«Guardate a Lui e sarete raggianti». Il versetto del Salmo 34 è stato scelto come motto episcopale dal Vescovo Giorgio Marengo, missionario della Consolata e Prefetto apostolico di Ulaanbaatar, creato Cardinale da Papa Francesco nel Concistoro del 27 agosto agosto 2022. Guardando le immagini e ascoltando le parole del secondo video-reportage prodotto per l’Agenzia Fides da Teresa Tseng Kuang yi in vista del viaggio di Papa Francesco in Mongolia (1-4 settembre), il versetto-motto sembra cogliere la cifra intima della vita e dell’avventura missionaria di padre Marengo in Mongolia. Un’avventura in cui le gioie prevalgono in sovrabbondanza sulle fatiche, sulle difficoltà e sullo spettacolo delle proprie povertà. «Io –confessa il Prefetto di Ulaanbaatar fin dai primi passaggi del video– sono grato che il Signore abbia voluto mandarmi qui».

La «gioia più bella» è l’aver contemplato l’operare della grazia nel tempo, l’aver visto come «al di là di tutte le nostre difficoltà e le nostre povertà, il Signore si apriva la strada nel cuore di queste persone, che poi hanno deciso di affidarsi a lui». Il contemplare come poi «il Signore guidava la vita di queste persone, in maniera misteriosa e molto personalizzata. Questa è sicuramente la gioia più bella, accompagnare le persone nel loro cammino di fede».

Nel video-reportage scorrono ricordi e immagini degli inizi: il primo volo preso a 27 anni da Seul per raggiungere Ulaanbaatar («Sentimmo parlare le hostess in mongolo. Dicevo: chissà se un giorno riusciremo anche noi a imparare questa lingua»), la prima messa “pubblica” celebrata in una Ger, la tradizionale tenda mongola («Quello, me lo ricordo come un momento molto, molto bello»).

Il Cardinale Marengo accenna anche alle difficoltà e alle fatiche fatte per entrare nella lingua e nella cultura mongola, con la sua «matrice nomadica» così diversa dalle culture europee «sedentarie», e che si riflette anche nel modo di concepire le abitazioni e nella concezione del tempo: per una cultura nomadica «tutto dev'essere trasportabile, leggero e provvisorio», mentre nelle culture sedentarie c’è sempre la tendenza a «costruire cose che rimangono nel tempo».

Con la chiamata a far parte del Collegio dei Cardinali, padre Marengo fa notare che la sua esperienza di pastore di una piccola comunità ecclesiale locale «si allarga anche un po’ all'universalità della Chiesa, per offrire alla Chiesa universale quello che l'esperienza di una Chiesa missionaria così piccola e così nuova può avere». Il Cardinale missionario parla di un «doppio movimento», con il quale «la particolarità di questa Chiesa» viene vissuta «dentro l'universalità della Chiesa cattolica tutta». Il Cardinale coglie anche la convenienza di favorire uno «scambio» propizio tra «la freschezza della fede in un contesto come quello mongolo»e «la ricchezza della tradizione ecclesiale che ci arriva da Chiese con più lunga esperienza».

Questa è l’occasione propizia che si affaccia sull’orizzonte del prossimo viaggio di Papa Francesco in Mongolia: suggerire a tutti che ogni Chiesa è sempre Chiesa nascente, dipendente in ogni suo passo dalla grazia di Cristo, e non si “costruisce” per forza propria, anche nei posti in cui si sono alzate cattedrali grandiose e sono sorti Imperi cristiani; ogni Chiesa è “pellegrina” sulla scena di questo mondo, «la cui figura passa» (Paolo VI); ogni Chiesa è nomade, come le genti della Mongolia con le loro tende, sempre in cammino verso il compimento dei tempi.

* Gianni Valente. Agenzia Fides 25 luglio 2023

Il 3 giugno, nella chiesa cattolica, si celebra la memoria dei martiri dell'Uganda. Sono 22 martiri cristiani cattolici che furono arsi vivi per ordine del re Mwanga II del regno di Buganda tra il 15 novembre 1885 e il 27 gennaio 1887. Per la maggior parte di loro il luogo del martirio fu Namugongo dove attualmente è costruita la basilica in suo onore.

Furono beatificati nel 1920 da papa Benedetto XV e canonizzati il 18 ottobre 1964 da papa Paolo VI. Essendo loro i primi santi canonizzati nell'Africa sub-sahariana, il loro sangue è diventato il seme fecondo del cristianesimo in Africa. In Uganda si celebra una festa nazionale; il loro martirio ha avuto un ruolo enorme nell'unificazione del Paese, nella promozione dell'ecumenismo e del dialogo interreligioso.

