Sono padre Daniel Ruiz, compio non 50 ma 55 anni di ordinazione a dicembre di quest’anno. Sono venuto a Roma perché ero sicuro che questo corso mi sarebbe stato di grande aiuto per trovarmi con la mia realtà, la mia vecchiaia... e così è stato. Il prossimo mese di maggio compirò 78 anni e ho potuto scoprire che la vecchiaia non è, come dicono in swahili, un “mzigo mzito”, un peso noioso da portare, ma è un dono e un valore con il quale, anche se le forze mancano un po’, abbiamo ancora tanto da dare agli altri.
Tutto quello che abbiamo raccolto nella nostra vita è da comunicare agli altri, una saggezza che non va sprecata.
Grazie mille per questo corso, è stato un grande regalo. Torno in Tanzania per continuare a comunicare ed annunciare ai fratelli e lo faccio con maggior fiducia in Colui che mi ha chiamato e continua a dare la vita per noi.
Il simbolo che ho portato è una tartaruga, perché la tartaruga? Perché in Kiswahili ci sono delle favole che hanno come protagonista Mzee Kobe, cioè l’anziano tartaruga. Questi è un animale simpatico, certamente lento, ma ci comunica la pazienza e la saggezza.
La ragione di questo segno che mi sono portato viene da lontano, da quando sono arrivato in Tanzania la prima volta. Avevo trovato p. Giovanni Barra al quale avevo chiesto di consigliarmi qualcosa di importante per la mia nuova missione in quel paese. Lui mi ha risposto con un indovinello che diceva così: “chi non ce l’ha l’acquista e chi ce l’ha la perde... che cos’è?”. Ci avevo pensato un po’ e dopo mi ero arreso. E allora lui mi ha risposto in questo modo: “la pazienza figliolo! Se non ce l’hai la acquisterai, e se ce l’hai la perderai!”.
È la frase che non mi dimentico mai... io in realtà mi sembra di averne ma è pur sempre vero che ogni tanto la perdo e allora la devo riacquistare. È un valore per me e per quelli che convivono con me e da lì il simbolo che ho portato per “presentarmi” in questo corso: la tartaruga, la saggezza di Mzee Kobe.
Ai missionari giovani consiglierei prima di tutto d’avere un forte senso di appartenenza. Loro hanno lasciato le loro famiglie ma non le hanno abbandonate: continuano ad amarle come prima. Pero adesso hanno una nuova famiglia: la famiglia dei missionari della Consolata, la nostra congregazione, il nostro istituto. È qui che ci dobbiamo donare tutto, “hali na mali”: cuore e anima.
I giovani devono rendersi conto che se siamo fragili se non abbiamo la fede salda, la missione sarà dura. Quindi fede in Gesù che ci chiama e ci invia, prima veri cristiani e poi missionari.
* P. Thomas Mushi è Missionario della Consolata, Studente di Diritto Canonico a Roma, e ha intervistato il P. Daniel Ruiz presente al corso dei missionari con 50 anni di ordinazione.
In questi anni non ho mai voluto essere proprietario della missione o il classico superiore che domina. Invece ho voluto essere il custode di un vocazione che ci accomuna, di un carisma che ci fa fratelli, di una missione che ci spinge a sognare le stesse cose. C'è uno slogan che ho attaccato alla mia scrivania ed è li da anni: un aforisma di Bertolt Brecht e dice “ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati”; solo chi non trova un comodo posto a sedere è capace di fare la rivoluzione.
Un'altra frase che mi ha accompagnato in questi anni l’avevo trovata in un libro di meditazioni. Diceva qualcosa di simile: "se per caso dalla vita dei missionari sparisse la parola amore oggi dobbiamo rimpiazzarla con responsabilità. Il nuovo nome dell'amore è la responsabilità.
Su questo punto dobbiamo battere molto: molti problemi che abbiamo sono legati spesso a una mancanza di responsabilità e su questo mi è sembrato importante chiamare l’attenzione di tutti i missionari. Essere responsabili significa prendersi a cuore le cose che facciamo; rispondere delle comunità o degli impegni che sono stati a noi affidati. Non si tratta di far sentire uno colpevole o innocente ma di richiamare ciascuno alla propria responsabilità: non possiamo rinunciare a questo se vogliamo vivere la nostra vocazione da adulti e non da bambini.
