La guerra mondiale a pezzi evocata da Papa Francesco coinvolge centinaia di Paesi con diversi gradi d'intensità e spesso viene ignorata dai grandi circuiti mediatici. Monsignor Redaelli: "Il conflitto è la negazione della speranza"

Sono 170.700 i morti a causa diretta di azioni di guerra (153.100 nel 2022), mentre sono 11.649 i bambini uccisi o mutilati nel 2023, con un aumento del 35 per cento rispetto all’anno precedente. È quanto emerge dall’ottavo rapporto Caritas italiana sui conflitti dimenticati, presentato il 09 dicembre a Roma, dal titolo: Il ritorno delle armi. Guerre del nostro tempo, a cura di Paolo Beccegato e Walter Nanni, in collaborazione con CSVnet, la rete nazionale dei centri per il volontariato.

Tutte le guerre

Attualmente, sono 52 gli Stati nel mondo che vivono situazioni di conflitto armato. E se nel 2022 erano 55 le Nazioni interessate dalla guerra, ora si registrano più conflitti di altissima e alta intensità. Quelle di altissima intensità, ossia con oltre 10.000 morti, nel mondo sono 4 (erano 3 nel 2022): i conflitti civili in Myanmar, in Sudan, i conflitti Israele-Hamas e Russia-Ucraina. Venti invece le guerre di alta intensità, tra i 1.000 e i 9.999 morti (erano 17 nel 2022).

Rivedi la presentazione

Il Giubileo un'occasione di pace

«Già nel 2014 il Papa, in occasione della visita a Redipuglia, parlava di una guerra mondiale a pezzi. Aveva ragione - ha detto monsignor Carlo Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia e presidente di Caritas Italiana -. Il conflitto è la negazione della speranza e un fallimento del tentativo di mediazione. Il Giubileo è il tempo propizio per promuovere giustizia, pace e riconciliazione. Come Chiesa e Caritas - ha aggiunto - dobbiamo essere protagonisti, costruttori di ponti, promotori di dialogo, seminatori di speranza, artigiani di pace».

Cosa fa la Caritas

Il rapporto ha evidenziato che dal novembre 2018 al 31 ottobre 2024, il Servizio per gli interventi caritativi per lo sviluppo dei popoli della Conferenza episcopale italiana (Cei) ha finanziato 1.351 progetti in 28 Paesi interessati da conflitti a estrema o altra gravità. Sul totale dei 2.321 progetti complessivi finanziati dalla Cei, oltre la metà (58,2 per cento) ha riguardato Paesi in guerra (57,6 per cento dei fondi erogati). Al riguardo, monsignor Redaelli ha sottolineato l’importanza della presenza capillare dell’organismo cattolico. «Caritas Italiana è in rapporto e in contatto con diverse realtà. Per esempio in questo momento - spiega ai media vaticani - abbiamo un operatore a Damasco. Supportiamo le Caritas locali con le quali c’è un ottimo rapporto di collaborazione e cerchiamo di intervenire nelle aree più critiche».

Video "Coflitti dimenticati. Le cifre"

Ridare centralità all'Onu

La ricerca ha indagato, tramite un sondaggio demoscopico realizzato da Demopolis, la percezione degli italiani rispetto alle guerre. L’80 per cento degli intervistati considera le guerre come avvenimenti evitabili e il 74 per cento non vuole interventi armati, ma il semplice ricorso alla mediazione politica. Emerge, inoltre, che il 71 per cento degli italiani è in grado di citare almeno una guerra degli ultimi cinque anni, anche se il 65 per cento si interessa di cronaca locale e non di grandi eventi internazionali, mentre il 72 per cento vorrebbe potenziare il ruolo dell’Onu. «Purtroppo, gli organismi internazionali come la Corte di Giustizia o l’Onu, in questo momento, non godono di buona fama, ma sono l’unica strada percorribile. Bisogna trovare un equilibrio a livello mondiale - aggiunge l’arcivescovo - sulla base di giustizia e di rispetto dei diritti delle persone».

