Pr 9,1-6; Sal 33; Ef 5,15-20; Gv 6,51-58
Mentre, nella prima lettura, l’autore del libro del Proverbio ci parla della Sapienza che offre e invita a mangiare il pane e da bere il vino, “venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che ho preparato”, la pagina evangelica è la continuazione del discorso di Gesù sul pane della vita eterna ove Gesù afferma: “Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno”. Questo è il pane vivo e vivificante, che comunica la vita stessa di Dio. Non si tratta di un pane materiale, che dà solo ciò che è necessario alla vita fisica, ma di un pane che dà la vita eterna.
Il protagonista della pagina del libro di Proverbio è la Signora Sapienza. La sapienza è personificata, è una donna che progetta ed agisce secondo una gerarchia di valore e con un obiettivo molto chiaro. È lei che si è costruita una casa; ha scolpito, le sette colonne; ha macellato il bestiame, ha mescolato; ha imbandito la tavola, ha mandato le ancelle e ha mandato a proclamare oppure ad invitare a mangiare e a bere. Lei ha preparato tutto ed ora invia le ancelle ad invitare tutti perche si preoccupa per loro, per il loro cammino e per il loro destino. Donna Sapienza ha di che preoccuparsi, perché in città si trova anche un'altra maestra, Donna Follia, che pure invita gli alunni alla sua anti-scuola, dove insegna il gusto del proibito e il fascino dell'insensato e, così facendo, conduce alla morte (9,13-18). L'invito della donna Sapienza è rivolto a tutti: degli ingenui e degli inesperti: "Chi è inesperto e chi è privo di senno. Vuole significare che l’invito è rivolta alle persone che sono lontane dall’arroganza e di coloro che si illudono di sapere tutto. Questi devono prima essere disposti a lasciare la stoltezza e a seguire la “via della prudenza”. I “semplici” equivalgono ai “poveri” della letteratura biblica: sono i piccoli, gli umili, coloro che non vivono in schemi di orgoglio e autosufficienza e hanno sempre un cuore aperto a Dio e alle sue proposte."Chi è inesperto accorra qui!". A chi è privo di senno ella dice: "Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che ho preparato"». Si tratta del vino della Sapienza, che indica una via giusta per vivere in unione con Dio e per riuscire pienamente nella vita.
Egli, Cristo, vive in noi; egli si è ”costruita la sua casa”, cioè la Chiesa; casa che ha sette colonne, cioè i Sacramenti. Egli, nato sotto la Legge, ha celebrato l'antica Pasqua con banchetto di carni di agnello, mescendo vino, ma poi ha istituito una nuova celebrazione pasquale e ha mandato “le sue ancelle” a invitare tutti gli uomini: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato”. Tutti siamo invitati a mangiare un pane, che non è più pane, ma il suo Corpo, e a bere un vino, che non è più vino, ma il suo Sangue; ma per accedere a tale banchetto di vita bisogna abbandonare “l'inesperienza”, che nasce dalla volontà di essere lontani da Dio, per lasciarsi guidare dalla sua Sapienza, che dona l'esperienza della fedeltà, dell'amore di Dio: “Abbandonate l’inesperienza e vivrete”.