Un altro aspetto importante è quello di spostare la nostra consacrazione dal fare all’essere. La nostra vita è sempre stata molto attiva ma non possiamo lasciarla agganciata al fare. In questi giorni, con il corso per i missionari anziani, uno psicologo diceva precisamente questo: il problema dell'età avanzata diventa tale se ci siamo agganciati troppo al fare e poco all'essere. Quando le forze non ci sono più allora i missionari entrano in crisi se sotto non c'è un essere consistente. Se invece è importante l'essere, anche se sei anziano, potrai sempre trasmettere qualcosa.
Ce ne sono davvero tante, provo a riassumerle citando tre esperienze che mi hanno marcato nella relazione con missionari, tre con le comunità e tre con l’Istituto in generale
Una esperienza davvero forte fatta abbastanza recentemente è quella con l'ex padre Giuliano. Lui già un bel po’ di anni fa, in Venezuela, ha lasciato l'Istituto e messo su famiglia. Io tutte le volte che andavo in Venezuela lo cercavo. Poi proprio nel periodo più brutto di questo paese, con la crisi che si era aperta dopo la morte di Chávez, quando era diventato perfino difficile mettere qualcosa sotto i denti, mi arriva la notizia che Giuliano si era ammalato di un cancro all'esofago. In Venezuela, in quelle condizioni, era davvero destinato a morire. Mi è sembrato che non potevamo far finta di niente, lui era stato uno di noi, e allora l'ho fatto arrivare ad Alpignano dove è rimasto fino alla morte. Mi ha lasciato scritto delle cose molto belle, ha fatto veramente una esperienza mistica ad Alpignano. Poi abbiamo fatto venire anche le figlie quando era quasi alla fine; il cancro gli impediva di parlare ma scriveva ancora su un foglio. Alla fine è morto degnamente ed è stata per lui e anche per noi una esperienza di grande consolazione. Un caso analogo è stato quello del padre Giorgio, anche lui uscito tanti anni fa. Si era ridotto a vivere, cieco, in un appartamento da solo e così anche lui l'abbiamo portato ad Alpignano.
Poi stiamo accompagnando un padre che ha abbandonato l’Istituto con 72 anni, dopo una esperienza che non era mai stata affrontata per più di venti o trent'anni e che faceva star male sia il padre che la comunità. Adesso sta bene, è contento, ma con settanta due anni e non lo possiamo lasciare solo e quindi anche lui dobbiamo accompagnare.
È parte della vita e del servizio che mi è stato affidato dalla comunità: stare vicini a missionari che vivono esperienza forti. Per ultimo il caso del padre Rocco che a Milano che stava lentamente morendo di cancro, in età ancora abbastanza giovane e che, fino a poco prima, era ancora nel pieno delle sue attività. Che difficile trovare le parole giuste per dire a un confratello con il quale hai convissuto e fatto un cammino assieme “guarda, umanamente parlando la situazione che stai vivendo ha una sola uscita e quella è la morte, la medicina non può fare più niente per te”. Quando riesci a trovare le parole giuste allora senti il suo ringraziamento e quello della sua famiglia. Ho scritto loro quattro righe e queste sono state pubblicate nell’immagine ricordo che è stata distribuita in paese in occasione del suo funerale. È stata anche quella una esperienza di profondo dolore e di profonda consolazione.
Nelle comunità la consolazione è essenzialmente presenza, stare con, condividere e sporcarsi le mani con le situazioni che vivono i confratelli. Non finirò mai di ringraziare il Padre Eterno per tutta la esperienza che ho avuto modo di accumulare in questi anni spesi accompagnando i confratelli. È stato un dono e una bellezza incredibile.
