“Abbiamo ringraziato il Papa per il suo appoggio durante le guerre e i conflitti nel Paese, siamo una minoranza ma dobbiamo essere luce e sale nella società”, dice il cardinale Berhaneyesus Demerew Souraphiel, acivescovo metropolita di Addis Abeba, che è a Roma ad altri 12 presuli e un sacerdote della Chiesa cattolica etiope in visita ad Limina.

Più di 500 anni fa i cristiani dell’Etiopia viaggiavano fino ad Alessandria, in Egitto, per pregare sulla tomba di San Marco, poi andavano a Gerusalemme per pregare sul Golgota e poi prendevano una nave fino a Roma, per recarsi sulle tombe dei Santi Pietro e Paolo e dei martiri, riposando nel luogo che è ancora il collegio etiopico in Vaticano. “Siamo qui a continuare la storia di questo pellegrinaggio antico”, spiega il cardinale Berhaneyesus, (in un'intervista alla Radio Vaticana). Dopo aver pregato nelle quattro basiliche maggiori a Roma, i vescovi hanno visitato i dicasteri della Santa Sede e, venerdì 28 giugno, sono stati ricevuti da Papa Francesco.

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Il cardinale Berhaneyesus Demerew Souraphiel ospite della Radio Vaticana. Foto: Vatican Media

Eminenza, come è andato l’incontro con il Papa?

Ci ha ricevuto con tanta semplicità e anche umiltà. Eravamo noi, soli con il Papa e abbiamo spiegato la nostra situazione in Etiopia. Lo abbiamo ringraziato anche per il suo appoggio durante le guerre e i conflitti nel Paese, di cui lui ha parlato negli appelli dopo l'Angelus. Lo abbiamo ringraziato e gli abbiamo chiesto di continuare a pregare per noi.

Che cosa avete raccontato della realtà dell'Etiopia?

Noi abbiamo presentato la situazione dell'Etiopia dal punto di vista dei giovani, perché su 120 milioni, il 70% della popolazione è costituito da giovani che vogliono migliorare la loro vita e quella dei loro parenti. Vedono sulla tv e sui social media come vivono in altre parti del mondo e molti vanno nei Paesi arabi e purtroppo lì soffrono perché non sono preparati a lavorare come domestici. Altri vogliono andare in Sudafrica, dove va un po’ meglio, ma anche lì ci sono problemi. Gli altri vanno a nord e attraversando il Sudan e la Libia cercano di arrivare in Europa. Nel XIX secolo molti europei migravano e c’erano alcuni luoghi in Europa disponibili a riceverli e sostenerli, ma tutto questo adesso viene a mancare. Papa Francesco questo lo sa.

Il primo luogo che è andato a visitare, dopo l’elezione, è stato Lampedusa, dove ha offerto dei fiori per tutti quelli che sono morti in mare e dove ha detto a chi governa l’Europa che le migrazioni sono importanti. Dobbiamo fare qualcosa per aiutare la gente, sia in Africa sia in Siria o in altri Paesi. Quando qualcosa riguarda i poveri, ci ha detto, allora dobbiamo essere vicini a loro. Noi siamo accanto ai bambini, che soffrono molto quando non vanno a scuola perché le scuole sono distrutte, siamo vicini alle mamme che non possono andare negli ospedali perché sono distrutti e agli anziani che sono sfollati dai loro villaggi e vivono come stranieri. Gli abbiamo spiegato tutto questo e lui ha detto di continuare a essere vicini alla gente, in mezzo al popolo, così da poter sentire l’odore delle pecore. Un vescovo deve essere così. Non deve scappare ma deve essere tra la gente. Anche se non si possono fare grandi cose, la fraternità e la presenza paterna sono importanti. Lui ha detto così.

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Spazio di amicizia per donne e ragazze vittime dei drammi della guerra in Tigray

Com’è la vita della Chiesa cattolica in Etiopia, che è una comunità minoritaria nel Paese?

Noi siamo minoranza, circa il 2% di 120 milioni di persone. La maggioranza degli abitanti è cristiana: più del 45% sono ortodossi, poi vengono i protestanti, intorno al 18-20%. Abbiamo la responsabilità di essere luce e sale in questo grande Paese. Le sfide sono la povertà e i conflitti e noi, grazie all'appoggio della Chiesa universale, siamo al secondo posto per i servizi sociali che offriamo, come scuole, centri sanitari o centri gestiti dalle suore di Madre Teresa o presidi per lo sviluppo o l’assistenza umanitaria, come la Caritas. In tutto questo siamo chiamati ad essere luce e sale, come Gesù ci ha detto. Non è facile, ma ci stiamo provando.