La loro influenza sull'evangelizzazione in Africa.

Poiché sono stati i primi martiri riconosciuti dalla Chiesa nell'Africa sub-sahariana, la loro testimonianza ha avuto un impatto significativo sulle società di tutto il continente e la loro influenza può essere evidenziata nei seguenti aspetti:

Una nuova era del cristianesimo nel continente africano. A questo proposito Papa Paolo VI disse: “Questi martiri africani aprono una nuova era, non intendiamo certo di persecuzioni e lotte religiose, ma di rigenerazione cristiana e civile. Il sangue di questi martiri è la primizia di questa nuova era africana” (Omelia in occasione della canonizzazione. 18 ottobre 1964). Al momento del suo martirio, la fede cristiano-cattolica non esisteva da molto nell'Africa sub-sahariana. Nel caso dell'Uganda, i missionari d’Africa, conosciuti con il nome di “padri bianchi” per il colore della loro tonaca, non erano da tempo insediati nel Paese: erano arrivati in Uganda nel febbraio 1879 e avevano subito avviato l'evangelizzazione fra i nobili della corte del re Mwanga II. Martiri furono alcuni dei suoi primi catecumeni e il primo martirio avvenne il 15 novembre 1885 quando San Giuseppe Mukasa Balikuddembe fu condannato a morte.

Il motore della sua testimonianza nell'evangelizzazione. Tutti i martiri sono massimi testimoni della fede in Gesù Cristo. Il martirio è la coerenza più profonda tra professione di fede e vita quotidiana e suggella definitivamente la vita dell'uomo configurata con la vita di Cristo. Nel martirio è un vero battesimo di sangue e si compie in modo reale ciò che nel battesimo avviene in modo sacramentale e simbolico: morire insieme a Cristo per risorgere con Lui (Rm 6, 3-11). Sia in Uganda che nel resto del continente africano, la loro testimonianza di Cristo è stata di inestimabile valore, un seme fecondo per l'evangelizzazione del continente africano.

Le vocazioni autoctone. La Chiesa in Uganda e in varie parti dell'Africa crebbe notevolmente in poco tempo dopo l'arrivo dei primi missionari. In Uganda nel 1913 furono ordinati i primi sacerdoti indigeni dell'allora vicariato di Masaka e il 29 ottobre 1939 il papa Pio XII consacrò il primo vescovo: il padre Joseph Kiwanuka del clero di Masaka. In Kenya i primi sacerdoti cattolici autoctoni furono ordinati nel 1927 nell'allora vicariato di Nyeri e la Chiesa della Tanzania produsse il primo cardinale africano: Mons. Laureano Rugambwa che fu nominato da papa Giovanni XXIII nel 1960.

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Altri martiri del continente africano. Dopo di loro, l'elenco dei martiri africani si è allungato in diverse parti del continente. Vogliamo ricordare, ad esempio, il Beato Isidoro Bakanja, martire congolese beatificato il 24 aprile 1994; il Beato Cipriano Iwene Tansi della Nigeria, beatificato il 22 marzo 1998; i Beati Daudi Okelo e Jildo Irwa, catechisti e martiri ugandesi, beatificati il 20 ottobre 2002. Infine le Serve di Dio Luisa Mafu e le sue Compagne Catechiste e i martiri di Guiúa in Mozambico.

Conclusione

Tertulliano disse nell'anno 197 dopo Cristo che "il sangue dei martiri è il seme dei cristiani". Infatti, la testimonianza di fede in Gesù Cristo dei martiri ugandesi è stata un motore di evangelizzazione in varie parti dell'Africa. Loro oggi sono patroni in molte istituzioni educative, istituti di catechesi e province ecclesiastiche. Dei 22 Carlos, Matia e Kizito sono i più riconosciuti: nel 1934 papa Pio XI nominò Carlos Lwanga patrono dei giovani dell'Africa cristiana; Matia Mulumba è patrono dei catechisti e delle famiglie, e Kizito è patrono delle scuole dell'infanzia e primarie.

In paesi come Uganda, Congo, Kenya, Tanzania, Rwanda, è molto comune trovare in quasi ogni famiglia persone con il nome dai martiri ugandesi.

* Lawrence Ssimbwa è missionario della Consolata e lavora con la popolazione afro della diocesi di Bueventura in Colombia.