Potrei ricordare il caso di Dianrá, quando la guerra civile della Costa d’Avorio stava volgendo al termine ma il paese continuava ad essere diviso e i nostri missionari del nord da mesi non vedevano nessuno. Sono arrivato in Costa d'Avorio con il primo viaggio organizzato dall'estero e devo essere stato il primo bianco ad attraversare quella frontiera interna che la guerra aveva marcato. È stata una vera avventura fatta spesso con mezzi di fortuna e spostandosi come si sposta la gente. Quando arrivai là che festa è stato quell’incontro e anche che mal di pancia... mi hanno dato da mangiare una specie di topo e ho vomitato l’anima, pensavo di morire.
Un’altra esperienza di vicinanza a missionari particolarmente provati è stata quella del Venezuela, ho accompagnato i confratelli durante una delle molteplici crisi che ha attraversato il paese, quando in strada c’era un sacco di gente arrabbiata e non si sapeva nemmeno bene che intenzioni avessero.
Altro ricordo: la missione di Luacano, in Angola. Una missione remota dove non c’era mai stata presenza missionaria prima di noi. Per arrivarci bisognava volare due ore dalla capitale fino a una città dalla quale partiva una ferrovia che portava, dopo otto ore di viaggio e attraversando zone paludose, fino a Luacano. Il treno era l’unico mezzo di trasporto, non c’erano strade per motivo della topografia della regione e sul treno viaggiava proprio di tutto. Se non compravi il biglietto con abbastanza anticipo non trovavi nemmeno un buco per metterti.
Un’ultimo ricordo, il viaggio da Toribío a Cali, con mezzi pubblici, per accompagnare un poco il padre Tarcisio Mayoral che era rimasto solo nella parrocchia del Santo Evangelio.
Un segno dell’attenzione comunitaria rivolta alle persone e alla comunità è stata la grandissima corrispondenza. Quanto non ho dovuto scrivere in questi anni! Forse il Superiore Generale che verrà dopo di me sarà una persona che utilizzerà altri modi di comunicazione, magari più audiovisuali, ma nel caso mio i messaggi scritti sono stati davvero tanti. Oltre alla corrispondenza personale –tante cose moriranno con me– le lettere ai missionari in occasione della professione perpetua e il diaconato e in occasione di eventi giubilari (anniversari di ordinazione e professione). Poi per la comunità i messaggi in occasione dell’anniversario della fondazione, la festa del Fondatore, la Pasqua, la festa della Consolata, la commemorazione dei defunti e il Natale. Le lettere alle distinte circoscrizioni alla fine delle visite canoniche o in circostanze particolari. Se dovessi raccogliere tutto, magari sarebbe bene farlo, ci sarebbe davvero un buon materiale per la riflessione e anche abbastanza voluminoso.
Tutto questo io l'ho vissuto e sperimentato come un gesto di consolazione.
Lo stesso profilo Facebook l'ho aperto e mi è servito per conservare contatti con tante persone, spesso giovani o ex giovani, che in questi anni ho accompagnato, incontrato, sentito, ascoltato in tanti modi e nelle più distinte comunità e luoghi geografici. Si ricordano, si creano agganci, ci si scambia saluti... cercare di rispondere a tutti questi messaggi, soprattutto in occasione delle feste, diventa quasi una impresa ciclopica ma è anche parte di un servizio bello prestato alle persone.
In questi anni è stato grande lo sforzo di organizzare meglio questo Istituto. Probabilmente non ci sono riuscito come avrei voluto e arriviamo a questo capitolo con molte delle domande che ci accompagnano quasi da decenni. Questa fatica io la vedo abbastanza legata alla identità del nostro Istituto, siamo molto più dediti al fare che al pensare ma questo ci ha impoverito moltissimo. Non sempre siamo disposti a metterci in gioco per pensarci, pensare diversamente il nostro futuro e costruire l’Istituto che lasceremo in eredità a quanti verranno dopo di noi. D'altra parte spesso ci avviciniamo a situazioni nuove con una mentalità un po' vecchia e questo certamente non aiuta.
È quello che è successo con il tema della Continentalità: come spirito abbiamo fatto molti passi in avanti, ma come organizzazione con certa consistenza giuridica ed organizzativa non siamo stati capaci di arrivare fin dove avremmo voluto. Tanti missionari si sono impegnati in tutto questo ma non so fino a che punto ci abbiamo creduto davvero.
