La Consolata «ad gentes»

Il fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata, il beato Giuseppe Allamano (Castelnuovo Don Bosco, 21 gennaio 1851 - Torino, 16 febbraio 1926), sarà canonizzato.

Lo ha deciso, il 23 maggio scorso, Papa Francesco nell’udienza al cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi, autorizzando a promulgare il decreto relativo al miracolo riconosciuto e a lui attribuito per la guarigione dell’indigeno Sorino Yanomami, avvenuto in Amazzonia.

A padre Ugo Pozzoli, missionario della Consolata, vicario episcopale per la vita consacrata dell’arcidiocesi di Torino, abbiamo chiesto di parlarci del fondatore del suo istituto e di come si vive oggi la missione.

La Chiesa torinese vive un momento di festa per la notizia della canonizzazione del vostro fondatore. Allamano vedeva la Chiesa da una prospettiva che varcava i confini del mondo ma nello stesso tempo è stato un sacerdote profondamente radicato nell’attività della sua diocesi. Come viveva questa doppia dimensione?

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Non credo che si debba parlare di una doppia dimensione. Giuseppe Allamano è stato un prete della diocesi di Torino, con uno stile ispirato in modo particolare dalla vita e dall’opera dello zio materno, san Giuseppe Cafasso. La sua caratteristica consisteva nel saper guardare oltre. L’incontro avuto in età giovanile con il cardinale Guglielmo Massaia, frate cappuccino missionario in Etiopia, creò in lui il desiderio profondo di partire, cosa che non poté avverarsi per ragioni di salute. Da rettore del Santuario della Consolata, incarico portato avanti ininterrottamente per ben quarantasei anni, continuò però a sognare che, anche se non direttamente attraverso lui, la consolazione del Cristo risorto, cercata dai torinesi nel santuario attraverso l’intercessione di Maria, potesse essere offerta anche ai lontani.

Com’era il suo rapporto con i missionari?

Manteneva con loro un dialogo epistolare sempre aperto. Li invitava a scrivere lettere e soprattutto a compilare diari, che gli venivano recapitati ed erano da lui letti avidamente. Attraverso di essi lui si nutriva della missione, imparando dai suoi missionari. È facile immaginare che questo bagaglio di esperienze lo abbia a sua volta influenzato nel vivere il ministero sacerdotale a Torino.

Come si identifica oggi un missionario della Consolata: quali caratteristiche rimarcano la vocazione missionaria in ognuno di voi?

Un missionario della Consolata comprende, nella sua interezza, svariati elementi: l’ispirazione originaria del fondatore, l’evoluzione del carisma attraverso le scelte operate nel corso della nostra storia missionaria e, infine, il contesto attuale, storico, geografico, culturale.

Detto questo, ci sono dei punti chiari e ben tracciati nelle nostre Costituzioni, senza il rispetto dei quali sarebbe difficile identificarsi in modo fedele con il nostro carisma: il vincolarsi con passione all’opera di evangelizzazione della Chiesa con un’attenzione speciale al primo annuncio, lo spirito mariano, la dimensione eucaristica, la laboriosità; il tutto vissuto in comunità, cercando di costruire fraternità basate, come diceva lui stesso, sullo spirito di famiglia e l’unità di intenti.

I missionari della Consolata sono presenti in trenta nazioni nel mondo. Ma oggi, forse, Allamano guarderebbe soprattutto all’Occidente come nuova terra di missione.

Ci stiamo convertendo in modo sempre più deciso a un ad gentes globale, che ci faccia sentire a tutti gli effetti “in missione” ovunque ci si trovi, compresa la nostra Europa, un tempo considerata luogo da cui partire ma non luogo su cui investire risorse e personale. Mi sembra che Allamano, senza ricorrere a inutili forzature, ci dia una chiave di lettura interessante aiutandoci a discernere la nostra missione oggi in Europa.

In che modo?