Nel brano del Vangelo di oggi Gesù si presenta come il pane vivo disceso dal cielo, e afferma: “Se uno mangia di questo pane, vivrà in eterno”. Questo è il pane vivo e vivificante, che comunica la vita stessa di Dio. Non si tratta di un pane materiale, che dà solo ciò che è necessario alla vita fisica, ma di un pane che dà la vita eterna. Tutti noi desideriamo avere la vita eterna, superare la morte e raggiungere la felicità eterna nell'unione con Dio. Perciò abbiamo un bisogno assoluto di questo pane vivo e vivificante che è Gesù stesso. Non si tratta soltanto di mangiare la sua carne ma anche di bere il suo sangue: “ Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda ”. Gesu al fare riferimento alla sua carne vuole esprimere il suo essere umano che, facendosi carne, facendosi uno di noi, è venuto d darci esempio di come vivere: vedendolo concretamente attraverso dei suoi gesti concreti, le sue parole ed il suo modo concreto e reale di vivere, noi siamo invitati a prenderlo come modello. Il suo “sangue” invece fa riferimento alla sua passione e morte e ci porta a contemplare quel momento supremo in cui egli si è consegnato, fino all'ultima goccia di sangue, per amore. “Carne” e ‘sangue’ riassumono una vita vissuta nel dono di sé, dell'amore fino all'estremo; mostrano la realtà della sua incarnazione. Ora, è questa realtà che si è manifestata in ogni passo della vita di Gesù e, in modo radicale, sulla croce, che egli ci invita a “mangiare” e “bere”, cioè a “interiorizzare”, ad “assimilare” il suo modo di vivere. Egli non si presenta a noi come uno spirito che non ha carne e ossa, ma come il Verbo di Dio incarnato, che si è fatto nostro fratello, ha assunto la nostra natura umana, per trasformarla in mezzo per comunicare la vita eterna.
Gesù poi dice: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me”. Qui ci viene presentato l'aspetto dinamico dell'Eucaristia. Essa non è soltanto una relazione molto profonda con Gesù, ma una relazione che orienta tutta la nostra vita. Tutta la vita di Gesù era orientata verso il Padre. Egli ha vissuto veramente per il Padre. Non ha cercato la propria gloria, ma la gloria del Padre: non ha voluto fare la propria volontà, ma la volontà del Padre. Allo stesso modo, chi riceve l'Eucaristia ha una vita orientata verso Gesù. È una vita che cerca di compiere l'opera di Gesù, cerca di glorificare Gesù e, per mezzo suo, il Padre.
Il discepoli missionario, come l’ha ben detto Papa Francesco, è quello che si nutri del Vangelo e dell’amore dei fratelli. Infatti, “dinanzi all’invito di Gesù a nutrirci del suo Corpo e del suo Sangue, potremmo avvertire la necessità di discutere e di resistere, come hanno fatto gli ascoltatori di cui ha parlato il Vangelo di oggi. Questo avviene quando facciamo fatica a modellare la nostra esistenza su quella di Gesù, ad agire secondo i suoi criteri e non secondo i criteri del mondo. Nutrendoci di questo cibo possiamo entrare in piena sintonia con Cristo, con i suoi sentimenti, con i suoi comportamenti. Questo è tanto importante: andare a Messa e comunicarsi, perché ricevere la comunione è ricevere questo Cristo vivo, che ci trasforma dentro e ci prepara per il cielo”.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.
1 Re 19, 4-8; Sal 33; Ef 4, 30 - 5, 2; Gv 6, 41-51
Nel cammino della vita di Elia, Dio di bontà e di amore, il Dio che ha la sollecitudine per i suoi figli in cammino, ristora le forze del profeta Elia con “una focaccia, cotta su pietre roventi ” e “orcio d'acqua ”. Elia che era ormai in grave difficoltà e scoraggiato si sente incoraggiato e riprende il suo cammino.
Infatti, “con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l'Oreb”. Gesù è il “pane” vivo, disceso dal cielo per dare vita al mondo. Perché questo “pane” soddisfi definitivamente la fame di vita che risiede nel cuore di ogni uomo o donna, è necessario “credere”, cioè, aderire a Gesù, accogliere le sue proposte, accettare il suo progetto, seguirlo nel “sì” a Dio e nell'amore dei fratelli.
Questa pagina del Vangelo è in continuità con il vangelo della scorsa domenica. Mentre questa concludeva con la grande affermazione di Gesù “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!”, il vangelo di questa domenica inizia, presentandoci la reazione della folla, dinanzi tale affermazione di Gesù.
I giudei erano nell’incapacità non solo di comprendere l’affermazione di Gesù che Egli sia “pane della vita” ma anche e soprattutto non riuscivano a fare un passaggio dal segno del pane alla persona di Gesù che è un vero segno. Infatti, essi mormoravano contro Gesù perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”. Mormorare è un verbo che nel testo greco significa letteralmente “latrare”, anticamera della ribellione nei confronti di Dio. È un atteggiamento ostile a Dio e, nel nostro testo, a Gesù. Mormorare non è mai stata un atteggiamento gradito a Dio.
