L’operato delle due Corti internazionali
Karim Khan è un giurista inglese di origini pachistane. Dal febbraio 2021 è il procuratore capo (prosecutor) della Corte penale internazionale (Icc, nell’acronimo inglese), organo di giustizia internazionale con sede a l’Aia, nei Paesi Bassi.
Lo scorso 20 maggio Khan ha chiesto l’arresto per crimini di guerra e contro l’umanità dei tre capi di Hamas (Yahya Sinwar, Mohammed al-Masri e Ismail Haniyeh) e di due leader israeliani, il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant. Spetterà ai diciotto giudici della Corte emettere un mandato di arresto o una citazione a comparire.
Il giudice inglese di origini pachistane Karim Khan è – da febbraio 2021 – il procuratore capo della «Corte penale internazionale» (Icc).
Ciò che fa più discutere della richiesta di Khan è di aver posto sullo stesso piano accusatorio Hamas e il governo israeliano. Entrambe le parti in causa hanno respinto con sdegno le (pesanti) imputazioni del procuratore. Per parte sua, il mondo si è diviso evidenziando una volta di più le enormi fratture che caratterizzano questo periodo storico.
D’altra parte, le decisioni della Corte penale internazionale hanno risonanza mondiale, ma scarse conseguenze pratiche. La questione principale nasce dal fatto che essa è riconosciuta soltanto dalle 124 nazioni che hanno sottoscritto il Trattato di Roma del 1998. Non vi aderiscono paesi importanti tra cui Cina, Russia, ma neppure Stati Uniti e Israele.
Pertanto, al di là delle sue decisioni, l’efficacia della Corte è scarsa. Un esempio recente: nel marzo 2023, con riferimento all’aggressione dell’Ucraina, essa ha (giustamente) dichiarato Vladimir Putin «criminale di guerra», ma il presidente russo ha continuato a governare e a viaggiare senza problemi.
Nella stessa città olandese ha sede la Corte internazionale di giustizia (Icj, in inglese), organo delle Nazioni Unite che giudica le dispute tra gli Stati. Il 29 dicembre del 2023 il Sud Africa ha presentato alla Corte una denuncia contro Israele accusando lo stato ebraico di genocidio nei confronti dei palestinesi della Striscia di Gaza. Lo scorso 24 maggio la Corte, presieduta (da febbraio) dal giudice libanese Nawaf Salam, con 13 voti contro due ha ordinato a Israele di fermare immediatamente l’offensiva su Rafah e di aprire il valico. Finora sono state parole al vento.
Il giudice libanese Nawaf Salam è da febbraio 2024 il nuovo presidente della «Corte internazionale di giustizia» (Icj).
Nel febbraio 2022, subito dopo l’aggressione di Mosca, l’Ucraina aveva fatto al Icj la stessa denuncia contro la Russia. A oggi, nessun verdetto è stato emanato.
Si tratti del conflitto tra Israele e Palestina o di quello tra Russia e Ucraina, al momento entrambe le Corti sembrano, dunque, confermare che una giustizia internazionale giusta e super partes rimane una chimera.
* Paolo Moiola è giornalista, rivista Missioni Consolata. Pubblicato originalmente in: www.rivistamissioniconsolata.it
La comunità congolese presente a Roma si mobilita per denunciare le atrocità e promuovere la pace nell'est della Repubblica Democratica del Congo (RDC). Questa iniziativa vuole essere un gesto di solidarietà e unione con la gente e si svolgerà domenica 10 marzo 2024, con una S. Messa seguita da una marcia pacifica verso Piazza San Pietro per partecipare alla preghiera dell’Angelus con Papa Francesco.
La Santa Messa sarà alle ore 9.00 presso la Cappellania Cattolica Congolese nella chiesa della Natività in Piazza Pasquino, n.2 (Roma). Una celebrazione diventerà anche un momento di riflessione e di preghiera al Signore per tutte le vittime della violenza e dell'instabilità che affligge l'est della RDC.
