Riflessioni sui 18 gli anni di servizio come Superiore Generale (TERZA PARTE)

Tutte le sfide che abbiamo davanti, nuove o non più nuove, tutto ci parla dell’urgenza della formazione: se come Istituto vogliamo andare avanti dobbiamo metterci tutti in formazione, incluso a costo di chiudere le missioni. Se passa questo messaggio credo che potremmo dire di avere raggiunto un obbiettivo importante, forse il più importante.

Poi c’è anche un altro aspetto organizzativo che preoccupa ed è quello della economia. In questo campo è particolarmente importante il tema della responsabilità. È necessario capire con chiarezza che in missione non siamo andati a far soldi e che quelli che la provvidenza mette nelle nostre mani sono per la buona realizzazione della missione e non per altre cose.

Una parola per i giovani

Ho tante cose da dire ai giovani per l’affetto che ho per loro e riconoscendo la difficoltà di donarsi al Signore e alla missione nel momento attuale. Principalmente mi sento d’indicare TRE esigenze, percorsi e cammini che considero fondamentali per aiutare la persona a donarsi, l’Istituto ad avere un senso, la grande famiglia della Consolata una credibilità di vita e di testimonianza.

1. IL CAMMINO DI CONVERSIONE. La prima di queste urgenze è quella di un reale cammino di conversione, un andare avanti sulle tracce di Cristo, senza mai sentirsi pienamente arrivati. Prima di ogni missione, di ogni diaconia, prima delle opere, è necessario un ritorno a Dio, un cambiamento di vita, una conversione sempre in atto. Giorno  dopo giorno, dobbiamo essere disposti ad accettare la precarietà degli assetti rinnovando ogni giorno la decisione di amare l'altro senza reciprocità e incontrando gli uomini, gli ultimi, che si vogliono servire. Se un giovane entra in formazione e non si lascia convertire non ha futuro. Non si tratta semplicemente di una pia esortazione. Sulla piena disponibilità a questa conversione sta o cade la consacrazione alla missione. Vivere i voti è difficile. Piantiamola con il dire che nella vita consacrata e missionaria tutto è bello, quasi che non ci fosse un prezzo da pagare. Certe seduzioni creano facili entusiasmi che, alle prime difficoltà svaniscono come la neve al sole. La disponibilità all'azione dello Spirito Santo esige una lotta spirituale continua. Non ci può essere una consacrazione alla missione senza rinuncia, senza patire delle mancanze, senza soffrire. Per questo è fondamentale accogliere la conversione come una grazia, una purificazione, un cammino di vita. 

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2. LA PIENA UMANIZAZZIONE. Questo cammino di conversione dev'essere, però, accompagnato da una piena umanizzazione. Non dimentichiamolo mai: la consacrazione per la missione è vita umana, vissuta da persone che cercano di innestare la loro umanità nell'umanità di Gesù. È un innesto tutt'altro che semplice. Può avvenire solo attraverso un'arte del vivere, che esige spoliazione semplificazione, unificazione, ricerca di ciò che è essenziale per l'uomo d'oggi. 

Molto spesso, ciò che ostacola la realizzazione sia personale come comunitaria, è la scarsa qualità umana. Il vero problema di tante comunità è la carenza di umanità: si ha a che fare con esistenze vissute senza passione, senza convinzioni profonde, senza sensibilità, senza bellezza, senza libertà interiore. Ma senza libertà, si diventa schiavi. Bisogna avere il coraggio di dircelo e di dirlo ai giovani: o la nostra vita di consacrati per la missione è un cammino di umanizzazione, diversamente non riusciamo a viverla. Come la conversione, anche l'umanizzazione è un cammino faticoso che attraversa tutte le fasi della vita.