È curioso vedere come egli, pur limitando gran parte della sua azione al perimetro del Santuario della Consolata, si sia dedicato all’ambiente sociale ed ecclesiale della sua città, cosa che gli venne riconosciuta. Intervenne, infatti, nella realtà sociale del suo tempo in vari modi: con il giornalismo (fu pioniere della stampa cattolica e credeva come pochi nell’efficacia di una buona comunicazione); le associazioni dei lavoratori, con un’attenzione particolare al mondo operaio di quel tempo; la preparazione del clero giovane nel convitto ecclesiastico, attraverso una formazione implicante lezioni, che oggi potremmo definire di sociologia e sulla dottrina sociale della Chiesa.

Senza dimenticare il lavoro capillare svolto nel dialogo personale con tantissimi uomini e donne che venivano al santuario per avere da lui una parola di conforto e consiglio. Così noi oggi portiamo avanti, anche in Europa, il sogno missionario del nostro padre fondatore nell’accoglienza dei migranti, nel lavoro pastorale in periferia, nell’offerta formativa e spirituale sui temi della missione, nell’impegno per la pace e, soprattutto, nella testimonianza che è possibile vivere una fraternità interculturale.

* Nicola Di Mauro, Pubblicato  originalmente in L’Osservatore Romano, 05 giugno 2024 (www.osservatoreromano.va)

Il programma dell'XI Conferenza Regionale dei Missionari della Consolata in Argentina, svoltasi a Luján dal 28 al 31 maggio, ha offerto molti contributi arricchenti sulla missione ad gentes, sul luogo teologico della missione e sulla sfida dell'interculturalità.

Nei loro progetti di evangelizzazione i Missionari della Consolata in Argentina cercano di camminare in armonia con la Chiesa locale e questo è stato riconosciuto dal Vescovo della Diocesi di Merlo-Moreno, Mons. Juan José Chaparro, presiedendo l'Eucaristia del secondo giorno della Conferenza, in occasione della memoria liturgica di San Paolo VI.

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Nell'omelia il vescovo ha sottolineato l'insegnamento e la dedizione missionaria di Papa Paolo VI e ha ringraziato i laici della Consolata per il loro impegno missionario nella diocesi insieme alla presenza della Comunità Apostolica Formativa (CAF). “Ogni Istituto religioso arricchisce la Chiesa locale e noi apprezziamo molto la presenza della CAF; gli studenti con la loro gioventù e diversità sono un dono per tutta l'Argentina. Oggi –ha sottolineato– non viviamo tempi facili, ma la Chiesa, aderendo personalmente a Gesù e ascoltando il grido del popolo, propone il Vangelo per la trasformazione del mondo”. Nel CAF, che si trova accanto alla parrocchia del Santo Cura Brochero a Merlo, sono presenti sette studenti di teologia provenienti da diversi Paesi.

Il programma della Conferenza prevedeva lavori di gruppo su temi quali: il missionario in comunità, il missionario in formazione, la missione ad gentes, l'organizzazione dell'Istituto e l'economia della missione.

La Conferenza ha dedicato molto tempo a riflettere sul Progetto di Vita Comunitaria (PCV), riconosciuto come un vero indicatore per le comunità missionarie che si prendono cura e si rispettano reciprocamente. In esso trovano spazio elementi fondamentali come la costruzione della vita fraterna; l'unità nello svolgimento delle attività (unità di intenti); un programma che preveda almeno un incontro mensile; la distribuzione dei compiti nella comunità sempre in armonia con i valori e gli atteggiamenti che abbiamo imparato da Giuseppe Allamano.

L'impegno a cercare nuove strade

Juan Pablo de los Ríos, Consigliere generale per l'America, ha detto ai missionari presenti che la Conferenza è finita, le linee guida sono state date, ma non bisogna smettere di cercare nuove strade. “È stato fatto un buon lavoro e possiamo guardare al futuro con ottimismo: l'Argentina ha missionari giovani e sacerdoti anziani, che danno esperienza e solidità alla nuova missione. Vedremo i risultati tra qualche anno, abbiamo molta speranza”.

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Padre Juan Pablo ha anche evidenziato alcuni punti su cui si è lavorato durante la Conferenza, come la necessità che il Superiore Regionale aiuti, accompagni e riveda il Progetto Comunitario di Vita e Missione in linea con il desiderio della Direzione Regionale che ha riservato un tempo di riflessione sulla Comunità.