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Donne e bambini sfollati a causa della guerra in Yemen. Foto: Oxfam

Informare per non dimenticare

Nel dossier, viene segnalato, inoltre, quanto si parla dei conflitti sui Tg italiani. Secondo l’Osservatorio di Pavia nel 2022, le notizie sulle guerre sono state 4.695, pari all’11,7 per cento di tutte le notizie. Il 96,5 per cento delle notizie di guerra parlano dell’Ucraina, il 3,5 per cento parla di Afghanistan e Siria. Nel 2023, le notizie sulle guerre sono state 3.808, pari all’8,9 per cento di tutte le notizie (42.976). Il 50,1 per cento è concentrato sul conflitto israelo-palestinese, il 46,5 per cento sulla guerra in Ucraina, il restante 3,4 per cento è distribuito su 15 Paesi in guerra. Di contro, in un anno non hanno avuto nessuna copertura mediatica 6 Paesi in guerra (Bangladesh, Etiopia, Guatemala, Honduras, Iraq e Kenya).

Il rapporto sui conflitti dimenticati «vuole essere, allora, una voce che rompe il silenzio, un richiamo alla consapevolezza e all’azione. Ogni pagina - ha concluso don Marco Pagniello, direttore di Caritas Italiana - è un invito a non dimenticare, a riportare alla luce storie di sofferenza e di resilienza che non trovano spazio nei nostri schermi».

* Francesco Ricupero - Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va

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"Se prevalgono l’assuefazione e l’indifferenza agli orrori della guerra, tutta la famiglia umana è sconfitta!" Queste le parole di Papa Francesco pronunciate al termine della preghiera dell'Angelus nella prima domenica di Avvento.

Il Pontefice, dopo aver ricordato il 40° anniversario del Trattato di Pace e di Amicizia tra Argentina e Cile, raggiunto con la mediazione della Santa Sede - "dimostra che, quando si rinuncia all’uso delle armi e si fa il dialogo, si fa un buon cammino" -, si è detto rallegrato "per il cessate-il-fuoco che è stato raggiunto nei giorni scorsi in Libano" e ha auspicato "che esso possa essere rispettato da tutte le parti, permettendo così alla popolazione delle regioni interessate dal conflitto - sia libanese sia israeliana - di tornare presto e in sicurezza a casa, anche con l’aiuto prezioso dell’esercito libanese e delle forze di pace delle Nazioni Unite".

Papa Francesco ha quindi rivolto "un pressante invito a tutti i politici libanesi, affinché venga eletto subito il Presidente della Repubblica e le istituzioni ritrovino il loro normale funzionamento, per procedere alle necessarie riforme e assicurare al Paese il suo ruolo di esempio di convivenza pacifica tra le differenti religioni".

La speranza del Papa è "che lo spiraglio di pace che si è aperto possa portare al cessate-il-fuoco su tutti gli altri fronti, soprattutto a Gaza. Ho molto a cuore la liberazione degli israeliani che ancora sono tenuti in ostaggio e l’accesso degli aiuti umanitari alla popolazione palestinese stremata. E preghiamo per la Siria, dove purtroppo la guerra si è riaccesa causando molte vittime. Sono molto vicino alla Chiesa in Siria".

Infine, il Pontefice ha ribadito la sua "preoccupazione" e "dolore" per "il conflitto che continua a insanguinare la martoriata Ucraina. Assistiamo da quasi tre anni a una tremenda sequenza di morti, di feriti, di violenze, di distruzioni. I bambini, le donne, gli anziani, le persone deboli, ne sono le prime vittime".

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Il simbolo della pace sulla Lennon Wall, un muro dedicato al musicista scomparso a Prega. Foto: Shutterstock

La guerra è orrore che offende Dio

"La guerra è un orrore, offende Dio e l’umanità, non risparmia nessuno, la guerra è sempre una sconfitta per l’umanità intera!", ha aggiunto il Papa, invitando tutti a pensare "che l’inverno è alle porte, e rischia di esacerbare le condizioni di milioni di sfollati. Saranno mesi difficilissimi per loro. La concomitanza di guerra e freddo è tragica".

Da qui un nuovo l'appello "alla comunità internazionale e ad ogni uomo e donna di buona volontà, affinché si adoperino in ogni modo per fermare questa guerra e per far prevalere dialogo, fraternità, riconciliazione. Si moltiplichi, ad ogni livello, un rinnovato impegno".