C’è un pensiero –da qualche tempo mi è venuto in mente– che voglio condividere con voi e ha un po’ a che vedere con i miei 50 anni di sacerdozio che il prossimo mese di settembre celebrerò. Sono nato in un paese della provincia di Caldas in Colombia che era composto quasi nella sua totalità da cristiani cattolici, in una famiglia di persone molto devote educate, fin da piccole, nei principi della religione cattolica. 

Era inevitabile che la mia formazione fosse eminentemente cattolica: sacramenti a suo dovuto tempo; battesimo, cresima, prima comunione e, in questo contesto, anche il desiderio di essere sacerdote e missionario. In una prospettiva di fede dovremmo dire che Dio ci ha quasi portato  per mano, è intervenuto in modo determinante nella storia di ognuno di noi. Personalmente ho sempre considero un privilegio non solo essere un cristiano cattolico, ma anche essere un sacerdote missionario.

Ora mi chiedo, se invece di essere nato in Colombia e in America Latina fossi nato in India o in Pakistan, in Giappone o in Cina, come sarei in questo momento? Potrei essere musulmano, buddista, animista o confuciano? E se così fosse questo che significato avrebbe per me e per la mia vita? Forse, ma in tutt’altra prospettiva, direi lo stesso che ho appena affermato, che sarebbe un privilegio essere... e che anche lì Dio mi ha fatto diventare ciò che sono.

Sarà possibile che tutti quelli che appartengono ad altre culture ed altre religioni debbano essere in qualche modo infelici per il semplice fatto che io mi senta fortunato per essere nato in condizioni diverse e lontane? 

Diciamo giustamente che la buona notizia di Gesù è così valida e buona che dovrebbe arrivare fino ai confini della terra in modo che tutti possano entrare a far parte dell'ovile della nostra comunità cristiana... eppure quella meta sembra ogni giorno più lontana per le concrete condizioni e possibilità della chiesa oggi. Ci sono milioni di persone che probabilmente non avranno la possibilità di ascoltarla la buona notizia di Gesù, o anche solo comprenderla. Cosa vorrà Dio per loro?

Ebbene, io penso che quello che Dio vuole è che siano brave persone, secondo le convinzioni che hanno, e che cerchino di vivere nel migliore modo possibile: in armonia, in pace, in unione, in solidarietà, in collaborazione e servizio. Molte religioni condividono fra di loro principi e orientamenti analoghi e propongono cammini di vita buona per i loro fedeli. Sono convinto che questo è ciò che Dio vuole per ogni essere umano.

Il lavoro missionario in questo senso cambia profondamente: bisogna lasciarsi alle spalle tanto proselitismo, smettere di qualificare i missionari in base al numero dei battesimi che hanno celebrato, dimenticare la massima del medioevo "extra ecclesiam nulla salus", fuori dalla Chiesa non c'è non salvezza.

Oggi il senso del nostro impegno missionario sarebbe certamente diverso. Nella nostra comunità IMC abbiamo alcune esperienze che ci possono guidare: il lavoro con gli indigeni Yanomami in Brasile dove non sono mai stati celebrati battesimi; quello delle missionarie della Consolata nei Paesi asiatici dove hanno aperto missioni con magre o incluso inesistenti comunità cristiane; quella che con loro stesse condividiamo in Mongolia dove la missione si è configurata come una testimonianza discreta, vicine alle persone, trattando di vivere come discepoli di Gesù Cristo.

Il dialogo religioso, interreligioso e spirituale potrebbero definire i nuovi orizzonti della missione. Vivere la misericordia cristiana con i più poveri sarebbe anche un aspetto importante del nostro stare in mezzo ai popoli non cristiani. E poi lasciare che lo Spirito di Dio faccia il resto.

Ci stiamo avvicinando a un nuovo Capitolo Generale e dobbiamo rivedere il senso del nostro carisma di fronte a queste sfide che appartengono propriamente alla sensibilità religiosa del nostro mondo moderno. L'ad gentes, come proposto da Giuseppe Allamano a suo tempo è stato molto puntuale, preciso e chiaro nei suoi destinatari che erano i non cristiani dei popoli dell'Africa. Circostanze successive ci hanno portato in America Latina, che era un continente già largamente evangelizzato.

Dopo il capitolo del 1999 e nei capitoli successivi, abbiamo visto come gli orizzonti del nostro annuncio si sono progressivamente allargati verso altri areopaghi, accogliendo e coprendo tante situazioni umane di povertà. La domanda “ma cosa dobbiamo fare” ci ha accompagnato da allora in tutti i successivi capitoli generali e si è presentata nuovamente anche nella preparazione di questo che è prossimo a celebrarsi.

