Padre Giovanni Cavallera, morto nel 1987, aveva dovuto abbandonate l’Africa alla fine della seconda guerra mondiale come conseguenza de quel conflitto che l’aveva improvvisamente allontanato dalla sua missione in Sudan ed Etiopia per farlo passare da diversi campi di prigionia prima di rimandarlo definitivamente in Italia. Dopo sei anni passati in Argentina torna in Italia con la nostalgia dell’Africa che aveva lasciato e si trova con Mons. Carlo Re, anche lui esule dall’Africa e diventato nel frattempo vescovo di Tempio Pausania (Sardegna) che lo invita nella sua diocesi ad occuparsi del piccolo borgo di Tergu.
È amore a prima vista! Tergu, al nord della Sardegna con le sue case sparse in mezzo alla campagna, con tanto lavoro sociale da fare, con il suo antichissimo santuario (secolo XI) dedicato a Nostra Signora di Tergu, che è patrona di tutta la l’Anglona, sarà da lui ribattezzato “la mia nuova Africa”. Ci resta dall’anno 1959 fino al giorno della sua morte e inaugura la presenza dell’Istituto nell’isola. Il suo passaggio ha lasciato un segno indelebile nelle persone che hanno conosciuto tutto il suo impegno missionario, soprattutto i più piccoli che sono stati beneficiati del suo concreto impegno educativo.
A più di 35 anni di distanza dalla sua morte quei bambini non sono più tali ma è così importante il ricordo che portano nel cuore di questo missionario che hanno voluto dedicargli una statua situata nei pressi della parrocchia che aveva servito. A continuazione un messaggio letto al momento della benedizione della statua fatta dal vescovo di Tempo Mons. Sebastiano Sanghinetti.
Frutto dell’animazione del padre Giovanni anche la vocazione e l’impegno missionario di due sorelle che sono diventate missionarie della Consolata: suor Natalina e suor Aurora Cossu, la prima in Mozambico e la seconda in Brasile. Sono attese in paese per le loro vacanze nel prossimo mese di Luglio.
ciò che hai donato alla nostra comunità, non è cosa semplice da descrivere in poche righe. Sei stato la nostra giuda spirituale ma anche quella sociale e culturale
Quando sei arrivato tra noi la tua anima missionaria ha subito capito che c'era da rimboccarsi le maniche: in primis ricordiamo le varie attività per la formazione religiosa; la tua catechesi spiegata con parole semplici ma incisive, accresciute dal tuo esempio e dalla tua opera.. hai costruito il gruppo di azione cattolica che teneva uniti noi giovani, ma anche il gruppo CIF che univa anche la nostre mamme.
Tergu era allora una frazione, ma non di un solo comune, e sarebbe stato troppo semplice, bensì di tre comuni. Ti sei subito prodigato per darci anche nel campo culturale e civile una formazione, hai iniziato con il dare vita ad un asilo (Esmas), con la tua vecchia 600 multipla prima e il pulmino 850 poi: eri lo scuolabus dei più piccoli, facevi il giro del paese per prenderli la mattina e poi riportarli il pomeriggio. Approfittando poi del fatto che la televisione pubblica aveva iniziato un corso di preparazione per la scuola media, hai preso accordi con il preside di Castelsardo che, previo esame annuale, ha dato la possibilità a molti di noi di avere la licenza media e, per chi ha voluto di proseguire gli studi, di avvicinarsi al mondo del lavoro con un titolo di studio.
Per incrementare il lavoro femminile hai preso accordi con una ditta tessile del continente, creando per un folto gruppo di ragazze un percorso lavorativo attraverso un laboratorio di maglieria.
Sarebbe molto lungo elencare tutto quello che con il tuo sorriso, le tue opere, la tua grande disponibilità, la tua capacità di ascolto e il tuo garbo hai dato alla nostra comunità.
Nei tuoi ultimi anni, con l'avanzare dell'età, sembravi stanco e non in buona salute ma la tua proverbiale allergia ai medici e alle medicine ti ha indebolito ancor di più. Forse, come hai detto una volta, si avvicinava l'ora di tornare alla casa del padre, così che il 7 febbraio del 1987 hai lasciato la tua vita terrena nella comunità che hai amato tanto e dalla quale eri ricambiato.