Un altro aspetto che ha sottolineato è la preparazione di un formatore perché, anche se è vero che al momento non abbiamo seminaristi locali, “dobbiamo essere pronti ad accogliere persone disposte a fare un'esperienza con noi”.

Il Consigliere Generale ha messo in evidenza le nuove sfide che la Regione Argentina vuole raccogliere: la pastorale afro e la pastorale nelle “villas” (periferie povere) a queste si aggiunge anche la Pedagogia Allamaniana nel campo dell'educazione. Allo stesso tempo ha apprezzato lo stile sinodale della conferenza in cui erano presenti una Suora Missionaria della Consolata e i responsabili laici delle scuole IMC in Argentina.

Il Superiore Generale, Padre James Lengarin, ha lasciato un messaggio finale alla Conferenza: “Siamo qui per accompagnare e consolare le persone, questo è il nostro servizio e il nostro cammino. Sono felice perché abbiamo sognato la missione con i migranti, gli afro e le Villas; oggi dobbiamo mettere in pratica questo sogno”.

In questo modo i 23 missionari della Consolata presenti in Argentina sono incoraggiati a continuare ad andare avanti e, con la gioia di dare tutto, l'Argentina si alza, canta e cammina!

* Padre Donald Mwenesa e Diana Sosa, comunicazione Regione Argentina.

"Dio, attraverso suo Figlio, ha stabilito un rapporto di amore e di misericordia verso tutto ciò che ha creato. Questa relazione gli permette di gestire bene tutta la sua creazione”.

Ho avuto la grazia di assistere alla trentanovesima edizione del corso di formazione permanente che si è svolto presso la Pontificia Università Salesiana di Roma, dal 19 febbraio al 31 maggio 2024. Il gruppo dei partecipanti era composto da 52 persone provenienti da quattro continenti: tutti tranne l'Oceania. C’erano religiosi e religiose appartenenti a 19 congregazioni e un certo numero di laici.

Non erano solo per persone in qualche modo legate alla formazione –anche se questi erano una presenza significativa– ma fra i partecipanti c’erano superiori, parroci e sacerdoti legati a un impegno pastorale, amministratori, coordinatori della pastorale giovanile, religiosi che stavano vivendo un anno sabbatico e altri che avevano chiesto di intraprendere questo percorso prima di assumere una nuova responsabilità. Questa varietà dimostra la natura interessante e completa di questo corso.

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I participanti del corso di formazione continua nella Pontificia Università Salesiana di Roma. Foto: UPS

Dal punto di vista metodologico il corso è stato ineccepibile e tutti i contenuti li abbiamo ricevuti distribuiti in una ventina di corsi. Le lezioni mi hanno affascinato e tutto è stato davvero arricchente. I temi che abbiamo toccato erano importanti e attuali.

Potrei riassumere il tutto con queste parole: “Dio, attraverso suo Figlio, ha stabilito un rapporto di amore e di misericordia verso tutto ciò che ha creato. Questa relazione gli permette di gestire bene tutta la sua creazione”.

Al centro di questa trentanovesima edizione c’era la figura di Gesù Pantocratore, l'onnipotente, colui che ha tutto nelle sue mani. Egli è Re, Sacerdote e Profeta e, pur essendo di natura divina, ha preso su di se la nostra condizione umana e ha sofferto la passione per portarci alla Pasqua.

Tutta la formazione ruotava attorno alla centralità di Cristo: lui ci ha chiamati e quindi dobbiamo partire da lui, ispirarci a lui e prenderlo come riferimento ultimo. Perché “senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).

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Il superiore, il parroco, il vicario, l'economo, il coordinatore di gruppo, il rettore, il religioso,…tutti sono chiamati a costruire, secondo il volere di Dio, buoni rapporti con coloro per i quali hanno una responsabilità pastorale. Curare le relazioni come il buon pastore lo fa con le sue pecore. Per arrivarci dobbiamo prima lavorare su noi stessi e questo significa costruire la nostra identità; vivere una sessualità e una affettività serene; sanare le ferite; riconciliarsi con il nostro passato. Ogni persona è chiamata a seguire la stessa strada di Cristo che ci invita a una lettura positiva del nostro passato anche se caratterizzato da alcune ferite. Fare una lettura integrale della nostra storia e dare senso al nostro passato ci permette di scoprire la presenza di Dio.