Bisognerà forse ritornare ad un ad gentes più delimitato come quello che proponeva il Fondatore ai suoi primi missionari oppure dobbiamo continuare a guardare con attenzione e speranza i segni dello Spirito che indicheranno i luoghi dove oggi noi siamo chiamati a seminare la speranza cristiana?

Nel documento di lavoro del Capitolo diciamo che il Beato Allamano, se fosse vivo, si impegnerebbe anche lui sulla strada del discernimento per dare indicazioni per continuare a spendersi nella missione ad gentes. 

Reinterpretare il pensiero del Fondatore secondo questo mondo che ci interpella è forse la cosa più importante che dobbiamo fare nella nostra assemblea capitolare. E poi rivitalizzare la nostra vocazione, la nostra testimonianza, il nostro ministero è anche garanzia di fecondità e occasione per formulare proposte attraenti per i giovani ai quali dobbiamo offrire un progetto con novità e futuro.

Sono molto fiducioso che il capitolo faccia passi in questa direzione e la mia speranza è che, giungendo alle conclusioni finali del nuovo capitolo, si possano scoprire modi rinnovati per continuare a testimoniare Cristo nella missione.

*Orlando Hoyos è Missionario della Consolata, lavora a Bogotá (Colombia) e ha partecipato al corso dei Missionari con 50 anni di ordinazione e professione religiosa appena da poco concluso a Roma.

 

Carlo Zacquini è un fratello Missionario della Consolata che ha raggiunto l’Amazzonia brasiliana alla fine degli anni sessanta... e non l’ha mai abbandonata. Molto, nella missione del Catrimani, parla di lui.

Come è stato il tuo arrivo nelle missioni della Prelazia di Boa Vista

Quando sono arrivato non parlavo nemmeno portoghese, mi hanno dato una grammatica e un dizionario e ho dovuto cominciare da solo e senza aiuto ma non capivo niente. Dovevano essere certamente una buona grammatica e un buon dizionario ma non erano pensate per uno straniero: ci sarebbe stato bisogno di una guida o di una persona che mi potesse aiutare. Ho chiesto al nostro superiore di andare in una scuola della prelazia per assistere a qualche classe di portoghese assieme ai bambini ma lui mi ha risposto che non era necessario. Quindi sono stato assegnato a dei lavori manuali per i quali non avevo molto bisogno di usare il portoghese, la mia professione era meccanico aggiustatore ed ero andato là per montare una scuola professionale,  e così lavoravo dalla mattina alla sera. 

Gli indigeni li ho scoperti quando alcuni di loro, di passaggio in città, tendevano le loro amache in un portico della Prelazia e si alloggiavano da noi. Loro venivano in città cercando di risolvere alcuni problemi e dovevano ricorrere alle istituzioni statali incaricate degli indigeni, si trattava quasi sempre di funzionari che non risolvevano un bel niente. L’unico appoggio esterno che ricevevano era quello della chiesa e per quello si fermavano con noi.

Loro parlavano un portoghese molto elementare e quindi io riuscivo a capirli magari anche meglio degli altri; anni dopo vennero pubblicati in un libro chiamato “Ritorno alla Maloca” tanti dei loro racconti che il padre Silvano Sabatini aveva registrato. Ricordo la testimonianza di un leader che era venuto in città per recuperare una giovane donna che una famiglia aveva portato a Boa Vista con tantissime promesse, poi alla fine tutte disattese, ma che alla fine lavorava gratuitamente nella casa.

Molto presto mi sono innamorato della causa degli indigeni e della missione in mezzo a loro. La prima volta che ho abbandonato la città è stato per raggiungere un gruppo di indigeni non contattato che era stato avvistato: li abbiamo potuti raggiungere e siamo stati con loro tre giorni. È stata una cosa veramente fantastica: io sono rimasto super impressionato da questa esperienza e da quel momento ho cercato di fare tutto quello che era possibile per poter andare a lavorare con questa popolazione.

La missione del Catrimani

Quella missione, dove ho passato tutta la mia vita missionaria, è stata fondata quando io ero già là ma stavo lavorando alla famosa scuola che era stato il mio primo lavoro. I primi missionari nella missione del Catrimani sono stati p. Giovanni Calleri e p. Bindo Mendolesi che erano partiti alla fine del 1965. Loro con delle barche e un certo numero di uomini, la maggior parte di loro indigeni, avevano disceso il Rio Branco e risalito il Rio Catrimani, superando anche rapide e cascate, fino a un certo punto dove decisero fermarsi e organizzare una prima sede della missione aprendo anche una piccola pista di atterraggio. Gli indigeni erano nei paraggi ma non vicino al fiume grande anche perché quello è il regno di una quantità straordinaria di zanzare che fanno, per dirlo nel migliore modo possibile, la vita quasi impossibile. Questo gli indigeni lo sapevano e invece noi no. Io usavo pantaloni lunghi, mettevo le calze sopra i pantaloni, usavo anche camicie con maniche lunghe e anche così non ero al sicuro del tutto. 