L’essere umano, nonostante abbia una esperienza dell’intervento di Dio nella loro vita, alla prima difficoltà si lamenta e usa un linguaggio naturale, proprio come fece il popolo d’Israele. Hanno indurito il loro cuore e rifiutato la persona di Gesù. Loro rifiutano di credere in Gesù e questo significa rifiutare di aderire al disegno di Dio stesso. La causa di questo rifiuto è il fatto di conoscere le sue origini umane: egli è figlio di Giuseppe. Non riconoscono le sue origini divine e soprannaturale, solo perché è figlio di Giuseppe e conoscono i fratelli e la mamma.
Nei nostri giorni ci sono delle persone che non credono nella divinità di Gesù e pongono dei limiti a Dio. Invece, dobbiamo sapere che Dio non va secondo i nostri schemi mentali, perciò siamo chiamati a credere in Lui e nella Sua onnipotenza, che va al di là di ciò che vediamo con i nostri occhi naturali, e a smettere di mormorare.
Gesù invita i giudei a non mormorare perché quelle sue parole devono essere accolte non con la ragione umana, non la fiducia delle proprie facoltà, capacità, intelligenza, ma devono essere accolto come un dono di Dio e grazia all’azione di Dio: Dio attira verso di lui chi è fiducia in Lui. Lasciarsi attirare da Dio. Occorre dunque la fede, accettare questo Segno che è Cristo; accogliere e aderire al suo messaggio di salvezza; è ubbidire alla sua parola.
Dopo l’invito a non mormorare, Gesù propone l’atto di credere come l’unica via per avere la vita eterna. Il discepolo deve credere che egli è non soltanto “il pane della vita” ma anche “il pane vivo, disceso dal cielo”. Egli sottolinea che il pane – Cristo - è vita e trasmette la vita a chiunque ne riceve. Gesù non cessa di ripetere e ne aggiunge: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Il pane sceso dal cielo è posto in rapporto con la manna che nutrì i padri senza preservarli dalla morte. Gesù, invece, è il solo pane che dà la vita senza fine e proviene dall'alto: è il Verbo incarnato di Dio. Il vangelo non dice “avrà” ma “ha” la vita eterna fin da ora, ossia riceve in dono la vita che non finisce. Colui che mangia la sua carne, è unito e legato a Lui, diventa una cosa sola con lui, per potere vivere una vita divina. Perciò Gesù tratteggia, per il discepolo missionario, alcuni elementi indispensabili:
Prima e anzitutto deve lasciarsi attirare dal Padre, infatti Gesù afferma che “nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato”. Si tratta dell’attrazione divina come Dio l’aveva detto attraverso di Profeta Osea “li attiravo a me con legami di bontà, con vincoli di misericordia” (Os 2,16 ) oppure attraverso del profeta Geremia “ti ho amato di amore eterno; perciò, ti attirai alla misericordia” (Ger 31, 3). Dio attira, attrae con la sua bontà e misericordia e non costringendo. Il discepolo deve soltanto lasciarsi attirare, trascinare dalla sua bontà e dal suo amore.
Infine, egli deve lasciarsi istruire dal Padre. Già nei libri profetici era ben presente che Dio, nella sua bontà e misericordia, ammaestrava il suo popolo e tale ammaestramento portava alla fede. Il Discepolo missionario è chiamato a lasciarsi ammaestrare ascoltando e accogliendo il messaggio del padre, ciò vuole dire, lasciarsi guidare dal Padre.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.
Es 16,2-4.12-15; Sal 77; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35
Con l’episodio della condivisione dei pani Gesù aveva voluto elevare la folla a livello prima di uomini, poi di persone adulte, di persone mature, ma la folla non ha voluto, voleva farlo re. Ha preferito la sottomissione alla libertà che Gesù aveva loro proposto e Gesù era scappato via.