Questo è ciò che giustifica l'esigenza di una formazione permanente, che è prima di tutto una conversione personale e quotidiana, che richiede un cambio di atteggiamento e di paradigma. Il corso, facendoci lavorare su noi stessi, ci ha preparato allo stesso tempo a lavorare con gli altri in qualsiasi ambito e responsabilità della vita. È stata davvero una occasione di formazione integrale perché sappiamo che la vita non è altro che una relazione; ogni persona che incontriamo è un mondo che siamo chiamati a esplorare per scoprirne le diverse ricchezze e arricchirci di esse. Ogni giorno devo costruire buone relazioni con tutto ciò che mi circonda.

Anche la vita religiosa deve puntare sulla buona formazione dei suoi membri se vuole affrontare le sfide di un mondo in continuo cambiamento. Tale formazione deve unificare la persona promuovendo la formazione integrale. Bisogna partire dalla realtà di ogni persona –anche e soprattutto dai suoi punti deboli– per aiutare a rimettersi in piedi. Per sapere dove vogliamo andare e cosa fare per arrivarci è necessario un progetto di vita (Lc 14,28) e il formatore deve considerarsi compagno di viaggio per coloro che sta accompagnando.

La formazione deve portare alla maturità, alla responsabilità e alla capacità di discernere e decidere cosa si vuole dalla sua vita; deve condurre all'incontro personale con il Signore.

Questo corso è stato anche un momento di fratellanza: abbiamo condiviso le diverse esperienze e le nostre ricchezze culturali.

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Padre Inocent  Mbisamulo (centro) con Suor Bruna Zaltron, collaboratrice e Don Carlo Maria Zanotti, direttore del corso. Foto: UPS

Come lavoro finale ho disegnato un progetto di formazione per la tappa della filosofia mostrando l'importanza che questa ha per la formazione di un sacerdote. Come voto finale ho ricevuto una “Summa cum laude”.

Se mi dovessero chiedere una opinione a proposito di questa opportunità formativa direi che è una occasione immancabile se siamo chiamati ad assumerci qualche responsabilità o se vogliamo vivere in pienezza la vita religiosa. Concludo ringraziando la comunità dei Missionari della Consolata che mi ha dato l’opportunità di frequentare questo corso: dopo le fatiche della missione in Venezuela questo corso mi ha confortato e rinnovato.

* Padre Innocent Bakwangama Mbisamulo, IMC, Congolese, è stato missionario in Venezuela per nove anni.

La situazione attuale dell’Istituto e del mondo ci invita a ritornare alle nostre radici, al nostro carisma. Da lì potremo ricevere quella linfa che alimenta e rivitalizza davvero il nostro essere missionari, il nostro modo di vivere la vita religiosa e la fraternità, per arrivare poi al nostro “modo di fare missione” oggi, in comunità multiculturali (XIV CG 21).

Condivido la mia esperienza delle due settimane trascorse in Messico, come messicano, come amuzgo (indigeno) e come guadalupano. Ordinato sacerdote nel 2021, lavoro nella parrocchia Maria Speranza Nostra nel quartiere Barriera di Milano a Torino dove abbiamo anche una Comunità Apostolica Formativa (CAF) con cinque studenti di teologia provenienti da diversi Paesi. Siamo tre sacerdoti.

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Una cena messicana nella Comunità Apostolica Formativa di Torino.

Come messicano

“Ritorno alle radici”. I primi frutti della Missione in Messico.

Credo che questo sia ciò che dà vita a un albero: se perde le radici, muore e cade, perché non è nutrito per stare in piedi e continuare a fare ombra. I rami non saranno abbastanza forti perché gli uccelli possano fare il loro nido. Penso che ogni volta che viene scelto un Paese in cui radicarci ci siano dei missionari che hanno preso quella decisione secondo criteri legati alla missione ad gentes. I missionari della Consolata sono arrivati in Messico nel 2008 e si sono stabiliti a Tuxtla Gutiérrez in Chiapas e a San Antonio Juanacaxtle a Guadalajara.