Quando io raggiunsi quella missione, pochi mesi dopo essere stata aperta, c’era già la pista che si poteva usare, anche se poi ho dovuto lavorarci non poco per metterla in buone condizioni. Ero andato là perché Calleri era andato via e il padre Bindo era anche parecchio stanco: non riusciva a imparare la lingua e non riusciva nemmeno a cominciare a battezzare e far catechesi; per lui quella non era una missione.

Mi avevano mandato per fargli compagnia durante un mese e alla fine di quel mese ci sarebbe stata la visita canonica che avrebbe dovuto prendere delle decisioni con rispetto alla nuova missione. Quando arrivò l’aereo che doveva portare i visitatori da quello scendono il superiore generale Fiorina, il vescovo, il superiore regionale... c’era spazio solo per il padre Bindo che aveva l’intenzione di tornare a Boa Vista. 

Non era per niente facile rimanere là. Anche a me sarebbe piaciuto dire che volevo tornare a Boa Vista ma né ebbi il coraggio di farlo soprattutto perché temevo che se l’avessi fatto forse non mi avrebbero più rimandato indietro e io ci tenevo a continuare quella avventura.

Loro rimasero con noi non più di due o tre ore; in quel tempo il padre Fiorina, Superiore Generale, mi convocò nella baracca di paglia che era la nostra casa e mi chiese se volevo rimanere in quella missione. Quando dissi di sì la mia consacrazione al Catrimani era completa. Certamente avrei magari anche dovuto dire che erano finite le munizioni per la caccia così necessaria per mettere qualcosa sotto i denti; anche la baracca non era stata ben costruita, aveva il tetto troppo alto e quando pioveva forte ci pioveva dentro;  anche la barca aveva problemi... ad ogni modo accettai la decisione e non aggiunsi nient’altro; le cose materiali si sarebbero poco a poco sistemate. 

Oggi se dovessi rifarlo lo rifarei esattamente allo stesso modo, volevo rimanere con quella gente della quale tra l’altro capivo ancora abbastanza poco. Non ero affatto preparato per quell’incontro, per quella cultura, per studiare una lingua sconosciuta (non si sapeva di qualcuno che l’avesse studiata e se magari questi studi ci fossero noi non ne avevamo accesso). Addirittura non sapevo nemmeno come si chiamasse questo popolo: si usavano nomi comuni e generici per indicarlo.

Che si chiamassero Yanomami... l’ho saputo quando un giorno, mentre stavo sistemando delle cose nella mia baracca, ho sentito due uomini adulti che parlavano fra di loro e sembrava stessero indicando loro stessi con questo nome. Li ho interpellati e mi hanno confermato il nome e anche detto che tutti gli altri, me compreso, si chiamavano Nap. Era la prima volta che sentivo quel nome, dopo vari mesi. Chissà quante volte avevano detto quella parola anche in mia presenza, ma io non l’avevo mai percepito. Nap era per indicare persone straniere e anche persone pericolose.

Quando sono tornato a Boa Vista la prima volta ero così malconcio che mi hanno subito portato all’ospedale dove sono rimasto due mesi. Appena mi hanno dimesso sono partito in fretta e furia per comprare alcune cose di cui avremmo avuto bisogno nella missione e sono ritornato.

Il primo anno sono stato alla fine quasi tutto l’anno da solo fino a quando mi ha raggiunto il padre Saffirio. Erano quelli i giorni in cui il padre Calleri, che si era imbarcato in una missione pericolosa, aveva smesso di comunicare via radio e si stava temendo il peggio. La prima notizia della morte di Calleri io la seppi dalla radio “Voice of America” che era l’unica che si poteva sentire. Poche settimane dopo il silenzio radio la sua spedizione venne ritrovata massacrata.