Lei ha parlato anche dei conflitti che riguardano l'Etiopia, come quello che è avvenuto nel Tigray. Quali sono le ripercussioni per la popolazione?

Il conflitto in Tigray era fra il governo regionale e il governo federale. Una cosa politica, ma chi soffre è il popolo. Grazie a Dio, dopo due anni hanno fatto una pace a Pretoria. L'altro è in Oromia. L’Oromo Liberation Army è in lotta con il governo federale da quattro anni e anche lì chi soffre è il popolo. Hanno cominciato a parlare in Tanzania, ma non sono riusciti ancora a fare la pace. Il terzo fronte adesso, che continua da più di un anno, è nella regione Amhara. Anche lì ci sono i movimenti in conflitto con il governo federale. Speriamo che arriveranno a una soluzione. Noi come Chiesa cattolica non appoggiamo né l’uno né l’altro, ma siamo con il popolo che soffre.

Piuttosto siamo per l’assistenza sociale e per cercare una riconciliazione per il dopo guerra, quando si deve fare non solo la pace, ma anche guarire dai traumi sia chi ha sofferto direttamente nella guerra, come le donne vittime di abusi e i bambini che hanno visto le loro famiglie morire. Questo è importante e non si fa solo a livello di una piccola Chiesa, ma con l'appoggio della Chiesa universale. Si può fare insieme con i tanti missionari che lavorano con noi e che vengono da tutto il mondo.

* Michele Raviart - Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in: Vatican News

Il 6 aprile 1994 iniziava la mattanza nel paese africano che causò la morte di un milione di persone.

“Ci sarà mai una cifra esatta sugli eccidi, sui feriti, sui profughi, sugli orfani che il dramma del Ruanda ha lasciato sul terreno dell’Africa? Le dimensioni sono quelle di una grande tragedia, ma incalcolabile non è soltanto il numero delle vittime. È inquietante chiedersi fin dove e, soprattutto, fino a quando questi semi di violenza continueranno ad avvelenare i percorsi di una necessaria riconciliazione”. Gli angosciosi interrogativi li poneva il Cardinale Jozef Tomko, Prefetto dell’allora Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, in un intervento pubblicato dall’Agenzia Fides e dall’Osservatore Romano nel giugno 1995, nel primo anniversario dell’assassinio dell’Arcivescovo di Kigali, Vincent Nsengiyumva, e dei Vescovi di Kabgayi, Thaddee Nsengiyumva, e di Byumba, Joseph Ruzindana, uccisi il 5 giugno 1994 insieme a dieci sacerdoti che li accompagnavano nella visita alle popolazioni sconvolte dalla violenza omicida. I loro nomi si aggiungevano ad un lungo elenco di sacerdoti, religiosi, religiose, seminaristi, novizie, operatori pastorali uccisi nel Paese africano.

Dal 6 aprile 1994, quando venne abbattuto l’aereo su cui viaggiavano i Presidenti del Ruanda e del Burundi, colpito da un missile nei cieli della capitale ruandese Kigali, al 16 luglio 1994, secondo la connotazione cronologica accettata, si compie in Ruanda il genocidio dei tutsi e degli hutu moderati. Il movente fondamentale fu l’odio razziale verso la minoranza tutsi, che costituiva l’élite sociale e culturale del Paese. Le cifre ufficiali diffuse all’epoca dal governo ruandese parlano di 1.174.000 persone che persero la vita in 100 giorni, uccise con machete, asce, lance, mazze. Altre fonti citano un milione di morti. Lo sterminio terminò, almeno ufficialmente, nel luglio 1994 con la vittoria militare del Fronte patriottico ruandese, sulle forze governative, espressione della diaspora tutsi. Lo strascico di violenze e vendette razziali proseguì comunque ancora a lungo.

Il Cardinale Tomko, nel suo intervento l’anno seguente alla tragedia, citava “oltre due milioni di persone, vale a dire quasi un terzo della popolazione, attualmente al di là dei confini del Paese. I profughi ammassati nei campi - in particolare nello Zaire (attuale Repubblica democratica del Congo) - sono l’immagine di un doppio dramma: quello dei diritti e della dignità negata, e quello di una nazione mutilata”. Il Prefetto del Dicastero Missionario indicava quindi la riconciliazione come “la sola possibilità di salvezza, il nome della speranza a cui tutto il popolo ha diritto. E in una prospettiva di questa natura, emerge in pieno il vastissimo ruolo che spetta alla Chiesa”.