Ebbene ora la folla lo rincorre, ne va in cerca -il verbo ‘ricercare’ nel vangelo di Giovanni è sempre negativo, è sempre per catturare, lapidare, uccidere Gesù –e, quando lo trova, si rivolge a lui chiamandolo ‘Rabbi’. Rabbi è il maestro della legge, non hanno compreso la novità proposta da Gesù, un rapporto con Dio completamente nuovo, non più basato sull’obbedienza della legge, ma sull’accoglienza del suo amore.
E qui inizia un dialogo tra sordi, un dialogo all’insegna dell’incomprensione, perché la folla chiede il pane per sé e Gesù li invitava a farsi pane per altri. Ecco che Gesù dice “voi mi cercate non perché avete visto dei segni”. Il segno cos’era? L’accoglienza di un dono generoso per farsi, a loro volta, dono generoso per gli altri, ricevere il pane per poi farsi pane per gli altri.
“Ma perché avete mangiato” –cioè, avete preso il pane per voi, “e vi siete saziati”. E avvisa Gesù “datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna”. La vita ha una parte biologica e ha bisogno di esser nutrita e una parte, quella eterna, che per crescere ha bisogno di nutrire.
Quindi noi abbiamo due aspetti: -La nostra vita biologica, deve essere nutrita-Quella interiore, per crescere, invece, deve nutrire.
Allora Gesù dice “datevi da fare per questo”. “Perché”, assicura Gesù, “questo è il cibo che vi da il Figlio e su di lui il Padre ha messo il suo sigillo”, cioè Gesù è la garanzia della presenza divina nell’umanità.
Ed ecco che chiedono loro a Gesù cosa devono fare, e Gesù dice: “Questa è l’opera di Dio”. L’unica volta che appare nell’Antico Testamento il termine ‘opera di Dio’, è nel Libro dell’Esodo, capitolo 32, vers. 16, per indicare le tavole della legge.
C’è un cambio di alleanza, il rapporto con Dio non è più basato sull’osservanza della legge, ma sull’accoglienza dell’amore di Gesù. Ed è questo che Gesù esprime “che crediate in colui che egli ha mandato”. Quindi non più l’obbedienza alle leggi, ma l’assomiglianza all’amore che in Gesù, garanzia della presenza divina, si manifesta.
Ma la folla non comprende e chiede: “che segno compi perché vediamo e crediamo?” Questo è tipico dell’esperienza religiosa: un segno da vedere per poter credere. E Gesù rifiuta sempre, Gesù non mostra un segno da vedere per credere, ma al contrario dice “credi, e tu stesso diventerai un segno che gli altri possono vedere”.
Allora Gesù, di fronte a questa reazione della folla che si rifà ai padri e non al Padre, che si rifà al passato e dice “i nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto”, si rifanno al passato per Israele, mentre Gesù li aveva invitati al presente, al Padre dell’umanità, Gesù dice che non è stato Mosè in passato quello che ha dato la vera vita, ma il Padre “vi dà il pane dal cielo, quello vero”.
La richiesta della folla richiama la preghiera del Padre Nostro che, nel vangelo di Giovanni non è presente, “Signore, dacci sempre di questo pane”. Ecco, la folla è cresciuta, da ‘Rabbi’ –Rabbi è colui che insegna la legge –a ‘Signore’, hanno capito che in Gesù c’è una realtà divina.
Ed ecco la dichiarazione di Gesù “Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà pane e chi crede in me non avrà più sete”. Gesù si presenta come la piena risposta alle esigenze di pienezza di vita che ogni uomo porta dentro di sé.
* Padre Alberto Maggi, OSM, Centro Studi Biblici G. Vannucci, a Montefano (Mc).