Il 27 maggio, un incontro online ha riunito decine di missionari laici provenienti da Africa, America ed Europa, e sacerdoti e i missionari riuniti a Roma per il XIV Capitolo Generale del Missionari della Consolata
Questo incontro rappresenta un momento importante di fraternità e di condivisione del carisma lasciato in eredità dal Beato Giuseppe Allamano alla "Famiglia della Consolata", che comprende anche le Missionarie della Consolata (anche loro stanno celebrando il loro Capitolo Generale riunite a Nepi–Viterbo).
“Questo carisma è vissuto da tanti amici sparsi nel mondo, che condividono la missione in modi e in esperienze diverse”, ha sottolineato uno dei partecipanti.
Durante l'incontro, ogni coordinatore continentale dei Laici Missionari della Consolata d'Africa, America ed Europa, ha presentato il cammino che sta percorrendo, cosa si aspetta dai Missionari della Consolata e cosa propone per intensificare la comunione e la collaborazione fra Laici e Missionari della Consolata.
Il Superiore Generale dei Missionari della Consolata, P. Stefano Camerlengo, ha ricordato i legami che ci uniscono tutti come membri della Famiglia della Consolata.
"Siamo tutti missionari, membri della famiglia della Consolata... e insieme vogliamo fare un passo avanti. Il carisma non è proprietà di nessuno, è un dono fatto dallo Spirito Santo alla Chiesa per il servizio dell'umanità. Non esiste un noi e un voi, ma solo un ‘noi della Consolata’ è questo è ciò che conta!"
Il prossimo incontro come "Famiglia della Consolata" si terrà il 3 giugno 2023, anche online, dove sono invitati tutti i laici, le laiche, le suore, i fratelli, i sacerdoti e i Vescovi Missionari della Consolata.
“Come Direzioni Generali, in spirito di famiglia e consapevoli della bellissima esperienza del Convegno Murang'a 2, svoltosi nel giugno 2022, abbiamo deciso di aprire uno spazio comune di riflessione e condivisione durante la celebrazione dei due Capitoli”. Così recita il comunicato ufficiale emesso dal comitato di coordinamento dell'incontro.
A seguito di questa importante giornata, il giorno successivo, 4 giugno, a Roma, le due Assemblee capitolari dei Missionari e delle Missionarie della Consolata si incontreranno per raccogliere i frutti della condivisione e preparare una riflessione di sintesi derivante dalla riunione del giorno precedente.
*Julio è missionario della Consolata, comunicatore sociale e partecipa ai lavori del Capitolo Generale
Carissimi, un caro saluto a conclusione dei lavori della prima settimana capitolare. Sono arrivati in questi giorni molti saluti e gesti di vicinanza da tanti di voi. Per questo vi ringraziamo sentendoci rafforzati dal vostro ricordo e dalla vostra preghiera. Il clima di fraternità e l’accoglienza dei confratelli che vivono nella casa generalizia stanno aiutando tutti i capitolari a vivere con impegno e attiva partecipazione queste prime giornate.
La prima settimana di lavori è stata dedicata al tema dell’ascolto. Ci siamo messi in ascolto di Dio, del mondo e dell’Istituto. Prima di iniziare a trattare i temi presenti nell’Instrumentum Laboris è necessario mettersi in un atteggiamento di ascolto. La Parola di Dio è la base da cui partire. Il nostro stare insieme è segnato anzitutto dal mettersi alla scuola dell’ascolto della Parola di Dio che orienta e illumina. Come abbiamo accenato nella prima comunicazione abbiamo iniziato i lavori con una giornata di ritiro.
Continuando l’esercizio dell’ascolto abbiamo rivolto la nostra attenzione al mondo in cui lavoriamo e all’Istituto a cui apparteniamo e che vogliamo servire. L’approccio ad una realtà cosi vasta e così anche problematica, necessita l’aiuto di esperti qualificati in vare discipline, sacerdoti e laici. Questa è stata la base da cui siamo partiti per poi, nelle prossime settimane, provare a discerene e finalizzare le decisioni più opportune, volte a qualificare la missione dell’Istituto.