"E mentre ci prepariamo al Natale, mentre attendiamo la nascita del Re della pace, si dia a queste popolazioni una speranza concreta. La ricerca della pace è una responsabilità non di pochi, ma di tutti. Se prevalgono l’assuefazione e l’indifferenza agli orrori della guerra, tutta, tutta la famiglia umana è sconfitta. Tutta la famiglia umana è sconfitta! Cari fratelli e sorelle, non stanchiamoci di pregare per quella popolazione così duramente provata e di implorare da Dio il dono della pace", ha concluso.

Leggi il testo integrale delle parole di Papa Francesco all’Angelus

* Con informazioni del Dicastero per la Comunicazione.

Accoglienza per bambini e medicinali per malati

Padre Luca Bovio, missionario della Consolata in Polonia, ha compiuto diversi viaggi nel Paese in conflitto dall’inizio dell’invasione russa. Ogni volta per portare tutto l’aiuto che gli è possibile, anche grazie alla generosità di molti amici della Consolata.

A inizio novembre è stato a Fastow, vicino alla capitale Kiev, e a Kherson, sul fronte Sud della guerra.

«Ti auguro la pace dal cielo», è il saluto che spesso ci si scambia in Ucraina salutandosi alla fine di un incontro.

È un augurio con un significato concreto: ti auguro che nessun missile o drone cada dal cielo. In tempo di guerra, è un augurio essenziale.

Ma è anche un’invocazione: il Signore che sta nei cieli ci aiuti ad avere la pace.

Dal marzo 2022, quando compimmo il nostro primo viaggio nell’Ucraina invasa dalla Russia, siamo tornati nel Paese diverse volte. I Missionari della Consolata e la Chiesa polacca non smettono di portare il loro aiuto alle popolazioni colpite dal conflitto.

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Charkiv. Nelle cantine della città, trasformate in rifugi sotterranei a causa dei bombardamenti. Novembre 2022.

In questi ultimi mesi siamo tornati in Ucraina diverse volte. L’ultima pochi giorni fa. Un viaggio iniziato nella comunità dei Domenicani a Fastow, non lontano dalla capitale Kiev, proseguito a sud fino alla città di Kherson e conclusosi con il ritorno a Kiev.

A Fastow c’è una vivace comunità di Domenicani impegnati non solo nel guidare la parrocchia locale e alcune chiese limitrofe, ma anche, con l’aiuto di numerosi volontari, in molte opere sociali.

Tra queste, l’accoglienza di bambini che qui possono stare sotto un tetto sicuro e caldo, e ricevere istruzione.

Poco lontano è stato aperto un centro di riabilitazione con una nuova cappella benedetta domenica 3 novembre dal Nunzio apostolico.

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Don Massimo, parroco di Kherson, mostra i segni lasciati dagli attacchi dei russi.

Dopo aver partecipato alla giornata di festa, allietata anche da diversi cori, tra cui un coro di giovani non autosufficienti e un gruppo musicale di soldati, ci siamo diretti ancora una volta nella città di Kherson, posta a sud del Paese, sulla riva occidentale del fiume Dniepr.

In questi giorni la città celebra il secondo anniversario della liberazione, avvenuta l’11 novembre del 2022, quando, dopo una breve occupazione russa, è ritornata sotto il controllo ucraino.

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Padre Luca Bovio (il primo a sinistra) una famiglia di Słoneczne che prende l’acqua.

Da quel momento non si può dire che la città viva in pace, anzi di fatto è un fronte di prima linea. Il fiume, in questo momento, determina il confine naturale tra i due eserciti: gli ucraini a ovest, i russi a est.

Le condizioni di vita in questo luogo sono difficili a motivo dei continui lanci che da una sponda all’altra si scambiano gli eserciti giorno e notte.

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Fumo dopo un bombardamento.

La città che contava quasi 300mila abitanti prima dell’invasione, si è vista ridotta a 30mila. Oggi si assiste a un timido ritorno, e oggi si calcola che in città vivano circa 70mila abitanti. Alcuni, infatti, nonostante il pericolo, hanno deciso di tornare non avendo la possibilità di vivere per un lungo periodo da altre parti.

Don Massimo con il suo vicario, anche lui don Massimo, e un catechista che vive con loro, Sergio, stanno nell’unica parrocchia latino cattolica della città, dedicata al Sacratissimo Cuore di Gesù, posta non lontano dalla riva del fiume.

Sono impegnati a tenere viva la piccola comunità cristiana che ogni giorno si ritrova nella chiesa per celebrare la santa Messa, ma anche nel distribuire aiuti umanitari.