Grazie padre Giovanni, sei stato la nostra stella polare, ti porteremo sempre nei nostri cuori. (Mariuccia, Gruppo Missionario di Tergu)
Pagina neobibblica a partire da Atti 4,34-37; 5,1-11
Secondo il carisma i Missionari della Consolata vivevano come fratelli, tutto lo mettevano nella cassa comune, tranne le eccezioni riportate dalle costituzioni. Nessuno mancava di niente. Tutti i soldi, i beni come donazioni eredità od altro, che riceveva ogni missionario, lo consegnava all’Amministratore per l’usufrutto di tutti. Cosí in quei giorni un missionario ricevette una forte somma e la consegnò.
Capitò invece che due missionari incaricati delle relazioni con i benefattori, soprattutto con gli anziani pensionati, ebbero come donazione in eredità una proprietà di grande valore. Si misero d’accordo tra di loro, fecero la vendita, ed una parte la consegnarono in banca a loro nome mentre il rimanente andarono a metterlo a disposizione dell’amministratore.
Como non c’è niente nascosto sotto il sole, all’amministratore era già pervenuta la notizia di quella manovra sleale contro il voto di povertà.
All’arrivo del missionario questi gli domando se fosse quella la somma in cui avevano venduto la proprietà, e lui rispose di si.
L’amministratore all’ora gli disse di non aver ingannato solo ai confratelli ma anche a Dio e gli diede il decreto di esclaustrazione preparato e firmato dal Superiore Generale, decretando cosí la morte di quel religioso falso per l’Istituto.
Poco dopo arriva l’altro missionario, senza sapere cosa era capitato al suo compagno. L’Amministratore domanda anche a questo la cifra per la quale era stata venduta la proprietà. Il religioso, d’accordo con l’altro, cita lo stesso valore della supposta vendita, mentendo anche lui.
L’Amministratore gli dice allora: sappi che per il vostro inganno il tuo compagno è stato esclaustrato e tu avrai la stessa sorte. Gli consegno poi il decreto corrispondente nel quale si certificava, anche per lui, la sua morte per l’Istituto.
Tutti i confratelli rimasero stupefatti e approvarono la decisione dei superiori.
Il Vicariato di Puerto Leguízamo Solano (Colombia), nato dall'ex giurisdizione ecclesiastica del Vicariato di San Vicente, ha appena festeggiato 10 anni di fondazione e l’ha fatto con il suo primo vescovo, Mons. Joaquín Pinzón, Missionario della Consolata, che pochi giorni fa ha anche lui festeggiato il decimo anniversario di ordinazione episcopale. Recentemente è stato a Roma per la visita "ad limina" di una parte dell'episcopato colombiano; gli abbiamo chiesto quali sono stati i tre più grandi successi e le tre più grandi sfide di questa giovane chiesa che ha guidato fin dalla sua creazione.
Un primo aspetto positivo del cammino di questo vicariato è stato quello di essere più vicini come Chiesa alle comunità che nella geografia amazzonica vivono in luoghi periferici e spesso a notevole distanza dai centri abitati più importanti. La prima cosa che la Chiesa ha voluto fare in questo territorio è stata quella di farsi presente. È una presenza umile ma disposta a incoraggiare, accompagnare e sostenere la popolazione nel su cammino e nella su quotidianità non sempre facile.
Una seconda conquista è stata quella di entrare in sintonia con il Sinodo dell'Amazzonia prestando attenzione ai diversi volti che compongono la pluralità etnica di questa regione: gli indigeni, i contadini, gli afro-discendenti. La nostra chiesa è fatta da loro, sono loro che disegnano il volto unico e plurale di questa chiesa amazzonica.
Un terzo risultato è aver ottenuto dei giovani che in prima persona si stanno impegnando in un cammino vocazione serio: saranno loro i ministri del domani. È bello vedere questo piccolo gruppo di giovani che vogliono mettersi al servizio dell'Amazzonia e della frontiera.
Non sono poche le sfide che abbiamo davanti e in qualche modo loro rappresentano indicatori, percorsi e orizzonti verso i quali orientare il cammino della Chiesa che vuole rispondere ai bisogni e ai sogni della gente di questo immenso territorio.
Un primo percorso è quindi il processo di accompagnamento degli animatori indigeni e campesinos, affinché possano emergere i diversi ministeri necessari alla crescita e alla maturità di questa chiesa.
Un secondo percorso è quello di rafforzare le vocazioni indigene; uomini e donne che, desiderosi di seguire Gesù, si impegnano nella crescita di questa Chiesa amazzonica e di frontiera.
Una terzo orizzonte invece ci invita a tessere relazioni sempre più profonde con le Chiese vicine, quelle dell'Ecuador e del Perù, che consideriamo come sorelle perché con loro condividiamo tutto: il territorio, la preoccupazione per l'ambiente e l'impegno per vivere in questa casa comune, fragile ed esuberante, che ci accoglie. I nostri popoli sono vicini e sono fratelli e sorelle. Con tutti loro, in Cristo, vogliamo avere vita piena.