Tra gli ospiti incontrati ci sono stati il prof. Leonardo Becchetti ordinario di Economia politica che ha presentao il tema: “Etica e responsabilità d’impresa di fronte alle nuove sfide globali”, il docente ha evidenziato come siano intrecciati sul pianeta i temi della distribuzione delle ricchezze e le relative aspettative dei popoli.
Don Luca Pandolfi, professore di Antropologia culturale della Pontificia Università Urbaniana ha sottolineato i temi che a suo modo di vedere sono presenti spesso nei nostri documenti e nelle nostre condivisioni. Ne è uscito un quadro interessante che ci aiuterà nei prossimi giorni durante lo svolgimento dei lavori
Il signor Francesco Vignarca, laico impegnato da anni sui temi della mondialità e della pace, ci ha presentato un’interessante e per alcuni versi preoccupante conferenza sul mercato mondiale delle armi. Un mercato che non solo produce ricchissimi guadagni a vantaggio di pochi ma che alimenta guerre sparse in tutto il mondo.
Don Armando Matteo, Professore straordinario di Teologia Fondamentale presso la Pontificia Università Urbaniana ha iniziato il suo intervento dalla domanda: quale missione oggi?
“La nostra missione dei cristiani è sempre quella di portare Gesù a tutti e nello stesso tempo di portare tutti a Gesù. Si tratta di “annunciare” Gesù in modo che questo annuncio possa toccare il cuore di chi lo ascolta e spingerlo verso il desiderio una possibile fede. Per questo ci tocca sempre conoscere/amare Gesù e i “tutti”.
L’ascolto di tutte queste tematiche è stato fatto non solo in sala plenaria ma anche attraverso il lavoro per gruppi. Per dare possibilità a tutti i presenti di fare le proprie riflessioni e comment,i ci siamo divisi in gruppi di lavoro nei quali ci scambiano le riflessioni che vengono raccolte e riportate poi in asssemblea.
Don Maurizio Praticiello parroco a Caivano (Napoli), ha celebrato una S. Messa condividendo la sua forte esperienza pastorale che sta vivendo in un contesto di forte disagio sociale che denuncia con coraggio e fermezza, sostenuto da una grande fede.
Per poter decidere meglio le linee guida dell’Istituto occorre mettersi al suo ascolto. L’esercizio di conoscenza dell’Istituto è una vera scuola di allargamento dei propri orizzonti conoscitivi che ogni capitolare è chiamato a fare. Ognuno di noi infatti con diverse responsabilità è inserito in una parte dell’Istituto in un determinato paese e in servizio che svolge.
La Direzione Generale ha il compito di guidare con lo sguardo su tutto l’IMC presente nel mondo. Ampio spazio ha trovato la relazione di p. Stefano Camerlengo Superiore Generale che ha riassunto il servizio degli ultimi anni e i temi attuali con le loro sfide e problematicità. La relazione del p. Generale è stata seguita dai contributi di tutta la direzione generale, del Vice Superiore e dei Consiglieri.
L’Economo Generale p. Rinaldo Cogliati ha presentato un quadro della situazione generale dell’Istituto mostrando lo sfide attuali e le criticità a cui occorre fare attenzione, in una realtà complessa del mondo d’oggi come quella economica.
La settimana di lavori si è conclusa con un incontro online coi LMC rispettivamente di Europa, America e Africa.
Questo incontro è stato un bel momento di fraternità e di condivisione del carisma lasciatoci dal B. Giuseppe Allamano e condiviso da tanti amici e amiche sparsi nel mo ndo che condividono in diverse forme ed esperienze la missione. Ogni rappresentante di ogni continente ha avuto modo di raccontare il cammino fatto e di presentare i suggerimenti per migliorare la collaborazione tra IMC e LMC.
Come potete intuire la settimana trascorsa è stata intensa e ricca di lavoro. Per questo la domenica di Pentecoste siamo andati a fare una gita ad Assisi, luogo di pace e di bellezza.