Dopo la Santa Messa, la comunità congolese farà una marcia pacifica per le vie di Roma, camminando insieme, fino a Piazza San Pietro, dove a mezzogiorno si unirà agli altri pellegrini per la preghiera dell'Angelus con Papa Francesco. Portando striscioni e cartelli con messaggi di pace, il grido della comunità congolese vuole informare la gente sulla situazione nella RDC, mostrare solidarietà verso le vittime della violenza e dell'oppressione nel Paese e, allo stesso tempo, denunciare l'indifferenza della comunità internazionale di fronte alle continue sofferenze che il popolo congolese subisce. Dall'inizio della guerra civile, nel 1996, nel Paese sono morte più di 8 milioni di persone.
L'obiettivo di questa Marcia pacifica è sensibilizzare i congolesi e i loro sostenitori in tutto il mondo per mobilitarli a lavorare per la giustizia, la pace e l'integrità del creato. La partecipazione a questo evento non è solo un atto di solidarietà, ma anche un impegno per un futuro migliore per la RDC e il suo popolo. Unendosi in uno spirito di fratellanza e resilienza, la comunità congolese di Roma dimostra che la pace è possibile, anche nei momenti più difficili.
Gli organizzatori sono convinti che questo gesto pubblico e pacifico potrà diventa una testimonianza forte della volontà e della determinazione del popolo congolese a porre fine alla violenza e all'odio nel loro Paese. Il loro appello all'unità e alla solidarietà risuona oltre i confini, ricordando a tutti che la pace è un diritto fondamentale da difendere e proteggere come insiste spesso Papa Francesco.
I missionari della Consolata sono presenti nella RDC dal 1972 in diversi contesti di evangelizzazione. In mezzo alle sofferenze di tanti e inseriti nella Chiesa locale, cercano di essere presenze di consolazione. Oggi nel Paese lavorano 29 sacerdoti e tre fratelli della Consolata nelle diocesi di Kinshasa, Kisantu, Isiro-Niangara e Wamba. I missionari della Consolata congolesi sono 59 tra questi, 45 sacerdoti, tre fratelli, cinque diaconi e quatro studenti professi e due novizi.
* Fratel Adolphe Mulengezi, IMC, studente in Comunicazione a Roma.
Manifestazione per la pace nella RD del Congo. Roma, 11 febbraio 2018
Incontro con le autorità, con la societa civile e con il corpo diplomatico (2 settembre)
Ringrazio il Signor Presidente per l’accoglienza e per le parole che mi ha rivolto, e porgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto. Sono onorato di essere qui, felice di aver viaggiato verso questa terra affascinante e vasta, verso questo popolo che ben conosce il significato e il valore del cammino. Lo rivelano le sue dimore tradizionali, le ger, bellissime case itineranti. Immagino di entrare per la prima volta, con rispetto ed emozione, in una di queste tende circolari che punteggiano la maestosa terra mongola, per incontrarvi e conoscervi meglio. Eccomi dunque all’ingresso, pellegrino di amicizia, giunto a voi in punta di piedi e con il cuore lieto, desideroso di arricchirmi umanamente alla vostra presenza.
Ho saputo che dalla porta della ger, di prima mattina, i bambini delle vostre campagne stendono lo sguardo sul lontano orizzonte per contare i capi di allevamento e riferirne il numero ai genitori. Fa bene anche a noi abbracciare con lo sguardo l’ampio orizzonte che ci circonda, superando la ristrettezza di vedute anguste e aprendoci a una mentalità dal respiro globale, come invitano a fare le ger che, nate dall’esperienza del nomadismo delle steppe, si sono diffuse su un territorio vasto, divenendo elemento identificativo di diverse culture vicine. Gli spazi immensi delle vostre regioni, dal deserto del Gobi alla steppa, dalle grandi praterie alle foreste di conifere fino alle catene montuose degli Altai e dei Khangai, con le innumerevoli anse dei corsi d’acqua, che visti dall’alto sembrano decorazioni raffinate su antiche stoffe pregiate: tutto questo è uno specchio della grandezza e della bellezza dell’intero pianeta, chiamato a essere un giardino ospitale. La vostra sapienza, la sapienza del vostro popolo, sedimentata in generazioni di allevatori e coltivatori prudenti, sempre attenti a non rompere i delicati equilibri dell’ecosistema, ha molto da insegnare a chi oggi non vuole chiudersi nella ricerca di un miope interesse particolare, ma desidera consegnare ai posteri una terra ancora accogliente, una terra ancora feconda. Quello che per noi cristiani è il creato, cioè il frutto di un benevolo disegno di Dio, voi ci aiutate a riconoscere e a promuovere con delicatezza e attenzione, contrastando gli effetti della devastazione umana con una cultura della cura e della previdenza, che si riflette in politiche di ecologia responsabile. Le ger sono spazi abitativi che oggi si potrebbero definire smart e green, in quanto versatili, multi-funzionali e a impatto-zero sull’ambiente. Inoltre, la visione olistica della tradizione sciamanica mongola e il rispetto per ogni essere vivente desunto dalla filosofia buddista rappresentano un valido contributo all’impegno urgente e non più rimandabile per la tutela del pianeta Terra.