Con il padre Saffirio abbiamo fatto abbastanza tempo assieme e assieme è un modo di dire perché quando io dovevo tornare a Boa Vista per essere curato all’ospedale Saffirio era nel Catrimani. Poi magari ci davamo il cambio, io al Catrimani e lui all’ospedale. Era davvero una missione difficile. Oggi noi là abbiamo una piantagione e prodotti che possiamo coltivare, raccogliere e consumate ma allora si era al principio e non c’era niente di tutto questo. Nemmeno gli Yanomami coltivavano alcunché. Da buoni cacciatori e raccoglitori, ogni giorno andavano in foresta per raccogliere o cacciare quello di cui avevano bisogno per sfamarsi. Al principio io li seguivo con la mia calibro 22 che è risultata essere abbastanza efficiente: tutto quel che cadeva dagli alberi era commestibile; il frutto della cacciagione si divideva fra tutti con un criterio tipico degli Yanomami.

Noi poco a poco abbiamo introdotto anche “rinnovamenti” nei costumi degli Yanomami: utensili, strumenti di lavoro per l’agricoltura. Ci eravamo anche inventati una specie di “moneta interna”: dei piccoli cartellini colorati che erano consegnati a cambio di lavoro o servizi prestati. Le buste erano tutte assieme ma nessuno ha mai pensato sottrarre ad altri i cartellini... per la loro mentalità tutto era per la comune utilità. 

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Immagine di una comunità Yanomami. Foto Sabatini. Archivio IMC

Come vedi il futuro del popolo indigeno a Yanomami?

Non è un futuro affatto facile... in tutti questi anni si è fatto proprio di tutto per eliminarli in qualche modo: l’abbandono, l’invasione delle terre, la contaminazione dei fiumi, lo sfruttamento minerario, la mancanza di servizi... tutto congiura contro i popoli indigeni amazzonici come gli Yanomami.

Certamente tanto è stato fatto come per esempio quella campagna internazionale per mezzo della quale si è giunti al riconoscimento e alla protezione del loro territorio ancestrale che è il più grande del Brasile. Quindi ci sono tutti gli strumenti legali... ma non sempre sono rispettati. In modo drammatico, soprattutto durante il governo Bolsonaro che era un nemico giurato degli indigeni, si stava cercando di annullare tante conquiste.

La strada che il governo militare aveva costruito nelle prossimità di questo territorio, era costata milioni di dollari e l’abbiamo sfruttata anche noi (e in parte anche mantenuta) per non dipendere troppo dai taxi aerei che erano costosi, incerti e a volte anche pericolosi. Ma alla fine abbiamo rinunciato perché era diventata la via di ingresso di ogni genere di cose e persone che venivano a fruttare le ricchezze dell’Amazzonia e a distruggere l’unico ambiente nel quale gli Yanomami possono vivere degnamente. La situazione a volte degenerava a tal punto che c’erano anche stati degli scontri armati ai quali gli Yanomami non prendevano opporsi né per numero né per capacità militare ed erano costretti a fuggire.

È difficile dare una dimensione a questo sterminio e a queste morte: non esiste un censimento sicuro del numero di indigeni e nemmeno un registro delle causa di morte.

Dopo il periodo terribile di Bolsonaro è arrivato il governo di Lula che, pur non essendo specialmente sensibile alla situazione indigena anche perché le sue estrazioni sono molto diverse, si è dichiarato a favore delle minoranze etniche ed è disposto a riparare molti dei danni che sono stati fatti. 

Non sarà facile, sarà un lavoro duro e anche molto lungo: ci sono poche persone preparate per poter risolvere certi problemi in mezzo a una popolazione come quella; ci sono molti medici che si offrono come volontari per andare, ma non sanno cosa fare; la mancanza di interpreti e di una minima conoscenza di questa popolazione tante volte è perfino controproducente. Io spero solo che possano persistere in questa lotta perché la situazione è terribile e i bambini continuano a morire.

Poi bisogna anche sottolineare che, malgrado le buone intenzioni del governo, in varie occasioni la polizia non è riuscita a mandare via i garimpeiros. Loro sono ben organizzati, ben armati e sufficientemente protetti. Le minacce sono all’ordine del giorno e fanno desistere o posticipare azioni che sarebbero necessarie ed urgenti. La legge è bella ma come sempre quando il danneggiato è un povero che non ha peso politico, militare ed economico... allora non sempre si applica come si dovrebbe. 