Qui ci siamo riposati un pò in un clima fraterno e allegro, all’ombra di S. Francesco, di S. Chiara e del b. Carlo Acutis nostro protettore per quest’anno e qui sepolto, per poi ritornare e continuare il lavoro che ci attende.
Claudio Brualdi, Missionario della Consolata, è in Colombia dal 1981 e ha partecipato al corso dei Missionari con 50 anni di consacrazione sacerdotale e missionaria tenuta recentemente nella casa Generalizia di Roma. Ricorda per noi i primi passi di quella esperienza missionaria che ha avuto non pochi cambi imprevisti... che l’hanno sospinto rotte diverse, inaspettate, ma non meno importanti.
Sono marchigiano e sono entrato all'istituto attorno ai vent'anni, avevo studiato nel seminario diocesano di Fano. Parlando della mia vocazione vorrei parlare di due grandi momenti, due momenti che più o meno corrispondono anche al tempo: quello passato in Italia e subito dopo la l'ordinazione Sacerdotale, quando mi hanno destinato al lavoro di propagandista che era come si chiamava, allora, l’animazione missionaria e poi dopo ho lavorato anche alla formazione di giovani che volevano essere missionari.
Non avevo mai pensato in quella possibilità -il mio sogno era quello di andare in Africa- ma ho cercato di assumere positivamente quell’impegno. In Italia ho vissuto i primi 12 anni come sacerdote missionario, ero stato ordinato che non avevo ancora compiuto i 25 anni e quando sono partito per la Colombia di anni ne avevo 36.
Questa prima esperienza, che in un primo momento ho avuto difficoltà ad accettare, mi ha comunque insegnato tanto: ho imparato che bisognava veramente amare il lavoro che ci veniva dato. L’esperienza del concilio e il maggio del ’68 mi è servita per rapportarmi con i giovani.
Poi è stata la volta della partenza... in quegli anni avevo incontrato tanti missionari della Consolata che lavoravano in Colombia, nella regione del Caquetá della quale potremmo dire che è nata con i Missionari della Consolata... loro erano lì quando questa regione si stava formando. Loro presentavano con molto entusiasmo il lavoro che stavano facendo. Così quando i superiori mi chiesero di partire, io stesso dissi che mi sarebbe piaciuto andare in Colombia, nel Caquetá, a San Vicente del Caguán. Esattamente quella fu la mia prima destinazione.
In quegli anni fra i missionari correva la voce che la missione, quella vera, era l’Africa. Eppure quando arrivai per la prima volta a San Vicente, vidi la povertà, l’isolamento dal resto del paese –bisognava attraversare vari fiumi senza ponti–, tutta una serie di peripezie per poter arrivare fin là, ero arrivato di notte e non si vedeva un granché nel paese non c'era la luce, solo qualche candela illuminava l’interno di alcune case... allora mi sono detto “ma questa è davvero missione! Più di così cosa vogliono?”.
Il giorno dopo mi ero messo a visitare la mia “missione” e avevo potuto vedere un po’ di altre cose, come per esempio che non c’era neanche e mi sono convinto che quella era missione, come no! Poi certamente con il tempo ho scoperto anche le ricchezze di questa regione: il bestiame, il legname, l’agricoltura... e anche le povertà più nascoste.
Appena arrivato mi hanno nominato subito vice parroco e rettore del collegio nazionale con studenti dalla primaria fino alle superiori. Il collegio si chiamava, e si chiama ancora, Dante Alighieri... non poteva se non essere fondato da missionari italiani. Io ero arrivato a San Vicente accompagnato dal padre Silvio Vettori, il 29 gennaio e ai primi di febbraio –senza parlare una parola di spagnolo– ero già rettore di un collegio. Questa è stato la prima difficoltà che ho incontrato lì perché non potevo comunicarmi, capivo qualche parola, però però non potevo fare un discorso. È stata una esperienza un po’ mortificante. Il primo giorno di scuola il padre Silvio mi ha presentato, c’erano tutti i professori presenti, gli studenti erano schierati ad ascoltare il loro rettore che non era nemmeno capace di parlare!