3. LA VITA FRATERNA ESSENZA DELLA CONSACRAZIONE PER LA MISSIONE. Sia il cammino di conversione che quello di una piena umanizzazione, non possono non tendere alla comunione. Proprio il celibato chiede di essere vissuto in una vita di comunione, li dove l'amore fraterno sa anche vivere di distanza, di discrezione, di sobrietà, il rispetto della libertà di ciascuno, una vita che già di per sé è una profezia in atto. La vita fraterna è il fine e la ragion d'essere degli stessi voti religiosi. Nella misura in cui vuole essere memoria reale e concreta della comunità vissuta da Gesù, la vita fraterna diventa il dono per eccellenza dello Spirito. Anche se questa comunione comporta il mettere in comune i propri beni, l'abitare e il pregare insieme, significa soprattutto lotta contro l'individualismo o contro una vita comune che obbedisce a regole mondane. Una vera vita di comunione è una vita strutturata e regolata e dev'essere pensata in primo luogo come servizio reciproco, dove la prima opera è amarci gli uni gli altri perché solo allora Dio dimora in noi. In questo modo saremo riconosciuti come discepoli di Gesù con la missione nel cuore!!!

Guardando a futuro

Proprio pensando al futuro, sarebbe opportuno, di tanto in tanto, guardare indietro, non dimenticando quel passo straordinariamente eloquente con cui Isaia si rivolge ai suoi figli (discepoli): «Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il suo volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui. Ecco, io e i figli che il Signore mi ha dato, siamo segni e presagi per Israele da parte del Signore degli eserciti, che abita sul monte Sion» (8,17-18). 

Non dobbiamo temere. Ogni comunità può essere segno e presagio. Anche se l’Istituto sarà ridotto ad un piccolo “resto”, continuiamo a non temere. Sempre Isaia ci assicura che se anche restasse soltanto un ceppo, perché l'albero è abbattuto e tutti i rami e anche il tronco sono a terra, quel ceppo, dice Isaia, è un “ceppo santo” che continuerà a gettare virgulti e sarà “seme santo” (6,13)». Come il Signore non è mai venuto meno alla sua fedeltà nel passato, così sarà anche nel futuro. Ecco, è questa la consolazione!

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La consolazione è utile anche per le nostre fragilità

Consolazione è fare i conti anche con le nostre fragilità e questo lo vediamo spesso quando ci avventuriamo nella missione. Ricordo un viaggio al nord dell'Argentina, nel periodo di Natale, che nell’emisfero sud è il periodo più caldo dell’anno e la temperatura era quasi insopportabile. Il viaggio era stato lunghissimo in parte perché l'Argentina è grande ma anche perché la strada era stata chiusa in più di una occasione da picchetti per qualche tipo di manifestazione.

Dopo ben 20 ore di viaggio ho raggiunto la parrocchia dove lavorava il padre Juan Domingo Varela e ci siamo preparati per celebrare il Natale in un villaggio chiamato “el pozo del tigre”. Sono venute sette persone in tutto; non c’erano nemmeno le suore che in quei giorni avevano la visita della superiora. Quando il giorno dopo sono andato a salutarle... nell’atrio della casa mi accolse una gigantografia di Ernesto Che Guevara.

Nella parrocchia vicina la nostra presenza è stata più utile perché il sacerdote incaricato della comunità non aveva celebrato la messa di Natale per andare a far festa con la sua famiglia. In cambio in quella chiesa abbiamo potuto contare con la presenza preziosa di una comunità di suore che giustamente a Natale ci hanno fatto cantare “tu scendi dalle stelle... e vieni in una grotta al freddo e al gelo!”.

Vorrei terminare questa mia riflessione con una riflessione di Marco Guzzi, tratto dal libro “Darsi pace”, titolato “Infinita consolazione”. Dice bene quello che ho vissuto o cercato di vivere in questi 18 anni di servizio all’Istituto.

Noi esseri umani abbiamo sempre bisogno di consolazione, anzi di un’infinita consolazione.

Abbiamo sempre bisogno di essere consolati, confortati nella nostra sofferenza strutturale, nella nostra fragilità, nella precaria giornata terrena. Non abbiamo bisogno di molto altro, ma solo di infinita consolazione. 

Tutto dovrebbe essere finalizzato a questo scopo: il lavoro, la sapienza, ogni forma di compassione e di amore, siano modi per consolare, per dire all’essere umano: tu hai un grande valore. Non temere, non sei solo, e questa scarpata ripida e dolorosa ti sta portando sempre più prossimo alla gioia, a tutto ciò cui aneli, spesso senza nemmeno saperlo.