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Don Massimo nella sua parrocchia dedicara al sacro Cuore a Kherson.

Don Massimo si reca quasi ogni giorno nei villaggi attorno alla città per portare acqua potabile. Qui l’acqua è abbondante nel sottosuolo, tuttavia, a motivo della guerra, le falde sono inquinate. Le esplosioni di magazzini di fertilizzanti usati dai contadini hanno causato un doppio  danno: la perdita dei concimi e l’inquinamento delle falde.

La fonte di acqua che si trova sotto la parrocchia è ancora pura, e con essa viene riempita una cisterna di 1000 litri che va settimanalmente nei villaggi.

Al mattino, passando i vari check point dei militari, arriviamo nel piccolo villaggio di Sloneczne dove lasciamo la cisterna.

Da Sloneczne ci dirigiamo verso la città e visitiamo la nuova lavanderia che i Domenicani hanno aperto affidandola ad alcune donne del posto.

Da poche settimane qui sono messe a disposizione 10 lavatrici e 10 asciugatrici dove chiunque, soldati compresi, possono gratuitamente lavare i panni.

Nel pomeriggio ritorniamo a visitare il piccolo ospedale di Bylozerka, per consegnare i medicinali che abbiamo portato.

Ritroviamo la giovane chirurga Natalia, l’unica rimasta a lavorare qui. È molto contenta di ricevere i medicinali che portiamo. Le condizioni di lavoro in questo piccolo ospedale che serve una grande regione, sono molto difficili. Ogni giorno il villaggio, e, a volte, l’ospedale stesso, sono colpiti dai droni o dall’artiglieria russi.

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Ospedale di Bylozerka.

I segni delle esplosioni sono visibili. Tutte le finestre sono coperte con i sacchi di sabbia per attutire i colpi.

Delle quattro ambulanze disponibili prima della guerra, ne è rimasta una sola. Le altre sono state tutte distrutte.

Purtroppo, ha perso la vita anche una equipe medica che era a bordo di una di esse. Ultimamente è stata distrutta anche la caldaia dell’ospedale.

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La caldaia (distrutta dai russi) dell’ospedale di Bylozerka.

I medicinali che consegniamo erano esauriti. Tra questi, ci racconta Natalia, mancano anche gli antidolorifici. L’incontro con lei è breve. La stessa dottoressa ci incoraggia a tornare in città perché fra poco calerà il sole e potrebbero di nuovo iniziare le esplosioni.

Una volta tornati, riusciamo a fare ancora una breve passeggiata nei dintorni della Parrocchia in una città completamente al buio. I parchi sono tutti chiusi, ed è pericoloso attraversarli. Tra le foglie abbondanti che coprono i giardini e i marciapiedi in questa stagione autunnale, sono mischiate alcune mine a forma di foglia lanciate dai droni, pericolose perché difficili da riconoscere.

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Mercato di Kherson.

Notiamo la presenza di tanti cani randagi che girano per le strade deserte. Soprattutto nelle ore serali. È meglio evitarli. Il loro abbaiare è l’unico suono che si sente nel profondo silenzio di questa citta, alternato solo dai rumori degli spari che rimbombano da lontano.

Finita la visita a Kherson, torniamo a Kiev e da lì di nuovo in Polonia. Pensiamo che, nonostante la lunghezza del conflitto e la stanchezza che tutti sentiamo di avere, in primis coloro che abitano in Ucraina, la situazione richiede ancora molta preghiera e molto aiuto. E affidiamo questo Paese all’intercessione del nostro santo fondatore Giuseppe Allamano.

Padre Luca Bovio, IMC, in Polonia. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it

La crisi multidimensionale verso il punto di non ritorno

Da aprile 2023, il Sudan è dilaniato da una sanguinosa guerra civile. A scontrarsi sono l’esercito governativo guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan – leader ufficiale del Paese – e le Forze di supporto rapido, un gruppo paramilitare comandato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, rivale di al-Burhan.