Ad ogni modo mi sono sentito bene accolto, lo stesso anche la gente sempre attenta e rispettosa.
Ai primi di Marzo sono tornato a Bogotá perché era necessario andare al ministero per avere la nomina di cinque professori che mancavano... in quel caso si andava in aereo, con il DC3, e pensavo viaggiare più comodo, sicuro e alla svelta... se non fosse che in quel mio primo viaggio si è fuso un motore e siamo stati costretti a un atterraggio di emergenza nell’aeroporto di San Vicente da dove eravamo partiti pochi minuti prima. Ho dovuto rifare il viaggio in bus.
Quale è stata la mia sorpresa quando, arrivato al ministero per chiedere la nomina, dopo un viaggio avventuroso anche quello, il funzionario che mi stava assistendo mi ha detto candidamente: “ma padre, non abbiamo professori che vogliano andare a San Vicente del Caguán. Veda un po’ lei come può fare: prende qualche maestro di là, quel che trova, e noi dopo lo nominiamo”. E così ha dovuto fare.
Poi i maestri non erano nemmeno degli stinchi di santo, facevano combriccola con gli studenti, il fine settimana erano capaci di ubriacarsi insieme. Mi sembrava necessario avere un po’ più di etica nel lavoro. Quando sono tornati dopo la Settima Santa ho chiamato l’attenzione e loro mi hanno detto: “se voi da noi un’atteggiamento diverso, noi vogliamo essere pagati il 27 di ogni mese”. Sapevo che era una richiesta impossibile: i soldi arrivavano a Florencia alla fine del mese e il contabile doveva andare fin là per prelevarli, non potevano esserci il giorno che loro dicevano. Con un po’ di dialogo abbiamo pattuito il pagamento per il 5 del mese successivo.
Appena arrivò il giorno cinque, dopo la messa delle sei –alla stessa ora cominciava la scuola– mi avviai al collegio e trovai tutti i ragazzi sbandati e che correvano da tutte le parti. Mi parve davvero strano, sapevo che i soldi erano arrivati e non mi sembrava ci fossero motivi per uno sciopero. Quando una segretaria, prima, e l’incaricato della disciplina, dopo, mi cercarono per dirmi che i professori volevano parlare con me ho scoperto che effettivamente la causa di tutto quello era il non avvenuto pagamento. È stato uno sciopero facile da controllare: mi è bastato consultare l’orologio, e dire che il giorno cinque era cominciato solo da sette ore e che prima di sera, tutti sarebbero stati pagati. Anche i professori, in fondo, non erano dei cattivi ragazzi... tutti sono tornati al lavoro.
Un altro episodio simpatico è stato quando abbiamo avuto la chiesa occupata da “campesinos”, provenienti dalla zona de “El Pato”, durante otto giorni: la ragione era che l’esercito si era messo a combattere con la guerriglia da quelle parti e questa aveva a modo suo convinto i campesinos a scendere a San Vicente. Era Sabato sera e io celebravo la messa delle sette e vedevo tutto un trafficare in chiesa, gente che portava zaini. Finita la messa il padre Silvio mi dice: “hanno occupato la chiesa, per questa notte possiamo anche lasciarli lì, poi vediamo”. Il giorno dopo, domenica, celebravo anche la messa del mattino e la chiesa era pienissima... c’erano i fedeli che pregavano e gli occupanti che dormivano o si stavano appena svegliando. Avevo appena finito di distribuire la comunione ai pochi che solitamente venivano a messa la domenica mattina... e arriva gente con delle grandissime pentole, loro per distribuire la colazione a coloro che avevano passato la notte in chiesa. È stata una settimana molto agitata, esercito e polizia che volevano buttarli fuori violentemente, il padre Silvio –che conosceva bene la situazione– che insisteva nel dialogo. Poi è venuto anche il vescovo Serna, il sindaco... e con i rappresentanti dei “campesinos” si si erano accordati che la gente si sarebbe spostata ai saloni parrocchiali. A me è toccato andare a dirlo a quelli che occupavano la chiesa e in tutta risposta ho avuto un “da qui noi non ci muoviamo, è qui il posto dove ci sentiamo sicuri”. Niente da fare, il vescovo era andato via, il padre Silvio era andato via e io non sapevo che fare con tutta sta gente in chiesa. Ho chiamato il vescovo che ha messo un ultimatum... se non se ne vanno prima di giovedì allora scatta l’interdetto. Mi sono chiesto se queste persone potevano sapere che cosa fosse un interdetto. Bisognava spiegare loro che la chiesa non si poteva usare ed era prossima la festa patronale, le prime comunioni, le cresime... un pasticcio. Nel frattempo la facciata della chiesa si era popolata di striscioni e di cartelli che dicevano a chiare lettere la decisione di non muoversi. Dopo una settimana la situazione si è sbloccata e gli occupanti hanno preso la strada del paese di Puerto Rico. Abbiamo cercato di avvisare là che tenessero ben chiusa la chiesa, ma alla fine si sono stabiliti in un collegio dove sono stati almeno un mese... poi poco a poco sono tornati a casa anche perché l’esercito aveva offerto assistenza, aveva consegnato generi alimentari e le cose si sono placate.