LEGGI LA PRIMA E LA SECONDA PARTE

La città di Puyo nell'Amazzonia ecuadoriana, fra il 10 e il 12 febbraio, ha ospitato l'ottavo Incontro e Festival della Gioventù Amazzonica, con il seguente motto: "Giovani, alzatevi e, con Maria, evangelizzate l'Amazzonia".

Si sono riuniti giovani cattolici proveninenti dai cinque vicariati amazzonici dell'Ecuador: Sucumbíos, Aguarico, Napo, Puyo e Méndez, con l'obiettivo di far nascere in questo momento festivo e comunitario un incontro personale con Cristo per mezzo della formazione, la condivisione fraterna, la preghiera e la celebrazione dell’eucaristia. Si è visto come importante il riconoscimento della propria identità amazzonica per intraprendere un cammino di evangelizzazione e di testimonianza dell’amore di Dio in questa regione del paese.

Il festival si è celebrato la prima volta nella stessa città di Puyo nel 2004 con il motto: "Giovani vivete la vostra fede con Cristo" e da quel momento, con una cadenza di 3 o 4 anni, ci sono stare altre celebrazioni: nel 2007 a Sucumbíos con il motto "Giovani amazzonici in missione con Cristo"; nel 2009 nel Napo al grido di "giovani missionari e discepoli di Gesù"; nel 2014 nel Vicariato di Aguarico guidati dalla frase "sono giovane Signore e non ho paura delle difficoltà per lottare per la giustizia"; nel 2016 ancora una volta Sucumbíos con l’espressione "quant’è bello essere misericordiosi" e nel 2019 nuovamente nel Napo con il motto "i giovani con fede e gioia danno vita e difendono l'Amazzonia". In quell’ultima occasione la partecipazione era stata davvero significativa: 600 giovani amazzonici. Dopo la pausa obbligata dal Covid siamo arrivati all’appuntamento 2023.

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Rafforzare l'incontro personale con Cristo

Gli obiettivi dell'ottavo festival giovanile sono stati quelli di conoscere la realtà delle situazioni vissute dai giovani dell'Amazzonia e le sfide che trovano nella società e nella Chiesa; rafforzare il loro incontro con Cristo per farli diventare protagonisti del rinnovamento della Chiesa della regione e approfondire in chiave amazzonica il tema proposto per la prossima Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona.

La metodologia utilizzata per la riflessione è stata quella del vedere, illuminare e agire. Vedere la realtà dell'evangelizzazione delle comunità indigene amazzoniche. Illuminare questa realtà con il magistero della Chiesa, specialmente le esortazioni apostoliche “Cristo Vive”, dedicata alla gioventù, e “Querida Amazonía”. L'azione poi si tradurrà in concrete attività di evangelizzazione organizzate nelle rispettive giurisdizioni invitando tutti a prendersi cura della Casa Comune e a valorizzare l'interculturalità dell'Amazzonia.

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Delegazione dall’Amazzonia colombiana

In questa celebrazione non hanno partecipato solo giovani amazzonici ecuadoriani ma anche, per la prima volta, giovani dell'Amazzonia colombiana. Era infatti presente una piccola delegazione della città di Florencia e di Cartagena del Chairá, che rappresentavano l’animazione Missionaria e Vocazionale dei Missionari della Consolata, dell'Arcidiocesi di Florencia e della Diocesi di San Vicente del Caguán.

L'obiettivo di questa presenza è stato quello di mostrare che in Amazzonia "i fiumi non separano ma uniscono"; che i giovani amazzonici ecuadoriani interagiscono con i giovani amazzonici colombiani; che l'Amazzonia è una sola nonostante i confini che cercano di dividerla. 

Era anche l’occasione di articolare legami fra le diverse giurisdizioni ecclesiastiche amazzoniche per continuare a sognare insieme nella costruzione di una pastorale giovanile dal volto amazzonico.