Le ger, presenti nelle zone rurali così come nei centri urbanizzati, testimoniano inoltre il prezioso connubio tra tradizione e modernità; esse infatti accomunano la vita di anziani e giovani, raccontando la continuità del popolo mongolo, che dall’antichità al presente ha saputo custodire le proprie radici, aprendosi, specialmente negli ultimi decenni, alle grandi sfide globali dello sviluppo e della democrazia.
Entrati in una ger tradizionale, lo sguardo è portato a elevarsi verso il punto centrale più alto, dove c’è una finestra sul cielo. Vorrei sottolineare questo atteggiamento fondamentale che la vostra tradizione ci aiuta a riscoprire: saper tenere gli occhi rivolti in alto. Alzare gli occhi al cielo – l’eterno cielo blu da voi sempre venerato – significa restare in un atteggiamento di docile apertura agli insegnamenti religiosi. C’è infatti una profonda connotazione spirituale tra le fibre della vostra identità culturale ed è bello che la Mongolia sia un simbolo di libertà religiosa. Nella contemplazione degli orizzonti sterminati e poco popolati da esseri umani, si è affinata infatti nel vostro popolo una propensione al dato spirituale, a cui si accede dando valore al silenzio e all’interiorità. Davanti al solenne imporsi della terra che vi circonda con i suoi innumerevoli fenomeni naturali, nasce anche un senso di stupore, il quale suggerisce umiltà e frugalità, scelta dell’essenziale e capacità di distacco da tutto ciò che non lo è.
Le religioni quando si rifanno al loro originale patrimonio spirituale e non sono corrotte da devianze settarie, sono a tutti gli effetti sostegni affidabili nella costruzione di società sane e prospere, dove i credenti si spendono affinché la convivenza civile e la progettualità politica siano sempre più al servizio del bene comune, rappresentando anche un argine al pericoloso tarlo della corruzione.
Di sguardo verso l’alto e di ampie vedute furono invece protagonisti molti dei vostri leader antichi, i quali dimostrarono una non comune capacità di integrare voci ed esperienze diverse, anche dal punto di vista religioso. Un atteggiamento rispettoso e conciliante era infatti riservato anche alle molteplici tradizioni sacre, come testimoniano i diversi luoghi di culto – tra cui uno cristiano – tutelati nell’antica capitale Kharakhorum. È stato dunque quasi naturale per voi arrivare alla libertà di pensiero e di religione, sancita dalla vostra attuale Costituzione; superata, senza spargimento di sangue, l’ideologia atea che credeva di dover estirpare il senso religioso, ritenendolo un freno allo sviluppo, vi riconoscete oggi in quel valore essenziale dell’armonia e della sinergia tra credenti di fedi diverse, che –ognuna dal proprio punto di vista– contribuiscono al progresso morale e spirituale.
In tal senso, la comunità cattolica mongola è lieta di continuare ad apportare il proprio contributo. Essa ha cominciato, poco più di trent’anni fa, a celebrare la sua fede proprio all’interno di una ger e pure la cattedrale attuale, che si trova in questa grande città, ne ricorda la forma. Sono segni del desiderio di condividere la propria opera, in spirito di servizio responsabile e fraterno, con il popolo mongolo, che è il suo popolo. Sono perciò contento che la comunità cattolica, per quanto piccola e discreta, partecipi con entusiasmo e con impegno al cammino di crescita del Paese, diffondendo la cultura della solidarietà, la cultura del rispetto per tutti e la cultura del dialogo interreligioso, e spendendosi per la giustizia, la pace e l’armonia sociale.