L’anno successivo mi sono spostato a Puerto Rico per un lavoro più pastorale e meno amministrativo per il quale, fra l’altro non ero molto preparato e là sono stato altri sei anni... prima di prendere la strada per Bogotá dove ho fatto un po’ di tutto: vice superiore provinciale, formatore nel seminario teologico, parroco della parrocchia della Consolata nel quartiere del Vergel. I miei anni di missione sono stati abbastanza frammentati a causa delle responsabilità che ho avuto nel corso dei miei anni in Colombia.
Tornai a San Vicente, la mia prima parrocchia, nel 1991 quando il vescovo era Mons. Castro e il vicariato di San Vicente funzionava già da qualche anno. Ho fatti lì altri cinque anni molto belli: vicino alla gente, mi piaceva andare a visitare i villaggi, Mi trovavo molto bene.
Poi nuovamente superiore, per due mandati... e nel secondo mandato è successo quello che ha cambiato in modo sostanziale la mia vita, ho perso quasi totalmente la vista a causa di una malattia alla retina tra l’altro non adeguatamente trattata in un primo momento. Sono tornato in Italia dove successivi interventi medici mi hanno permesso di recuperare una percentuale esigua di vista ma in buona parte la situazione non era reversibile. Ricordo che quando ho mandato la lettera di in cui mi dimettevo da superiore pensavo “beh, la mia vita missionaria termina qui”. In quel momento avevo ancora 58 anni e mi sentivo un po’ depresso per quel che mi era successo e per quello che poteva succedere in futuro. Ho ritrovato animo negli incontri fatti con i missionari e le missionarie anziane, a Alpignano e Venaria: è stato un momento di sofferenza ma ho capito che nonostante le limitazioni potevo ancora andare avanti, mi sentivo bene, lì c’erano persone che erano più limitate di me. Ho deciso di ritornare, sapevo con chiarezza che non saprei più potuto tornare nella prima linea missionaria, ma mi sono dato da fare... ho perfino fatto il superiore della casa provinciale e ho trovato la collaborazione molto bella del padre Carlos Olarte, lui stava lavorando alla rivista, che mi accompagnava per la spesa o altre attività dove fosse necessario guidare la macchina.
Dopo qualche anno sono stato spostato alla parrocchia Maria Madre delle Missioni e ormai sono un bel po’ di anni che sono là. Malgrado le limitazioni sono contento e sono sereno, anche quella la considero una bella esperienza. La messa la posso celebrare col tablet sul quale ho il messale a caratteri cubitali; posso confessare, lo faccio durante ore; fino all’anno scorso ho perfino avuto la responsabilità del gruppo giovanile e anche altri gruppi. In parrocchia ci sono 11 case di anziani che posso visitare. Ci sono tre centri di recupero di drogati... posso visitarli, qualche volta celebro la messa... le mie giornate sono assolutamente piene. Ho intenzione di continuare in questo, alla fine una vita davvero appagata, finché il Signore vorrà.