Mentre i due si contendono il controllo del Sudan – il più delle volte ignorando i tentativi di dialogo portati avanti dalla comunità internazionale – i civili sudanesi pagano le conseguenze di un conflitto sempre più violento. Gli sfollati interni sono oltre dieci milioni, mentre più di due milioni di persone si sono rifugiate negli Stati vicini. Gli aiuti umanitari faticano a entrare nel Paese: entrambe le fazioni in conflitto ostacolano l’accesso di operatori e organizzazioni internazionali. Tant’è che, negli ultimi mesi, tra coloro che non avevano cibo a sufficienza, solo una persona su dieci ha ricevuto l’assistenza necessaria. Secondo le Nazioni Unite, quindi, il Sudan sta vivendo la peggiore crisi alimentare della sua storia.

Per valutare le condizioni alimentari di un Paese, a livello internazionale è stato introdotto un sistema condiviso di monitoraggio, l’Integrated food security phase classification (Ipc). Un meccanismo che si articola su cinque livelli, dove il primo descrive una condizione di sufficiente disponibilità di cibo mentre l’ultimo corrisponde alla carestia. Passando per situazioni di «stress alimentare» (livello 2), «crisi» (livello 3) ed «emergenza» (livello 4).

Nel caso del Sudan, le ultime rilevazioni (pubblicate a luglio) mostrano che, tra giugno e settembre 2024, oltre 25 milioni di persone (su una popolazione di quasi 50 milioni) si sono trovate, o saranno, in una condizione di «crisi», se non peggio. E la situazione è in rapido deterioramento. Infatti, rispetto alle precedenti stime di dicembre 2023, il numero di sudanesi in situazione di «crisi» è cresciuto del 45%, raggiungendo i 16,3 milioni. Mentre il livello successivo, quello emergenziale, riguarda ormai 8,5 milioni di persone (con un incremento del 74%).

A preoccupare, però, sono soprattutto i dati relativi all’ultima fase, la carestia. Se a dicembre 2023 nessun sudanese era a rischio, ora 755mila persone – sparse in dieci località del Paese – soffrono di insicurezza alimentare estrema. Cioè un’insufficienza severa, prolungata e diffusa di cibo, tale da causare malnutrizione, fame ed elevata mortalità tra la popolazione. Già a febbraio, le Nazioni Unite avevano avvertito che nei mesi successivi sarebbero potuti morire fino a 220mila bambini per la mancanza di generi alimentari. Più recentemente, il Clingendael institute, un ente di ricerca olandese, ha stimato che entro ottobre 2,5 milioni di sudanesi potrebbero perdere la vita a causa dell’insicurezza alimentare.

Attualmente, le aree del Paese più a rischio di carestia sono 14 tra province (Greater Darfur, Greater Kordofan e Al Jazirah) e località che accolgono sfollati e rifugiati (soprattutto a Khartoum, la capitale). Ufficialmente, le Nazioni Unite non hanno ancora dichiarato uno stato di carestia ma, allo stato attuale, l’intersecarsi di diversi fattori – conflitto, ciclici disastri naturali e devastazione economica – rende la prospettiva sempre più possibile e vicina.

Secondo l’Ipc infatti, se gli scontri non cesseranno – o quantomeno non allenteranno la propria presa sui civili -, l’insicurezza alimentare si diffonderà sempre di più nel Paese. La violenza ha costretto molti sudanesi a lasciare abitazioni e attività economiche per rifugiarsi nei campi di sfollati. Dove però gli aiuti umanitari faticano ad arrivare a causa dei blocchi e dei saccheggi degli attori armati.

Diverse reti stradali e vie commerciali sono diventate impercorribili. La produzione agricola è crollata: campi, mezzi di produzione e catene di approvvigionamento sono andati distrutti. Quindi i prezzi dei generi alimentari – sia di produzione interna sia d’importazione (diventata sempre più difficile) – sono schizzati alle stelle. L’Unocha (l’agenzia delle Nazioni Unite per gli affari umanitari) ad esempio stima che i prezzi delle commodities siano aumentati dell’83% rispetto all’inizio del conflitto.

I disastri naturali – come le recenti inondazioni – si vanno a sommare a un contesto socioeconomico già estremamente fragile e non fanno altro che acuire la vulnerabilità della popolazione. Soprattutto nel caso di sfollati e rifugiati che spesso vivono in campi di fortuna.

Il Sudan – dilaniato da una guerra di potere – è sempre più vicino al baratro.

* Aurora Guainazzi, rivista Missioni Consolata. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it

Nella tormentata Nazione del Myanmar, attraversata da un conflitto civile da oltre tre anni, si registra un'esplosione del fenomeno del lavoro minorile, come rilevano osservatori della comunità internazionale, rapporti delle Nazioni Unite, e come confermano fonti dell'Agenzia Fides nella Nazione.