IV Giornata Mondiale dei Nonni e degli Anziani
2 Re 4,42-44; Sal 144; Ef 4,1-6; Gv 6,1-15
Nella preghiera della colletta chiediamo al Signore di aiutarci a condividere il pane spezzandolo perché “sia saziata ogni fame del corpo e dello spirito”, come fecero Eliseo e Gesù. Infatti, davanti alla carestia, per Eliseo, e davanti alla folla affamata, per Gesù, Dio va all’incontro dell’uomo affamato e desideroso di Lui, per sfamarlo.
Dalla carestia, “mangiarono e fecero avanzare”, e davanti alla folla affamata, “riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato”: tutto dalla condivisione e dello spezzare.
La moltiplicazione dei pani, nel Vangelo di Giovani, costituisce il preludio del lungo discorso dei pani, nel quale Gesù si rivela come il vero pane della vita disceso dal cielo. All’inizio della narrazione, l’evangelista sottolinea l’attenta osservazione di Gesù: “alzati gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui”. Gesù è un attento osservatore niente gli sfugge. Nella domenica scorsa, nel Vangelo di Marco, Gesù vide la folla e ne ebbe compassione perché era come delle pecore senza pastore. Ora, Gesù non solo vede la quantità della folla ma anche la situazione della mancanza. Egli sta in continuo andare per incontrare e soccorrere ogni uomo con lo sguardo mai distratto, ma sempre attento a coglierne i bisogni dell’uomo. Quando vedi la folla, si preoccupa di sfamare: “dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”.
La domanda di Gesù merita una attenzione particolare: comprare rinvia allo scambio tra la moneta e il pane; dare la moneta per ricevere del pane e ci fa entrare nella logica del sistema economico della compra e della vendita, dove alcuni guadagnano tantissimo ed altri si impoveriscono. Davanti a questo sistema, Gesù vuole proporre un nuovo modello: quello della condivisione; della moltiplicazione del poco che abbiamo per condividere con gli affamati che non hanno dei soldi. Infatti, se intravede nella risposta dei discepoli, la tendenza al guadagno, legato al comprare, al possedere, all'avere e dunque propenso alla chiusura, da una parte e quella dell’apertura e condivisione, oppure dalla gratuità del dono dove rege il detto di Gesù “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dall’altra.
La prima tendenza è quella di Filippo e si tratta della chiusura e del guadagno che si regge della logica calcolatrice: “duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo”. Filippo, guidata dalla logica calcolista ed egocentrica, fa subito una stima, dei costi: “Duecento denari di pani” che era l’equivalente di duecento giornate di lavoro (perché un denaro equivaleva a una giornata di lavoro). Il frutto di duecento giornate di lavoro non sono sufficiente, cioè le risorse umane, i nostri sforzi e sacrifici, tentativi non bastano neanche per dare un po’ di vita alla folla affamata.
La risposta di Filippo rivela anche la sfiducia, lo scoraggiamento nonché il suo io egocentrico dominata dalla logica di comprare, per averne di più. Sembra a dire a Gesù, lascia la folla ad arrangiarsi, anzi, anche se tutti gli apostoli lavorassero tutta la giornata, per molti giorni, non avrebbero potuto neppure riuscito a sfamare la folla. Lo stesso è successo tra Eliseo e il suo servitore. Eliseo chiese al servitore di dare da mangiare. Ma il servitore risponde: “Come posso mettere questo davanti a cento persone”.
Invece, l’altro atteggiamento è rappresentato da Andrea che nota due presenze significative: quella di un ragazzo che aveva, per il suo pranzo, cinque pani e due pesci; ma per Andrea c’è, però, una eclatante sproporzione tra la folla e la povertà del cibo. Allo stesso tempo, Andrea dà l’importanza significativa alla presenza di Gesù. Egli considera la pochezza del ciò che c’è ma ha la fede in Gesù che ha fatto tanti miracoli che anche questa volta potrebbe fare. È dunque con molta fiducia che Andrea offre la pochezza del ragazzo a Gesù. È da questa apertura di Andrea che nascerà la condivisione del dono.