A colloquio con l’architetta Daniela Giuliani

A nord della Costa d’Avorio, nella diocesi di Odienné, presso la parrocchia Saint Joseph Mukasa di Dianra-Village dei Missionari della Consolata, su di un piccolo poggetto di pietra rossa, dal 2019 sorge una chiesa che è la più umile delle architetture, ma stupisce chi arriva per il suo simbolismo profondo. L’architetta Daniela Giuliani, della diocesi di Senigallia, in Italia, ci racconta come è nata questa chiesa piena di luce e di colori, dove anche chi non sa leggere, o non conosce la lingua in cui si celebra può partecipare alla vita nuova. «La chiesa parrocchiale Saint Joseph Mukasa di Dianra-Village nasce dalla fede grande del primo catechista Maxime Soro e della sua gente, dalla premura dei padri missionari, dalla generosità di molti, e dal coraggio del mio amico, padre Matteo Pettinari, che mi ha chiesto di dar forma al loro sogno: poter celebrare le meraviglie di Dio in un edificio che potesse annunciare il suo amore per noi. Il cantiere è durato tre anni e ci ha insegnato tanto: nell’ascolto della cultura Senoufo, nella fede della gente semplice, nei materiali locali, nel cammino dei neofiti che a Pasqua ricevono il battesimo e danzano tutta la notte, nelle architetture copte e siriache più vicine alla terra ivoriana. Abbiamo proceduto spesso a tentoni, senza pretendere di capire sempre tutto, disegnare tutto, ma vivendo l’obbedienza alle ispirazioni che piano piano sono cominciate ad arrivare. E con stupore i mattoni impastati uno ad uno sono diventati muri, archi, volte, mai visti a Dianra, ma realizzati da una piccola impresa locale. E poi le mattonelle, scarto di un magazzino di Abidjan, che i catecumeni hanno dapprima sgranato e poi ricomposto, con l’aiuto di alcuni giovani partiti per una esperienza di missione, in forma di pani, di croci, di acqua che dà vita. E infine Sorò, piccolo di statura, arrampicato su trabattelli di fortuna per affrescare le pareti, lui che dipingeva murales e ha voluto usare i suoi tre barattoli di colori da carrozzeria… con una abilità degna dei migliori artisti». 

Nella chiesa di Dianra-Village a prima vista colpiscono i colori: quelli della tonalità della terra a segnare i volumi all’esterno; il blu, il rosso e il giallo oro all’interno, nella navata e nell’abside. Perché questa manifestazione forte dei colori, che, tra l’altro, era presente spesso nella storia della Chiesa quando la fede è stata forte? 

In architettura oggi dominano spesso il bianco, il grigio e le linee essenziali, cercando forse semplicità e purezza dopo l’epoca barocca, ma esprimendo probabilmente anche la realtà dell’uomo contemporaneo, il suo vuoto. La tradizione della Chiesa, dall’altra parte, ci dona esempi straordinari di edifici liturgici pieni di colore e di potenza espressi va. Lo spazio liturgico è spazio abitato, è spazio di relazioni e di incontro. La liturgia che vi si celebra tocca la vita, quella della terra (fatta dell’ocra delle case di terra cruda, del verde delle piantagioni di anacardo, del rosso delle strade impolverate) e quella del cielo, dove il rosso di Dio e il blu dell’umanità danzano insieme, i volti dei santi ci fanno compagnia e l’oro di Dio rende luminosa la vita. Me lo hanno ricordato gli abiti degli amici di Dianra: in questo villaggio, dove non vi sono quadri alle pareti delle case, la loro vita esplode nel colore dei vestiti, che dicono la nostra appartenenza e cambiano colore nei giorni di festa. 

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È proprio la gioia che esprimono questi colori e la luce che pervade la chiesa. Secondo Alexander Schmemann la gioia non è soltanto una componente della nostra fede, ma «la tonalità che pervade tutto», è «la vocazione stessa della Chiesa». Nella gioia, ricorda Schmemann, la Chiesa diventa ciò che essa è. Come può un’architettura trasmettere questa gioia? 

Il “come” ci è insegnato nella liturgia che celebriamo. Noi entriamo con il nostro grigio, il nostro buio, la nostra morte. Ma il Signore fa nuovi noi e tutte le cose. Chi entra dalla porta, che è Cristo, è generato a vita nuova. La chiesa di Dianra è costruita a partire dal fonte battesimale, dove la notte di Pasqua i catecumeni si spogliano dell’abito vecchio e indossano quello di luce. E poi entrano in questa «stanza al piano superiore» dove tutto ci è dato in dono, da quella mano aperta del Padre che è nel punto più alto della chiesa, sopra l’altare. E tutta la vita è attratta dall’oro della Gerusalemme celeste dipinta nell’abside, dove tutto ciò che è oggi fatica e sudore, se vissuto nell’amore, diventa oro pieno di luce. 