La Chiesa cattolica, istituzione antica e diffusa in quasi tutti i Paesi, è testimone di una tradizione spirituale, di una tradizione nobile e feconda, che ha contribuito allo sviluppo di intere nazioni in molti campi del vivere umano, dalla scienza alla letteratura, dall’arte alla politica. Sono certo che anche i cattolici mongoli sono e saranno pronti a dare il proprio apporto alla costruzione di una società prospera e sicura, in dialogo e collaborazione con tutte le componenti che abitano questa grande terra baciata dal cielo.
«Sii come il cielo». Con queste parole, un famoso poeta invitava a trascendere la caducità delle alterne vicende terrene, imitando la magnanimità ispirata proprio dall’immenso e terso cielo blu che si contempla in Mongolia. Anche noi, oggi, pellegrini e ospiti in questo Paese che tanto può offrire al mondo, desideriamo raccogliere tale invito, traducendolo in segni concreti di compassione, dialogo e progettualità comune. Possano le diverse componenti della società mongola, qui ben rappresentate, continuare a offrire al mondo la bellezza e la nobiltà di un popolo unico. Come la vostra scrittura, così possiate restare “in piedi” e sollevare tante sofferenze umane intorno a voi, ricordando a tutti la dignità di ogni essere umano, chiamato ad abitare la casa terrena abbracciando il cielo. Bayarlalaa! [grazie!].
Nello stato brasiliano del Maranhão noi missionari possiamo testimoniare l’esperienza di una comunità che ha combattuto per ben quindici anni una lunga battaglia legale contro una impresa mineraria, la Vale, una delle più grandi del Brasile, che sfruttava un immenso giacimento di ferro e aveva costruito un complesso siderurgico quasi sulla loro porta di casa senza che nessuno fosse consultato.
Per capire gli interessi che c’erano in gioco è sufficiente dire che ogni giorno passava, sulla testa della nostra gente che viveva con 5 dollari al giorno, l’equivalente di 60 milioni di dollari di minerale.
Quando noi missionari comboniani siamo arrivati, l’impresa siderurgiche era li da più di vent’anni; la foresta era scomparsa; perfino il clima era cambiato e la stagione delle piogge si era ridotta di un mese; molte persone si ammalavano e tante sono morte. Eppure abbiamo trovato delle comunità che stavano strenuamente opponendosi a questa situazione e sono stati loro a coinvolgerci nella battaglia che stavano combattendo. Dicevano: “senza di voi non ce la facciamo, ma se creiamo una alleanza forte riusciremo a prevalere”.
Mi ha sempre impressionato tantissimo la forza morale, la resistenza e la tenacia di questa gente: è stata una lotta sproporzionata, ci sono voluti 15 anni, ma alla fine hanno costretto imprese e governo ad abbassare la testa davanti alla resistenza, l’orgoglio e la dignità di queste persone. Hanno ottenuto una nuova terra nella quale costruire le loro case; le alleanze costruite in modo parsimonioso hanno prodotto frutti; è stata costruita una città totalmente nuova, pulita e sicura.
Si è lavorato a una riparazione integrale che ha tenuto presente l’onore della memoria, niente di quel che è successo deve essere dimenticato, nessuna vittima può finire nell’oblio; questa riparazione ha permesso condizioni di vita adeguate per le generazioni che verranno e la comunità non si è mai divisa; hanno costruito le loro case e il loro futuro secondo i loro propri criteri. In un processo di riparazione integrale i poveri smettono di essere semplicemente beneficiari e diventano protagonisti.
Quella è stata una gran bella vittoria ma siamo ancora lontani dalla fine della guerra perché dietro abbiamo un sistema economico fallimentare ma che ci resistiamo a cambiare. Il modello fatto di estrazione, consumo e scarto può continuare a funzionare se si sono in tanti angoli del mondo “zone di sacrificio” come quella che vi ho descritto. I danni ambientali sono irreversibili e l’estrattivismo non offre una seconde opportunità: tutto è irrimediabilmente bruciato e distrutto. Le regioni più ricche in beni comuni (che le imprese chiamano risorse) sono anche le regioni più tormentate dalla guerra, dalla violenza, dall’impoverimento e anche dalla malattia. In questa contraddizione mondiale c’è di mezzo il sistema finanziario che è quello che alimenta il tutto: l’impresa Vale per esempio non porta il suo minerale direttamente in Cina, dove è consumato; prima lo vende in Svizzera, dove paga meno tasse che in Brasile, con un risparmio grandissimo, un mancato e sostanzioso ingresso per il popolo brasiliano.