Per i giovani colombiani presenti si trattava anche di imparare dall’esperienza consolidata dei giovani ecuadoriani. Le certezze e le sfide di questo incontro sono state molte: ispirati in Maria, che per prima si è messa in cammino, i giovani sono stati invitati a continuare a tessere legami di fraternità e identità nello spirito del Sumak kawsay, la “vita in pienezza”, un principio appartenente alla cultura indigena e anche recepito dalla costituzione dell’Ecuador. 

Il prossimo appuntamento nel 2026 nella città di Macas, nel Vicariato Apostolico di Méndez.

Oggi abbiamo l’occasione di ringraziare insieme il Signore per il Sermig, che è una specie di grande albero cresciuto a partire da un piccolo seme. Così sono le realtà del Regno di Dio. Il piccolo seme il Signore l’ha gettato a Torino all’inizio degli anni Sessanta. Un tempo molto fecondo, basta pensare al Pontificato di San Giovanni XXIII e al Concilio Vaticano II. In quegli anni sono germogliate nella Chiesa diverse esperienze di servizio e di vita comunitaria, a partire dal Vangelo. E là dove c’è stata una continuità, grazie ad alcune vocazioni che hanno ricevuto risposte generose e fedeli, queste esperienze si sono strutturate e sono cresciute cercando di corrispondere ai segni dei tempi. 

Il Sermig, Servizio Missionario Giovani, è una di queste. È nato a Torino da un gruppo di giovani; ma sarebbe meglio dire: da un gruppo di giovani insieme al Signore Gesù. Del resto, Lui lo disse chiaramente ai suoi discepoli: «Senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,5). Dai frutti si vede chiaramente che al Sermig non si è fatto mero attivismo, ma si è lasciato spazio a Lui: a Lui pregato, a Lui adorato, a Lui riconosciuto nei piccoli e nei poveri, a Lui accolto negli emarginati. Sempre Lui, guardando Lui.

Nella storia del Sermig ci sono tanti avvenimenti, tanti gesti che si possono leggere come piccoli e grandi segni di Vangelo vivo. Ma tra tutti questi ce n’è uno che, in questo momento storico, risalta con una forza straordinaria. Mi riferisco alla trasformazione dell’Arsenale Militare di Torino nell’Arsenale della Pace. Questo è un fatto che parla da solo. È un messaggio, purtroppo drammaticamente attuale, che si deve ripetere continuamente.

Anche qui, dobbiamo stare attenti a non “uscire di strada”. L’Arsenale della Pace –come le altre realizzazioni del Sermig, e in generale tutte le opere delle comunità cristiane– è un segno del Vangelo non tanto per i numeri che quantificano l’operazione. Non bisogna fermarsi a questo. L’Arsenale della Pace è frutto del sogno di Dio, potremmo dire della potenza della Parola di Dio. Quella potenza che sentiamo quando ascoltiamo la profezia di Isaia: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, / delle loro lance faranno falci; / una nazione non alzerà più la spada / contro un’altra nazione, / non impareranno più l’arte della guerra» (2,4). Ecco il sogno di Dio che lo Spirito Santo porta avanti nella storia attraverso il suo popolo fedele. Così è stato anche per voi: attraverso la fede e la buona volontà di Ernesto, di sua moglie e del primo gruppo del Sermig è diventato il sogno di tanti giovani. Un sogno che ha mosso braccia e gambe, ha animato i progetti, le azioni e si è concretizzato nella conversione di un arsenale di armi in un arsenale di pace.

E che cosa si “fabbrica” nell’Arsenale della Pace? Che cosa si costruisce? Si fabbricano artigianalmente le armi della pace, che sono l’incontro, il dialogo, l’accoglienza. E in che modo si fabbricano? Attraverso l’esperienza: nell’Arsenale i giovani possono imparare concretamente a incontrare, a dialogare, ad accogliere. Questa è la strada, perché il mondo cambia nella misura in cui noi cambiamo. Mentre i signori della guerra costringono tanti giovani a combattere i loro fratelli e sorelle, ci vogliono luoghi in cui si possa sperimentare la fraternità. Ecco la parola: fraternità. Infatti il Sermig si chiama “fraternità della speranza”. Ma si può dire anche l’inverso, cioè “la speranza della fraternità”. Il sogno che anima i cuori degli amici del Sermig è la speranza di un mondo fraterno. È il “sogno” che ho voluto rilanciare nella Chiesa e nel mondo attraverso l’Enciclica Fratelli tutti (cfr n. 8). Voi condividete già questo sogno, anzi, ne fate parte, contribuite a dargli carne, a dargli mani, occhi, gambe, a dargli vita. Di questo voglio rendere grazie a Dio con voi, perché questa è un’opera che non si può fare senza Dio. Perché la guerra si può fare senza Dio, ma la pace si fa solo con Lui.