Nel mio recente viaggio in Messico sono stato invitato a partecipare alla Conferenza della Delegazione Nord America che ci unisce ai confratelli del Canada e degli Stati Uniti. La riunione si è tenuta dall'otto al 13 aprile e ho appreso che l'Istituto è venuto nel mio Paese per cercare vocazioni e risorse per la missione. Ritengo che questo punto sia stato raggiunto con me che sono il primo sacerdote messicano della Consolata. Abbiamo anche padre Camacho Cruz Ansoni (missionario a Wamba, Kenya) e lo studente di filosofia Neftalí, presentato al Padre Superiore come postulante del Noviziato.

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Padre Elmer con i partecipanti alla Conferenza DCMS, Santuario di Guadalupe. Foto: Archivio DCMS

Questo significa che è importante tornare alla radice del motivo per cui siamo venuti in Messico e lavorare per le vocazioni. Come preoccupazione, la Conferenza ha chiesto un missionario a tempo pieno che si dedichi all'animazione vocazionale, dato che a volte ci capita di essere distratti da altre attività pastorali.

Come amuzgo

Tornando alle nostre origini, l'identità di ciascuno di noi è importante, perché ognuno di noi porta con se una ricchezza culturale che rende la nostra famiglia della Consolata più aperta all'universalità. La ricchezza di essere Amuzgo è qualcosa che mi ha aiutato a vivere la mia vocazione.

Qui, nella CAF di Torino e nella parrocchia di Maria Speranza Nostra, tutti noi parliamo più di tre lingue, ognuno ha la sua cultura, e insieme camminiamo alla ricerca di ciò che possiamo contribuire alla consolazione del mondo. Sto preparando un pranzo messicano e mi sono portato molte cose per far conoscere le usanze gastronomiche messicane. La Conferenza lascia una sfida: continuare a lavorare in unità di intenti e creare legami che formino uno spirito di famiglia come sognava il Beato Giuseppe Allamano.

Imparando dal padre Ezio Roatino Guadalupe, morto poco tempo fa, ho potuto celebrare la messa nella lingua locale, l'amuzgo, con una chiesa parrocchiale gremita. Molti sono dovuti rimanere fuori per ascoltare la messa nella loro lingua. L'esperienza è stata molto significativa e la gente ha dimostrato il suo affetto.

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Cena tipica messicana durante la Conferenza della DCMS

Come Guadalupano

Come dice l'inno alla Vergine di Guadalupe, essere messicano e guadalupano è qualcosa di speciale.

Da quando sono stato ordinato sacerdote (13/02/2021) mi sono reso conto di avere due Vergini, una messicana e una italiana, la Guadalupe e la Consolata. Avere due donne è una benedizione, avere due madri è meglio, avere due insegnanti ti fa camminare meglio.

Due donne, una indigena (Guadalupe-Coatlaxopeuh) e una piemontese europea (Consolata). Il Beato Giuseppe Allamano ci ha trasmesso la sua speciale spiritualità mariana, il suo amore per Maria, chiarendo che la sua opera è “della Consolata”. La nostra spiritualità detta in due parole significa precisamente portare a tutti i popoli la vera Consolazione che è Gesù che Maria ci offre e ci addita nell’immagine.

Lo stesso vale per la Guadalupe, dice nel codice Nicamopochua: “Desidero molto e desidero fortemente che il mio Eremo sia eretto in questo luogo. In esso mostrerò e darò tutto: il mio AMORE, la mia COMPASSIONE, il mio AIUTO e la mia DIFESA. Lì ascolterò i loro lamenti, rimedierò e curerò tutte le loro miserie, dispiaceri e dolori”.

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La metodologia di Nostra Signora di Guadalupe è la stessa della Consolata: portare al mondo la vera Consolazione, Gesù Cristo. Amore, compassione, aiuto e difesa sono quattro parole nelle quali si concretizza quella che noi potremmo chiamare Consolazione. Ascoltare i loro lamenti, rimediare e curare tutte le loro miserie, le loro pene e i loro dolori.