Dipinti, mosaici, terracotte, volte a botte e archi... tutto vive in armonia in questo spazio. Ci ricorda le fabbriche delle basiliche, dove l’architetto univa tra di loro diverse arti. Un architetto che accoglie, mette insieme, ascolta, aiuta a discernere, fa partecipare. Perché, secondo Crispino Valenziano, tra tutti gli artisti è proprio l’architetto il «dispositore in globalità con armonia». 

Quello di Dianra era il mio primo cantiere e io ero lontana 7.186 chilometri da lì. Fortunatamente era presente padre Matteo che mi ha insegnato la via della Chiesa: se qualcosa deve parlare di Dio allora deve parlare il linguaggio di Dio, che è la comunione. In chiesa lavoravano non solo artisti con differenti abilità, ma lingue diverse, etnie diverse, religioni diverse. Poteva essere una Babele! Ma lo Spirito ha insegnato a tutti noi la via dell’umiltà, che significa in primo luogo ascoltare l’altro, cercare la sua bellezza, desiderare che possa essere il primo. Chi ha fatto i mosaici a terra con le piastrelle come nelle foto di Parc Guell di Gaudì, chi ha dipinto le pareti guardando i mosaici del Centro Aletti, chi ha costruito la volta a botte senza betoniera, ma catino dopo catino di cemento versato nella cassaforme di legno... non era lì per essere il primo, ma per servire nell’unità. 

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Credo anche io che l’architetto non può essere uno che produce delle cose da solo nel suo laboratorio e poi le offre o quasi le impone al mondo, ma che il suo ruolo sia quello di dare la possibilità di partecipare alla costruzione anche a persone diverse e di lavorare nella comunione, sperimentando la verità della vita nuova. Come faceva per esempio Gaudì che chiedeva l’opinione persino alle persone che incontrava per strada. 

Ogni architetto partecipa dell’azione creatrice di Dio. E questo è un mistero grande. Però possiamo abusare di questo potere e “imp orre” le nostre opere, oppure metterci in ascolto dello Spirito, di quella Sapienza che danzava davanti al Creatore mentre creava il mondo. Per me è stato facile perché era la mia prima architettura. Mi sono ripetuta spesso «quando sono debole è allora che sono forte, perché Tu sei la mia forza!». Si è generativi solo se in relazione. E la relazione è concreta: è non poter usare i materiali che vorresti, è non poter decidere tu le cose, è fidarsi dell’altro anche quando è debole come te. Ma se fai spazio, se ascolti, se ti fai strumento, allora ciò che si edifica non parla più “solo” di te e a te, ma partecipa della bellezza di Dio. 

Avete veramente lavorato insieme! La creatività della Chiesa, dunque, credo possa esprimersi nella bellezza di una chiesa che, anche se semplice, attira gli altri. A Dianra, infatti, in alcune case hanno cominciato a riprodurre ciò che hanno visto realizzare nella chiesa. 

Se un tetto di lamiera, la vernice da carrozzeria, le mattonelle di scarto, possono divenire «la chiesa più bella della Costa d’Avorio» come amano definirla loro, allora anche la loro vita di stenti, le loro case di terra cruda, il loro villaggio, può divenire il più bello della Costa d’Avorio! Nessuno aveva spinto o forzato queste persone a realizzare la stessa cosa che era stata fatta nella chiesa. In realtà la Chiesa non dovrebbe mai forzare. Erano semplicemente sospinti verso la bellezza, affascinati da qualcosa di vivo che poteva suscitare un po’di allegria nei loro cuori. 

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Paolo VI diceva agli artisti che «questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione» e che «la bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini». Ascoltando il suo racconto nasce il pensiero che forse proprio gli artisti e gli architetti cristiani potrebbero ridare all’architettura la sua verità profonda, ciò aiuterebbe anche l’uomo a ritrovare e a confermare la sua verità. 

Lavorare in terra di missione ti mette nel cuore gli stessi desideri del Padre: che ogni uomo e ogni donna abbia la vita e l’abbia in abbondanza. E quando risuonano queste parole nel buio di un villaggio dove tutto è povertà, solo ciò che è nell’amore ti sembra essere degno di essere pronunciato e costruito. Sembra che in questa storia stia succedendo qualcosa di tipicamente ecclesiale: una Chiesa locale che cammina insieme, che discerne insieme, che vive la comunione. Si potrebbe concludere che il cammino sinodale è il cammino della costruzione della Chiesa. 

*Andrej Brozovic è architetto, sacerdote e dottore in Missiologia. Questo articolo è stato pubblicato nell'Osservatore Romano martedì 28 febbraio 2023.

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