Gesù inizia con la generosità del ragazzo che mette a disposizione il suo poco. Per lui la soluzione è l’unica: condividere. Non tenere strettamente il pane per me ma mettere alla disposizione degli altri ciò che avevo per il mio pranzo. Non si mette con la logica calcolista, come Filippo, nemmeno della paura dell’insufficienza, come Andrea. Gesù coglie questa sua disponibilità per, prima far sedere la folla, e poi, prende i pani.
Si tratta di cinque pani e due pesci che rimanda al numero sette, simbolo della totalità, della perfezione. In quel gesto di condivisione manifesta l’amore di Dio che ha improntato nella creazione che da nulla ha creato l’universo ed ora con il poco, quasi nulla, condiviso, ha sfamato la moltitudine e ne è rimasto dei cesti per gli altri. Ed è impressionante che, negli altri vangeli Gesù spezza i pani e li dà ai discepoli e i discepoli alla folla mentre nel Vangelo di Giovanni è Gesù stesso che distribuisce i pani e i pesci ed è lo stesso gesto di “spezzare e donare il pane” durante l’ultima cena: “prendete e mangiatene: questo è il mio corpo”. Gesù si dona come il pane è donato, condiviso e non è oggetto di compravendita. Il vangelo non parla della moltiplicazione ma si della condivisione. È la condivisione del poco. Da quella condivisione se intravvede la relazione, l’amore.
Dal poco ma condivisa, messa in relazione, tutta la fame della folla viene sfamata e alla fine Gesù raccomanda di raccogliere i pezzi avanzati, affinché niente va buttata via, venga sprecata: “raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto”. Non si deve accumulare nemmeno trattenere ma condividere tutto affinché tutti, anche gli assenti, possano avere. Nessuno dev’essere escluso: rimangono dodici canestri di pezzi avanzati ed ogni cesto va destinata ad una tribù d’Israele in modo che nessuna tribù, nessun popolo rimanga senza pane e pesce. Quello che Gesù chiede è di “raccogliere” affinché niente viene perduto.
Il discepolo missionario non ragiona in termini di mercato e alla logica del comprare ma, come l’ha ben detto Papa Francesco, il discepolo ragiona secondo la logica del dare, consapevole che Dio è capace di moltiplicare i nostri piccoli gesti di solidarietà e renderci partecipi del suo dono.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.
Am 7, 12-15; Sal 84; Ef 1, 3-14; Mc 6, 7-13
La prima Lettura e il Vangelo sottolineano che la chiamata a diventare profeti oppure apostoli è inscindibile dalla missione a cui sono inviati, anzi la chiamata deve necessariamente sfociare nella missione.
Amos è consapevole che il Signore l’ha chiamato per una missione: “profetizzare”, così come gli apostoli, sono chiamati ed inviati “partirono, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano”.
In un primo momento, in Mc 3,14-15, questi sottolinea quali sono le due funzioni dei dodici: essere con Lui e predicare. Dice infatti che Gesù chiamò e “ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare”. La prima funzione dei Dodici è quella di costituire la comunità di Gesù, di creare una relazione d’amicizia: “essere con lui” e la seconda è quella di partecipare alla Sua missione, attraverso il mandato missionario di predicare, annunciare la venuta del regno di Dio.
Ora ritorna non solo il concetto della chiamata in sé, ma anche della dimensione comunitaria della medesima: vengono chiamati ad essere con lui, a fare comunità con lui, a vivere con lui e a fare l’esperienza profonda con lui. L’essenza della missione, in questo aspetto, è essere con lui. Per fare un’esperienza di intimità col Signore, un’esperienza d’amore per potere in seguito anche andare a testimoniare quest’amore vissuto insieme. La prima missione, dunque, è testimoniare il “vivere insieme a Gesù”, “il vivere insieme con gli altri”, imparare a vivere insieme. Questo è il valore di “chiamare a sé”. I discepoli sono chiamati ad essere con Gesù e a vivere con Lui e assieme a Lui ed altri a costituire una comunità, comunione di vita con Gesù, quel rapporto personale con lui che ha il primato su tutto il resto
Oltre alla dimensione comunitaria della vocazione, Gesù ne sottolinea un’altra: quella comunitaria della missione, dell’invio: prese a mandarli due a due, in comunità, in un piccolo gruppo. Quelli che erano stati chiamati a vivere insieme con Gesù, ora sono mandati due a due e non solitari poiché l’essere in comunione in Cristo è ciò che conta. Se la vocazione, che ha una dimensione comunitaria è inscindibile dalla missione, essa anche ha una dimensione comunitaria: una chiamata vissuta insieme per sfociare in una missione vissuta insieme.