Cari amici del Sermig, non stancatevi mai di costruire l’Arsenale della Pace! Anche se l’opera può sembrare conclusa, in realtà si tratta di un cantiere sempre aperto. Questo voi lo sapete bene, e infatti in questi anni avete dato vita all’Arsenale della Speranza a San Paolo del Brasile, all’Arsenale dell’Incontro a Madaba in Giordania, all’Arsenale dell’Armonia a Pecetto Torinese. Ma tutte queste realtà: la pace, la speranza, l’incontro, l’armonia, si costruiscono solo con lo Spirito Santo, lo Spirito di Dio. È Lui che crea la pace, la speranza, l’incontro, l’armonia. E i cantieri vanno avanti se chi ci lavora si lascia lavorare dentro dallo Spirito. Voi mi direte: e chi non crede?, e chi non è cristiano? Questo a noi può sembrare un problema, ma certo non lo è per Dio. Lui, il suo Spirito, parla al cuore di chiunque sappia ascoltare. Ogni uomo e donna di buona volontà può lavorare negli Arsenali della pace, della speranza, dell’incontro e dell’armonia.

Tuttavia, ci vuole qualcuno che abbia il cuore ben radicato nel Vangelo. Ci vuole una comunità di fede e di preghiera che tiene acceso il fuoco per tutti. Quel fuoco che Gesù è venuto a portare sulla terra e che ormai arde per sempre (cfr Lc 12,49). E qui si vede anche il senso di una comunità di persone che abbracciano integralmente la vocazione e la missione della fraternità e la portano avanti in maniera stabile.

Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio tanto per questo incontro, e soprattutto per la vostra testimonianza e il vostro impegno. Andate avanti! La Madonna vi custodisca e vi accompagni. Vi benedico di cuore, e vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie.

Discorso di papa Francesco ai membri del Servizio Missionario Giovani (Sermig), 7 gennaio 2023

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La Missione Giovani è una delle attività che la Gioventù Missionaria della Consolata (JMC) svolge ogni anno con l'obiettivo di rafforzare lo spirito e il carisma della famiglia della Consolata, offrendo ai giovani l'opportunità di vivere la spiritualità e il carisma della missione nei luoghi più bisognosi. Ogni anno l'esperienza si svolge in una città o in un luogo dove la gente sente il desiderio e la sete di Dio.

A causa della pandemia, negli ultimi tre anni l'iniziativa non si è potuta celebrare ma si sono svolti vari incontri online dove ogni giovane ha potuto condividere la propria missione.

In questo Mese Missionario 2022 siamo stati invitati a riflettere sul tema "La Chiesa è missione", con lo slogan "Sarete miei testimoni" (At 1,8), parole tratte dall'ultimo colloquio di Gesù risorto con i suoi discepoli prima della sua Ascensione al cielo, secondo gli Atti degli Apostoli: "Avrete forza quando lo Spirito Santo sarà sceso su di voi; e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra" (At 1,8). Oggi questa chiamata è rivolta a tutti i cristiani che sono incoraggiati a testimoniare Cristo nel mondo.

Dal 13 al 16 ottobre, con la Missione Giovani, nella città di Jaguararí, seguendo l’invito di Gesù, ci siamo impegnati a proclamare il Vangelo. I giovani che hanno partecipato hanno visitato le famiglie, i malati e le persone più bisognose, benedicendo e pregando con le persone sull'esempio della Madre di Gesù che si affrettò a visitare la cugina Elisabetta, portandole consolazione, gioia e speranza.