Questo è il grido di consolazione di cui il Messico ha bisogno e noi missionari della Consolata rispondiamo alla chiamata di Nostra Signora di Guadalupe da undici anni. Seguendo la metodologia Guadalupana stiamo rispondendo ai popoli nativi e ai nostri fratelli e le nostre sorelle migranti. È una chiamata che richiede una risposta da parte della delegazione. Hanno bisogno di amore, compassione, aiuto e difesa.

*  Padre Elmer Peláez Epitacio, IMC, missionario a Torino, Italia.

La comunità sarà sempre composta dai vivi e dai defunti, e questo legame non si scioglierà più, nemmeno in cielo (Beato Allamano).

Con la consolazione che viene dalla fede, si sono svolti i funerali del nostro caro padre Matteo Pettinari, missionario della Consolata ed ex superiore delegato della Costa d’Avorio, mancato il 18 aprile in un grave incidente stradale. I funerali hanno avuto luogo giovedì 23 e venerdì 24 maggio 2024 a Dianra Village nella regione di Béré.

Lunedì, 20 maggio è arrivata una delegazione italiana composta da 15 persone. Tra i membri della sua famiglia, il papà Pietro Pettinari, il fratello Marco e la sorella Francesca, nonché zii e cugini, amici e rappresentanti del clero della sua diocesi di origine, Senigallia (Marche-Italia).

Martedì, 21 maggio è stata una giornata di presentazione ai familiari e amici degli ultimi giorni di missione di Padre Matteo e all'immediata preparazione dei funerali. Una giornata vissuta nella consolazione e nella preghiera di intercessione, che ha permesso a tutti di vivere questo momento con occhi risorti e gesti di riconoscenza e raccoglimento, nella fede.

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I funerali nella parrocchia di San Giuseppe Mukasa di Dianra Village

Mercoledì, 22 maggio, la delegazione italiana accompagnata dai missionari della Consolata e da tre rappresentanti delle parrocchie di Saint Paul de Dianra e Saint Joseph Mukasa di Dianra Village si è recata a Katiola per una veglia di preghiera, seguita da una messa, con la partecipazione del vescovo di Katiola, Mons. Honoré Beugré Dakpa e Mons. Alain Clément Amiesz, vescovo di Odienné.

Alla celebrazione, hanno partecipato anche membri del clero di Katiola e d’Odienné, rappresentanti dell'URSSCI (Unione dei religiosi che lavorano nell’ambito sanitario e sociale in Costa d'Avorio) di cui padre Matteo era vicepresidente, e una delegazione del Consiglio dei Superiori Maggiori della Costa d'Avorio (CSMCI) assieme a numerosi cristiani e religiose, provenienti dai quattro angoli del paese. Presenti anche i responsabili del CUAMM (medici per l'Africa), una ONG di cui Matteo ha aiutato ad avviare la presenza nel paese.

La mattina di giovedì 23 maggio, la salma è stata accolta nell'obitorio cattolico Ivoire Repos di Katiola per la preghiera finale di addio, in presenza dei due vescovi sopra menzionati e di una folla numerosa. Successivamente, il lungo corteo funebre ha lasciato Katiola per raggiungere Dianra.

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Il corteo si è fermato sul luogo dell'incidente per una speciale e commovente preghiera, guidata da Mons. Amiezi in ricordo di Padre Matteo. Nella parrocchia di San Paolo di Dianra, alle 17,00 la salma è stata accolta con affetto e participazione da una folla di abitanti del villaggio, dapprima nella strada e poi nella chiesa parrocchiale. A seguire, la preghiera dei vespri dell'ufficio dei defunti, guidata dal clero diocesano di Odienné. Alle 21,00 il corteo funebre si è spostato a Dianra Village per la veglia notturna presso la parrocchia di San Giuseppe Mukasa, dove padre Matteo è stato il primo parroco per 12 anni. Molti cristiani e non cristiani hanno assistito fino all'alba ad una serie di preghiere, testimonianze e danze attorno alle spoglie dell’“instancabile missionario”.