* Mons. Joaquín Pinzon, Missionario della Consolata, è il vescovo di Puerto Leguízamo (Colombia)
Per “partire senza indugio” e ritornare sulle strade dell’umanità dove svolgiamo il nostro servizio missionario proponiamo dieci atteggiamenti missionari che esprimono lo stile del Beato Allamano a cui ispirarci continuamente.
Le proposte dell’Allamano sono sempre esigenti, conformi alla radicalità del vangelo. Egli è comprensivo della debolezza umana, pronto a capire, perdonare, incoraggiare ad «andare avanti», ma non sopporta la mediocrità. La missione esige impegno totale e perpetuo. Essa, secondo l’idea dell’Allamano codificata dalle Costituzioni, «deve permeare la nostra spiritualità, guidare le scelte, qualificare la formazione e le attività apostoliche, orientare totalmente l’esistenza».
L’Allamano vuole missionari coraggiosi, energici, generosi.
L’Allamano chiede che i missionari siano qualificati. Ne è tanto convinto da ricorrere a espressioni insolite sulle sue labbra: «Dobbiamo essere tutti di prima classe. Qui voglio solo roba scelta, vasi ripieni di liquore prelibato». Per la missione, prima attività della chiesa, si deve dare il meglio. È convinto che, più del numero, valga la qualità: meglio pochi, ma in gamba, capaci di fare per molti. Non pensa a superdotati. «Non abbiamo bisogno di aquile, ma di buone e ferme volontà».
Oggi la qualificazione è fondamentale perché la missione ad gentes ci spinge sulle frontiere e abitare in situazioni-limite. Il missionario si deve confrontare con la globalizzazione economica, la devastazione del Pianeta, la crisi ambientale, la corsa agli armamenti, il pensiero postmoderno, la mobilità umana, il dramma dei rifugiati e la multiculturalità, i movimenti religiosi, il numero crescente di battezzati che hanno perso il senso della fede e appartenenza alla chiesa, la secolarizzazione di un mondo che pretende costruirsi su basi che prescindono da Dio e dai principi morali. Ciò richiede evangelizzatori preparati, capaci di far leva sugli aspetti positivi di fenomeni in gran parte negativi.
La qualificazione è soprattutto profondità della vita spirituale. Il missionario è una persona attiva, che però pone a fondamento la ricerca di Dio. L’Allamano afferma: «Prima santi e poi missionari». È un «prima» riferito a tanti aspetti: preghiera, consacrazione religiosa, studio, pratica delle virtù umane e cristiane, impegno in ogni campo. Per far conoscere il Signore, per annunciarlo, occorre avere con Lui un rapporto personale; e per questo ci vuole la capacità di adorarlo, di coltivare giorno dopo giorno l’amicizia con Lui, mediante il colloquio cuore a cuore nella preghiera, specialmente nell’adorazione silenziosa.
Per essere missionari ci vuole una marcia in più, o (se si vuole usare una delle parole più frequenti nell’Allamano) «uno spirito».
Che cosa egli intenda è detto bene nel documento preparatorio al X Capitolo generale dei missionari della Consolata: «Egli parla di spirito di povertà, spirito di obbedienza, spirito di sacrificio, spirito di preghiera, spirito di silenzio, spirito di umanità, spirito di fede, spirito di lavoro, spirito di distacco, spirito di carità. Spirito è una realtà che penetra, regge e nobilita altre. È profondità, intensità. È intuizione. È l’opposto di ogni formalismo. È totalità. È verità, soprattutto nell’essere missionari. È andare all’essenza delle cose. È farle bene». «Voi - dice l’Allamano - dovete avere lo spirito dei missionari della Consolata nei pensieri, nelle parole, nelle opere».
La missione non è un’attività individuale, secondo criteri personali. È azione di chiesa in spirito di comunione, «in unità di intenti». Questa è una intuizione fondamentale, un principio basilare, un’idea fissa. Si tratta di uno «spirito di famiglia» o «spirito di corpo», che per l’Allamano è il segreto di riuscita, l’obiettivo da realizzare ad ogni costo. Nel lavoro missionario l’unità è la condizione «più necessaria» e «più importante», senza la quale si rischia di lavorare invano.