Durante la formazione e la preparazione per questa missione concreta i giovani avevano detto: "vogliamo vivere questa esperienza senza paura, ma con la certezza che la Chiesa è Missione, i giovani sono missione. Per questo vogliamo essere testimoni di Gesù in mezzo alla gente e con la gente".

In questa attività abbiamo riunito con gioia circa 40 giovani provenienti dalle città di Jaguarari, Monte Santo e Feira de Santana, disposti ad assumere le parole del nostro Padre Fondatore Giuseppe Allamano: "La missione nella bocca, nella mente e nel cuore". La nostra Madre Consolata, il nostro Beato Giuseppe Allamano, Irene Stefani e Leonella Sgorbatti intercedano per noi.  

* Padre Josky Menga, IMC, è coordinatore dell'AMJV in Brasile e animatore a Bahia.

Castelnuovo Don Bosco è una bella località adagiata sulle colline dell’astigiano e ha dato i natali non solo a San Giovanni Bosco, che le ha dato il nome, ma anche a San Giuseppe Cafasso e a un suo nipote, il beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari della Consolata. Per questo motivo è stata scelta dagli animatori giovanili della parrocchia di Maria Speranza Nostra di Torino, da qualche anno retta da una giovane comunità di Missionari della Consolata, per un momento di preghiera e spiritualità. 

Nei due giorni si è cercato di affrontare le pause che immobilizzano e scoprire, nella storia di ciascuno, i segni di una presenza discreta ma reale che ci incammina e invita alla conversione e la missione.

Il primo momento di preghiera è stato precisamente la meditazione del Salmo 8 che si chiese “che cos'è un uomo...”, “eppure l'hai fatto poco meno degli angeli!”.

Nella piazza del paese, per mezzo di un gioco chiamato "Ninja", abbiamo iniziato un percorso pedagogico e una meditazione sul senso della paura nella nostra vita. 

Ci possono essere due tipi di paure: una immaginaria e una reale. Si parla di paura immaginaria quando qualcosa non concreto ma profondamente insito in noi stessi consuma molte delle nostre energie, e poi c'è la paura reale quando vediamo qualcosa che realmente ci spaventa. Il Signore ci invita a non avere paura, perché la paura blocca, ci ferma, ci immobilizza; lui invece è colui che ci da la forza per andare avanti. In questo tempo di riflessione abbiamo percorso tre tappe: una era focalizzata sulla paura; una sui colori preferiti e l'ultima sullo stesso ricordo di noi stessi.

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Verso sera abbiamo raggiunto la casa di San Giuseppe Cafasso, dove ci aspettava la cena seguita da un altro momento di riflessione, nella piccola cappella della casa, guidata dall'ascolto di una canzone di Niccolò Fabi e da una poesia.

Il centro della nostra riflessione è stata la parola greca Tautotes che è quella che si usa per dire identità: quella parte irrinunciabile di noi stessi che non cambia e permette continuare nel tempo ad essere ciò che siamo sempre stati.

È stata l’occasione di condividere le nostre paure assieme a gusti e immagini che ci rappresentano. È stato un momento specialmente intenso; un animatore ha osservato il coraggio, la determinazione e la disponibilità dei giovani di condividere le loro più significative esperienze di vita.

Domenica mattina l'appuntamento è stato nella cappella della casa del Beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari della Consolata, per iniziare l'esperienza del Deserto. La pedagogia del cammino della vita ha accompagnato la nostra riflessione: tutti siamo coinvolti in un processo di crescita e di sviluppo per essere persone e questo significa che in ogni fase della nostra esistenza sviluppiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere e crescere in armonia e integrità. Qui i ragazzi hanno condiviso alcune domande sui loro genitori, sulla loro nascita, sull'età da 0 a 5 anni, poi da 5 a 10, e poi dall'adolescenza fino all'età attuale. 

Il tutto si è chiuso con la festa della vita. È stato un momento molto profondo di speranza per un futuro più chiaro e migliore. Dopo l'eucaristia, nella quale abbiamo ringraziato per quella parte di vita che abbiamo già percorso, siamo tornati a casa pieni di speranza per iniziare un nuovo anno di cammino insieme per il regno di Dio nell'oratorio di Maria Speranza Nostra.

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