Oggi l’Amazzonia è quasi arrivata a un punto di non ritorno. Gli scienziati calcolano che quando il disboscamento arriverà al 25% del territorio si innescherà un processo di savanizzazione; il bosco tropicale non sarà più in grado di rigenerarsi con quei cicli ecologici complessi che hanno fatto di questa regione la più biodiversa del pianeta, una ricchezza che, tra l’altro, conosciamo ancora abbastanza poco.
Per questo il modello estrattivista così come la conosciamo non ha più senso, non è più sostenibile. Il messaggio di Papa Francesco nella Laudato si’, nel sinodo dell’Amazzonia, nella Fratelli Tutti è stato per noi una benedizione. Dietro questi interventi magistrali c’è una grande intuizione spirituale: cominciamo a capire che non siamo il centro della storia, che siamo stati creati assieme e quindi siamo davvero tutti fratelli e sorelle in un senso particolarmente universale. Grazie a questo deve cambiare tutto il nostro modo di pensare, di costruire le relazioni politiche, anche di vivere la nostra fede.
Papa Francesco ci sta animando con un progetto molto bello ed ambizioso: l’economia di Francesco. Noi in Brasile l’abbiamo chiamata l’economia di Francesco e Chiara perché questo sistema economico maschilista, patriarcale e coloniale, del quale siamo tutti vittime, ha proprio bisogno di una dimensione femminile per ripensarsi. L’economia femminile è l’economia circolare, quella dei piccoli spazi e delle relazioni, quella delle cooperative, quella che crede nei piccoli e nella loro capacità di crescere.
Nella nostra riflessione in Brasile abbiamo individuato tre grandi modelli di economia: il primo è il modello del saccheggio esplicito e del sistema neo liberale non controllato. Il secondo è il modello della ridistribuzione e dello sviluppo; era quello che lo stesso Lula aveva promosso nel suo precedente governo, il punto debole di questo modello sta nel fatto che è sempre centrato nello sfruttamento intensivo delle risorse, la ricchezza ha la stessa origine ma viene poi diversamente distribuita e a lungo termine non ha futuro. C’è allora il terzo modello che in qualche modo ci indica il magistero del papa Francesco; quando Lui invita giovani, indigeni e movimenti popolari sta indicando questo cammino: è quello dei popoli locali, delle comunità, del femminile, dei popoli indigeni, di chi ha cura dei territori.
Quando venne eletto in Brasile Bolsonaro, inizialmente tutti pensammo che avevamo a che fare con un incompetente. In realtà la cosa era molto più grave: lui stava portando avanti un progetto ben studiato che prevedeva la distruzione dei territori amazzonici e l’eliminazione culturale e forse anche fisica di tutte le minoranze etniche che difendono e sanno vivere in armonia con la selva.
In Bolsonaro c’era condensata tutta l’incapacità di pensare un mondo di convivenza e invece tutto è al servizio del capitale, dei poteri forti della finanza, del latifondo, delle monocolture. Un progetto suicida che si sostiene a colpi di interessi loschi e miopi che pensano al guadagno di oggi senza nessuna proiezione di futuro anche minimamente sostenibile: mai si pensa alle nuove generazioni.
È tutto il contrario di quello che fanno i popoli originari. Gli indigeni del nord America, quando devono prendere decisioni di carattere ambientale importanti cercano sempre di pensare alle conseguenze fino alla settima generazione. I nostri popoli dell’Amazzonia ci insegnano come costruire relazioni non distruttive con l’ambiente amazzonico e lo fanno a partire dalle loro tecnologie, dai loro miti, dalla loro secolare convivenza con la natura.
Questo modello ha profonde conseguenza anche per la nostra fede: l’eucaristia è il sacramento della comunità solidale, il Padre Nostro la preghiera che mette assieme il Padre e il Pane che sono di tutti.
* Dario Bossi è il superiore dei missionari Comboniani in Brasile
Nell’incontro “The economy of Francesco” abbiamo visto una foresta di giovani che sta crescendo e per il momento, anche se il papa dice di fare chiasso, è forse meglio lasciarla crescere silenziosamente ma senza limitare il suo vigore.