La comunione tra i missionari diventa anche metodo di lavoro, estendendosi ai collaboratori, ai catechisti e ai membri più sensibili delle comunità cristiane. Si esprime all’interno e all’esterno: essere tutti per uno e uno per tutti. La missione perciò si fa insieme, non individualmente, in comunione con la comunità e non per propria iniziativa. E se anche c’è qualcuno che in qualche situazione molto particolare porta avanti la missione evangelizzatrice da solo, egli la compie e dovrà compierla sempre in comunione con la Chiesa che lo ha mandato.
Proprio perché pensa sempre alla missione nell’unità, Giuseppe Allamano si adopera di coinvolgere anche le comunità cristiane, iniziando da quanti frequentano il santuario della Consolata di Torino, cui è rettore. La sua opera non sarebbe riuscita senza tale partecipazione.
Oggi è maturata una visione teologica che fa meglio comprendere l’impegno di ogni comunità cristiana nell’annuncio del vangelo. Il battesimo conferisce il diritto-dovere di impegnarsi, sia come singoli sia in associazioni, perché l’annunzio della salvezza sia conosciuto e accolto da ogni uomo, in ogni luogo; tale obbligo li vincola ancora di più nelle situazioni in cui gli uomini non possono ascoltare il vangelo e conoscere Gesù se non per mezzo loro» (cfr. Redemptoris missio, 71).
Questa collaborazione, espressa in varie forme nell’ambito dell’istituto dell’Allamano, ha aperto ai laici nuove vie d’impegno nei paesi di missione come in Italia.
I missionari portano il «lieto annuncio». Devono farlo stando dalla parte di chi ha più bisogno di essere sollevato, colmato di gioia, anche alleviando mali fisici e morali causati da malattia, emarginazione, povertà, ignoranza. L’Allamano raccomanda di «stare con la gente», andare a trovarla dove vive. È l’espressione del cuore compassionevole di Dio che diventa consolazione. È un programma iscritto nel nome stesso che i missionari portano: quello della «Consolata». Sul modello di Maria sollecita del bene dell’umanità, la missione tende a instaurare il regno di Dio, che è amore, bontà, misericordia. Le Costituzioni dell’Istituto hanno accolto tale istanza, proponendo di «essere presenti tra la gente con cui lavoriamo in modo semplice e fraterno, con contatti personali e con attenzione ai loro problemi e necessità concrete».
Ricordiamo che seguire Cristo vuol dire andare là dove Egli è andato; caricare su di sé, come buon Samaritano, il ferito che incontriamo lungo la strada; andare in cerca della pecora smarrita. Essere, come Gesù, vicini alla gente; condividere le loro gioie e i loro dolori; mostrare, con il nostro amore, il volto paterno di Dio e la carezza materna della Chiesa. Che nessuno mai ci senta lontani, distaccati, chiusi e perciò sterili.
Non è difficile scorgere l’intima correlazione tra la consolazione-liberazione-promozione e la missione. Dio, che ha visto la miseria del suo popolo e ha ascoltato il grido di aiuto, ha inviato Mosè a liberarlo dall’oppressione (cfr. Es 3, 7-11). Chiaramente la consolazione-liberazione è missione divina, dono del Cristo salvatore. A noi è stato affidato il ministero di portarlo a tutti - si legge nel documento preparatorio al X Capitolo generale -. Senza difficoltà si può riconoscere che, nel nostro metodo di lavoro, evangelizzazione e promozione umana si sono sempre accordate. L’insegnamento del fondatore su questo è esplicito e frequente. E prese posizione per difendere questo suo principio... Noi dobbiamo assumere la condizione della gente e apprezzare i suoi valori. Le nostre certezze e pretese di superiorità, la nostra supposta e indiscussa dignità da salvaguardare si oppongono a una metodologia di comunione.
L'Allamano è ricettivo al divenire della storia con la quale saprà camminare e crescere e della missionarietà vissuta dei missionari alla scuola dei quali egli stesso si formò. Egli che non mise mai piede in Africa, accettò come componente della identità della sua opera l'ideale e il modo di viverlo di chi faceva missione sul campo. Trasformava in carisma la missione vissuta, in perfetta armonia con la sua vocazione di mettersi a servizio di chi voleva fare missione. Per questo stabilì con i suoi missionari una corrispondenza costante e l'obbligo di affidare il quotidiano alla carta dei diari che egli considerava fonte per imparare e formare.
La missione rendeva tutti discepoli perché nella sua imprevedibilità sconvolgeva i pregiudizi culturali e le protezioni sociali costruite negli anni della preparazione.
Questo insegna a mettersi in ascolto della realtà, a superare l’autoreferenzialità, a vivere la “docibilitas” che è la disposizione interna di chi ha imparato a imparare, ad accogliere, a obbedire, a rendere cioè ogni istante della propria vita un tempo di grazia, tempo che Dio ha assunto per mettersi in un atteggiamento di formazione continua come se tutta la vita fosse un’unica stagione, quella del tempo di Dio.