La guerra civile, infatti, ha generato una carenza di lavoratori e inoltre, negli ultimi mesi, il fenomeno dell'emigrazione dei giovani - che fuggono dal paese per evitare la legge di leva obbligatoria, approvata nel febbraio scorso - ha ulteriormente aggravato il fenomeno della scarsità di lavoratori, che si cerca di colmare ricorrendo al reclutamento di minori, da impiegare nelle mansioni più disparate. Si tratta di una grave violazioni dei diritti dell'infanzia e delle categorie più vulnerabili , hanno affermato esperti dell'Onu.

Secondo gli osservatori, l'aumento del lavoro minorile è anche uno degli effetti collaterali della controversa legge sul servizio militare obbligatorio con cui la giunta militare al potere ha cercato di rimpolpare i ranghi delle sue forze armate, in seguito alle pesanti perdite subìte a causa degli attacchi coordinati delle Forse di difesa popolare e degli eserciti legati alle minoranze etniche. Per evitare di combattere nelle file dell'esercito birmano, migliaia di giovani sono fuggiti nei territori controllati dai ribelli oppure all'estero.

In un recente rapporto pubblicato dall'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), si rileva l'aumento dei livelli di lavoro minorile e, sebbene l’ILO non sia stata in grado di fornire cifre esatte, il testo ricorda che “i tassi di lavoro minorile nei paesi colpiti da conflitti sono superiori del 77% rispetto alle medie globali”. L'ILO ha invitato il Myanmar ad adottare misure decisive per porre fine al lavoro minorile, mentre nel paese la situazione della sicurezza è peggiorata, con oltre tre milioni di sfollati interni, un terzo dei quali sono bambini.

"Siamo profondamente preoccupati per il deterioramento della situazione e l'escalation del conflitto in Myanmar", ha affermato Yutong Liu, rappresentante dell'ILO per il Myanmar. "Sempre più bambini vivono in povertà, subiscono restrizioni di movimento o sono costretti a spostarsi, il che li rende sempre più vulnerabili al lavoro minorile. I bambini devono essere protetti e devono essere un faro di speranza per il futuro del Paese", ha ricordato.

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Il lavoro minorile è diffuso in vari settori, come la produzione di abbigliamento, l'agricoltura, la ristorazione, il lavoro domestico, l'edilizia, la vendita ambulante. La Federazione dei lavoratori del Myanmar nota che, in un paese in cui i lavoratori hanno già una tutela limitata dei diritti, i bambini sono particolarmente vulnerabili allo sfruttamento. Nonostante le diffuse violazioni, sono tuttavia ben poche le denunce degli abusi e le patenti violazioni dei diritti dei minori vengono spesso ignorate nelle fabbriche o dalle aziende dove spesso i minorenni cercano lavoro utilizzando carte d'identità appartenenti a parenti o amici più anziani.

Va notato che, nel 2020, il Myanmar ha ratificato la disposizione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro sull'età minima lavorativa, ma il colpo di stato e poi l'esplosione del conflitto civile ha creato un autentico sconvolgimento nel tessuto sociale della Nazione.

"Le famiglie, ridotte in povertà a causa del conflitto, spesso non hanno altra scelta che mandare i propri figli a lavorare", nota una fonte di Fides, mentre un rapporto pubblicato nel giugno scorso dal Programma Onu per lo sviluppo ha rilevato che il 75% della popolazione del Myanmar, ovvero 42 milioni di persone, vive in povertà.

Riferisce un sacerdote di Yangon: "Nelle parrocchie cattoliche, laddove è ancora possibile, nelle aree meno interessate dal conflitto, si cerca di avere un'attenzione speciale per i bambini, celebrando ad esempio una speciale messa per loro, portandoli a essere vicini a Gesù in questa condizione di sofferenza per loro e per le loro famiglie, cercando di venire incontro i loro bisogni materiale, relazionali, spirituali. I bambini sono coinvolti nel canto e nella preghiera. La parrocchia è un'oasi per la loro anima e per la loro vita. Sacerdoti consacrati, laici e catechisti si prendono cura di loro".

* Agenzia Fides. Originalmente pubblicato in: www.fides.org/it

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