La giornata di venerdì 24 maggio è iniziata con la preghiera di Lodi dell'Ufficio dei defunti e, subito dopo, con la celebrazione eucaristica di requiem, presieduta dal Vescovo di Odiennè Mons. Alain Clément con la partecipazione di molti i sacerdoti della diocesi, il superiore e i missionari della Consolata che hanno collaborato con padre Matteo in Costa d’Avorio; accanto a sacerdoti e amici provenienti da Abidjan, Korhogo, Bouaké, Yamoussoukro, Man, Mankono e Burkina Faso.

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 I familiari di padre Matteo presenti al funerale

L'omelia è stata tenuta da padre Ariel Tosoni, missionario della Consolata, confratello e amico di padre Matteo. Hanno partecipato, inoltre, le autorità civili, religiose e locali di Dianra e Dianra Village, gli operatori sanitari del Centro Sanitario Giuseppe Allamano di Dianra Village, di cui padre Matteo era amministratore, nonché il personale del Distretto sanitario di Dianra. La Chiesa e il sagrato parrocchiale erano gremiti di persone, oltre tremila, cristiani e catecumeni, ma anche animisti e musulmani, che hanno avuto la grazia di incontrare e collaborare con Padre Matteo nel loro cammino sin dal suo arrivo nel paese senofu il 17 dicembre 2011. La celebrazione è stata seguita online dall’Italia da oltre 2500 persone

In profonda e rispettosa partecipazione, i funerali si sono conclusi con l’inumazione di padre Matteo in una sepoltura che riprende la cultura senofu, trasfigurata dalla gloria della risurrezione. Lo spazio evoca la Piazza d’oro della Gerusalemme celeste, luogo di preghiera e di comunione tra cielo e terra, ideato e realizzato da Daniela Giuliani, amica e vergine consacrata della diocesi di Senigallia, tra la chiesa parrocchiale e la grotta di Nostra Signora della Consolata. Padre Matteo amava profondamente questo luogo di pace e lui stesso più volte aveva espresso il desiderio che fosse il luogo del suo ultimo riposo.

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Padre Matteo amava questo luogo di pace e lui stesso più volte aveva espresso il desiderio che fosse il luogo del suo ultimo riposo. Foto: Daniela Giuliani

Non appena si era diffusa la notizia della sua scomparsa, innumerevoli sono state le testimonianze che ci sono pervenute: missionario instancabile, uomo di Dio, padre dell'ascolto, amico profondo, padre che conduce a Dio, sacerdote della consolazione, uomo di preghiera, mistico dell'amore di Dio, figlio di Maria Consolata, silenzioso promotore della giustizia, uomo consacrato, sacerdote santo, vero missionario del Padre… Soltanto alcune delle designazioni che ci mostrano come una vita donata a Dio per la missione può toccare il cuore di coloro che sono assetati di salvezza.

Padre Matteo ha lasciato ai missionari della Consolata una fervida testimonianza di consacrazione religiosa e missionaria con uno stile particolare improntato alla santità di vita, alla celebrazione della misericordia di Dio, ad un'instancabile pastorale missionaria ad gentes e ad un'attiva opera di consolazione del popolo sénofu, che amava tanto, nel rispetto di una fraternità costruita con sincerità. Il suo notevole sforzo di incarnare il Vangelo nella semplicità della quotidianità e nel dialogo della vita si è tradotto nella conoscenza della lingua locale, nel primo annuncio ai non cristiani, nella celebrazione dei sacramenti e nell'ascolto cordiale e disinteressato.

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La missione e la gente di Dianra Village hanno perso un pastore che si è lasciato bruciare dalla missione che è Dio, secondo le parole di Papa Francesco: un missionario che “mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa finoall’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno così “odore di pecore” e queste ascoltano la loro voce” (Evangelii Gaudium, 24).

Ci auguriamo che la sua vita continui a sfidare la nostra grande famiglia missionaria della Consolata gridando ancora più forte che la giustizia evangelica e la missione a favore dei più abbandonati e vulnerabili sarà sempre un impegno, personale e comunitario, santo e consacrato, consapevole e radicale, modellato unicamente dall’amore al vangelo della Vita

Servizio di TV Ecclesia sui funerali (la TV cattolica della Costa d'Avorio) in francese

Messa del funerale di padre Matteo (dal minuto 5:52)

* Padre Ariel Tosoni, IMC, è missionario in Costa d’Avorio.

 

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