L'Allamano conduce l'Istituto a cogliere l'insorgere delle novità che si affermano. Egli sa per esperienza personale che la fondazione stessa dell'Istituto è un’idea nuova su una realtà ecclesiale statica. Vuole quindi che la sua opera sopravviva e si identifichi con l'insorgere di nuove idee, nuove intelligenze, ossia con ogni nuova capacità di leggere la novità dentro il presente e la semplice evidenza dei fatti. Intuisce che il "solito", l'abitudinario, il sicuro del passato, anche di quello che tale sarà appena si guardi in prospettiva il presente, sono destinati a mutare e forse anche a scomparire.
Non può essere che così perché "l'andare oltre" per l'Istituto voluto dall'Allamano non è la conseguenza di un compito ultimato, di un lavoro compiuto interamente. L'apertura è un parametro di controllo dell'autenticità dell'Istituto che dalla sua storia ha imparato non solo ad interrogarsi sul valore di quanto sta facendo, ma a contemplare l'oltre verso cui deve protendersi.
Il punto al quale i missionari sono giunti nelle realtà e nei contesti in cui operano non può essere considerato come il modello di un perpetuo ritorno per rifare le stesse cose, ma il semplice punto di partenza per qualcosa di nuovo che va oltre sia a livello geografico che contenutistico.
“Dio ha tanto amato gli uomini che ha dato loro il suo figlio” e così il verbo si è fatto fratello.
“Fratello di Abele e anche di Caino fratello di Isacco e di Ismaele, fratello di Giuseppe è anche degli altri che lo hanno venduto fratello di Pietro di Giuda dell'uno e dell'altro”(Christian De Cherge).
Per Christian De Cherge (martire di Tiberin) il verbo si è fatto fratello dell'ebreo (fratello di Isacco) dei musulmani (fratello di Ismaele) con la venuta nel nostro mondo di Gesù Cristo, dice Christian, è iniziata una fraternità nuova e universale.
In nome di questa fraternità universale, nel pomeriggio di Pasqua si è fatto grande festa nel salone della parrocchia di Oujda con i nostri fratelli Mussulmani. Anche oggi li ospitiamo in occasione della festa della Eid, festa grande per i nostri fratelli Mussulmani, quando termina il Ramadan.
Tutti assieme ci siamo uniti per dare gloria all’unico Dio che ama tutti gli uomini. La festa della Eid si svolge così: al mattino presto ci si alza per pregare e questa dura un’ora (lodi, ringraziamenti, canti e prostrazioni) poi si prepara la sala del banchetto e all’ora convenuta, verso le dodici, si inizia il pranzo.
Il pranzo è stato preparato in anticipo per poter stare tutti assieme il giorno di festa. È bello vedere questi giovani che si improvvisano cuochi, inservienti e poi uomini delle pulizie, tutto è fatto in famiglia.
Dopo il pranzo la festa continua fino a sera. Musica e danze africane si succedono al ritmo che noi diremo di discoteca.
Il mese di Ramadan è stato lungo ed è faticoso viverlo con fedeltà: ci si alza la mattino presto per poter mangiare un po’ e poi digiuni tutto il giorno fino alle 18, quando il Muezim annuncia la rottura del digiuno, per mangiare ancora un altro frugale pasto. Durante il giorno scuola, lavoro e preghiera.
E’ difficile a parole esprimere la gioia che manifestano questi giovani nel ritrovare tutta la loro umanità e nel vivere la festa come a casa loro in famiglia. Loro hanno passato lunghi mesi di deserto e di incontri con persone che hanno tolto loro tutto compreso la voglia di vivere. Hanno vissuto tempi nei quali era rimasta loro solo la speranza in Dio che li ama e li protegge. Oggi possono ringraziare questo Dio con il cuore e con la gioia di chi si sente ancora pronto a vivere i propri sogni; con lo stesso coraggio con cui sono partiti da casa salutando i loro genitori, fratelli e sorelle. Domani, dopo la festa, molti si metteranno in strada per il lungo viaggio che ancora li aspetta prima di poter raggiungere la meta dei loro sogni. Per noi Missionari della Consolata di Oujda, il servizio missionario è precisamente questo: consolare, ridare speranza, pregare Dio con e per i giovani migranti che approdano nella nostra fraternità.
* Giuliani Francesco è Missionario della Consolata che lavora con migranti a Oujda (Marocco)