Inviati due a due non solo perché in due ci si sostiene e ci si difende meglio ma anche perché si possa testimoniare insieme. Una cosa è testimoniare da solo, un’altra è testimoniare in due: una testimonianza comunitaria che rivela una doppia testimonianza: il vivere insieme l’amore ma anche testimoniare la presenza di Gesù in mezzo a loro. Infatti, Egli aveva detto che “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20). Si esclude dunque l’individualismo e il protagonismo che, secondo Papa Francesco sono due espressioni forti della mondanità spirituale.
Gesù li invia con una missione e con due raccomandazioni per il viaggio missionario: la prima si riferisce all’essenzialità della vita e la seconda è sulla relazione a creare.
Il discepolo in viaggio non deve prendere nient’altro che il bastone. Non è permesso avere dei bagagli, sarebbero un impedimento, dei pesi inutili. Solo il bastone, nessuna scorta di viveri e di denaro, sandali e una sola tunica. Gesù raccomanda di prendere il bastone in riferimento al bastone di Mosè con cui ha aperto il mar Rosso per la traversata del popolo eletto, per la sua liberazione; il bastone anche in riferimento alla croce di Gesù. Infatti, Egli stesso aveva detto che chi voleva seguirlo deve rinnegare se stesso e prendere la propria croce, strumento della morte dell’uomo mondano e della sua liberazione.
Il discepolo non deve avere sicurezze umane, fiducia nei propri mezzi: appunto né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa. Deve avere fiducia solo in Cristo, nella sua Parola, ma devo essere un uomo libero. Ecco perché non può nemmeno indossare due tuniche e deve solo calzare i sandali, che nell’Esodo, erano il simbolo degli uomini liberi. Si può anche dire che “il fatto di non portare niente nel viaggio, dà la possibilità ai discepoli di creare relazioni con le persone che va a incontrare … non hai cibo, non hai riparo e questo crea una condizione di bisogno dell’altro”.
Il discepolo è inviato nelle case e come ben comprendiamo, la casa “è un luogo di vita, incontri e di relazioni”. Gesù invita i discepoli ad avere degli atteggiamenti di relazione, essi dovevano rimanere ospiti nella prima casa in cui fossero stati accolti e dovevano vivere insieme in modo stabile e creare delle relazioni che coinvolgano e non andare di casa in casa. Inoltre, “la casa è un luogo intimo” e Gesù ci chiede di essere in intimità con lui ma anche con i fratelli. Infatti, Gesù afferma che “dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì”. Il verbo rimanere rinvia non solo fermarsi ma anche e soprattutto sostare, prendersi del tempo in quella casa.
Il discepolo è invitato ad entrare nelle case non per un suo bisogno o bisogno di chi incontra ma per sostare con l’altro, per esserci davvero con chi incontra. In una società di molta fretta non rimaniamo con gli altri. C’è il bisogno di rimanere, di esserci nelle relazioni ed esserci è anche costruire, alimentare.
Il discepolo missionario deve focalizzare l’attenzione su che cosa vuol dire oggi annunciare il Vangelo, che è sempre annuncio di pace, deve essere consapevole che il Maestro lo ha chiamato ad andare e raccontare, magari anche solo nella parrocchia vicino a casa e che infine lo vuole libero, leggero, senza appoggi e senza favori, sicuro solo dell’amore di Colui che lo invia ad essere forte solo della Sua parola che deve annunciare. Deve, inoltre, sapere rimanere sia nelle case che nelle relazioni.
* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.