicato originalmente in www.vaticannews.va
IV Festival della Fede e della Cultura nell'Arcidiocesi di Cali, Colombia. Foto: Jaime C. Patias
Incontro di Pastorale Afro dei missionari della Consolata presso il Centro di Pastorale e Spiritualità Afro di Cali, Colombia (dal 26 settembre al 2 ottobre 2022). Foto: Jaime C. Patias.
Si avvicina il 24 aprile. Ci porta la memoria di S. Fedele da Sigmaringa e l'anniversario della richiesta fatta nel 1900 dall'Allamano al suo Cardinale di aprire il nuovo Istituto missionario. Abbiamo pensato di offrire questo studio di padre Igino Tubaldo circa il lungo e laborioso cammino verso l'apertura dell'Istituto. Deo gratias! (Buona lettura. Pietro Trabucco, IMC, Castelnuovo don Bosco)
“Era il 29 gennaio 1901 quando Giuseppe Allamano fondò l’Istituto Missioni Consolata. Vi lavorava da quasi un decennio, affrontando difficoltà di ogni genere. Figura importante e determinante nella chiesa torinese della metà Ottocento e primo ventennio del Novecento, il fondatore è quasi sconosciuto fuori di Torino e del Piemonte. In compenso, l’Istituto dei Missionari della Consolata ha messo solide radici in quattro continenti. Questo è il racconto della sua travagliata nascita” (P. Igino Tubaldo). Pubblichiamo di seguito l'articolo integrale.