Se San Francesco ha fatto della povertà un ideale di vita, dalle scuola francescana sono emerse anche delle teorie economiche che magari non sono molto conosciute ma che sono comunque importanti: dalla scuola francescana nascono, per esempio, le prime forme di microcredito, i monti di pietà; quelle erano le prime forme di aiuto intelligente, non fatto di doni ma di prestiti che fanno rialzare le persone e generano circoli virtuosi. Ma come è nato tutto questo?
In un dialogo con Papa Francesco nel quale ci chiedevamo come fare per trasformare un sistema economico fondamentalmente iniquo e contaminante inizialmente avevamo pensato mettere attorno a un tavolo i più grandi economisti del mondo oer chiedere una luce. Invece papa Francesco, con la sua solita intuizione, disse: “non credo che le cose possano cambiare in questo modo, forse quel che dobbiamo fare è avviare un processo con chi sta studiando economia, con chi comincia a fare impresa, dobbiamo pensare ai giovani". Tutto questo coincide con il suo stile che preferisce sempre avviare processi.
Così che il primo maggio del 2019 papa Francesco scrive una lettera nella quale convocava ad Assisi giovani economisti ed imprenditori e invitava a fare un patto per cambiare l’economia attuale e dare un’anima all’economia del futuro: "le vostre scuole e le vostre imprese -diceva- sono già cantieri di una nuova umanità ed economia. Proviamo a metterci tutti insieme e cerchiamo di fare delle proposte nuove".
In poco tempo le domande sono state migliaia e si è reso necessario fare una selezione sulle motivazioni.
Questo evento si sarebbe dovuto celebrare in Marzo 2020 con l'intenzione di innescasse processi. Poi la pandemia ha ribaltato tutto in modo tale che, per non perdere l’entusiasmo dei giovani che si erano iscritti, si sono cominciati prima molti processi e gruppi di lavoro (villaggi tematici) che hanno prodotto tantissimo prima della celebrazione che è stata fatta due settimane fa.
I nomi dei villaggi erano nomi in tensione mettevano assieme due parole che sembravano opposte: erano per esempio “finanza e umanità”, “lavoro e cura”, “agricoltura e giustizia”, “energia e povertà”, “donne ed economia”, “economa e pace” etc... Li abbiamo divisi in tre gruppi: investigatori, imprenditori ed attivisti. Loro hanno lavorato quasi tre anni senza nemmeno potersi vedere, ma hanno lavorato e hanno anche creato della imprese come le “farms of Francesco”, esperienze di agricoltura sostenibile fatta in un certo modo. È nata anche la “academy” dove sono state messe in comune le rispettive idee di un gruppo tanto giovane come eterogeneo ma sempre ben motivato.
Alla fine dell'incontro di The economy of Francesco mi sento di concludere in questo modo: questi giovani ci sono, sono tanti, sanno connettersi, e sono capaci di lavorare insieme facendo cose concrete e, anche se sono di ogni estrazione sociale e spesso di ideologie molto diverse, sanno camminare assieme cercando ciò che unisce e non ciò che divide.
Quando sono arrivati un piccolo gruppo per organizzare la celebrazione in Assisi sono stati accompagnati in una visita guidata alla basilica superiore di San Francesco dove si ammirano gli affreschi di Giotto sulla vita di San Francesco. La guida diceva che nella serie di affreschi mancava la scena dell’abbraccio di San Francesco al lebbroso perché le persone ricche di Assisi, che finanziavano il lavoro dell'artista, non volevano che si sapesse che ad Assisi ci fossero anche dei lebbrosi.
Questa osservazione ha portato i ragazzi a dire che i poveri non sono solo scartati dalla storia ma anche dal racconto della storia e che quindi una delle mete della Economy of Francesco era quella di rimettere la scena che non è stata dipinta da Giotto al centro della economia.
Ad Assisi questi giovani non hanno firmato un appello a nessun governo ma un patto in cui si impegnano in prima persona.
Questo patto dovremmo farlo un po' nostro. Se ognuno fa il suo pezzettino magari riusciamo a rendere queste nostre città e queste nostre terre più abitabili, più inclusive e più giuste.
*Alessandra Smerili è segretaria per il dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. testo tratto dal suo intervento nel Festival della Missione (Milano, 1 ottobre 2022).
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