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La chiesa della Santa Famiglia a Kigali, in cui furono perpetrati massacri nella guerra civile del 1994. Foto: Adam Jones

“Un contributo peculiare in tale direzione proviene dall’operato dei missionari, considerati tra i pochi soggetti al di sopra delle parti nella tragedia che insanguina il Paese, in grado di portare avanti senza cedimenti il processo di pacificazione” evidenziava ancora il Cardinale Tomko. A pochi mesi dall’eccidio, più di sessanta si erano reinsediati nei precedenti luoghi di apostolato, “in mezzo alle popolazioni stremate dalla fame, dalle ferite e dalle malattie”, oltre ad essere impegnati nello stabilire collegamenti tra i profughi nei Paesi vicini e le autorità ruandesi per garantire loro il rientro in patria in condizioni di sicurezza e dignità.

Nella rete di riconciliazione tessuta dalla Chiesa, un secondo apporto fondamentale è stato fornito dai Seminari, la cui vita in Ruanda è particolarmente fiorente. Intorno alla Chiesa locale poi, “si mobilitano in molti per alleggerire il peso che essa deve portare. La solidarietà e l’aiuto spirituale, morale e non solo manifestatole, sono un segno eccellente di quell’universalità di cui parlano già gli Atti degli Apostoli”.

Nel primo anniversario “dell’orribile tragedia ruandese”, i membri della Conferenza episcopale del Ruanda pubblicarono “un messaggio di partecipazione e di conforto” all’intero popolo ruandese, che porta la data del 30 marzo 1995. “La Chiesa cattolica del Ruanda, così come tutto il Paese, è stata provata per la perdita di un gran numero dei suoi figli. Essa condivide il dolore di quanti si sono confrontati con ogni tipo di sventura: genitori a cui sono stati strappati i figli per essere uccisi, orfani, vedove, feriti, handicappati, sfollati, rifugiati nei campi, traumatizzati; in una parola tutti quelli che si sono trovati davanti l’orrore in tutte le sue forme. La Chiesa condivide la sofferenza di tutti costoro: fa sue le loro lacrime, il loro dolore, i loro lamenti e le loro suppliche, nella misura delle sue possibilità li accompagna nelle loro diverse situazioni”.

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Foto di alcune delle vittime del genocidio conservate nel museo della memoria a Kigali. Il museo è stato aperto nel 2004 in occasione del decimo anniversario dall’inizio del genocidio.  Foto: Corbis via Getty Images.

I Vescovi ruandesi, un anno dopo i massacri, auspicavano una degna sepoltura di tutte le vittime della guerra, dichiarandosi favorevoli “all’erezione di segni memoriali in ricordo dei defunti”. Come sempre “la Chiesa continua a pregare per i defunti” assicuravano, invitando tutti “a mobilitarsi per inumare degnamente i resti delle vittime che si trovano ancora sulle colline... Chiediamo insistentemente che le cerimonie di inumazione dei resti delle vittime della tragedia ruandese siano esenti da tutti quei gesti e da quelle parole che hanno provocato e aggravato il conflitto”.

Nella conclusione del messaggio, i Vescovi ribadivano “la condanna e la disapprovazione per i massacri ed il genocidio che ha segnato l’anno trascorso”, quindi esortavano “tutti coloro che amano la pace, ad ostacolare e combattere ogni progetto che possa portare al ripetersi di una tale tragedia. Questa è una legge assoluta di Dio: tutti vogliono che la loro vita sia rispettata, ognuno dunque rispetti la vita degli altri e agisca di conseguenza”.

La Via Crucis del popolo ruandese vissuta nel cuore della Chiesa

La tragedia vissuta dal popolo ruandese ha coinciso con un avvenimento storico per la Chiesa del Continente, che avrebbe dovuto riempirla di gioia e speranza: la Prima Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, sul tema “La Chiesa in Africa e la sua missione evangelizzatrice verso l'anno 2000: 'Sarete miei testimoni' (At 1,8)”. Indetta da Papa Giovanni Paolo II già nel 1989, venne celebrata in Vaticano dal 10 aprile all’8 maggio 1994, nel quadro dei Sinodi continentali sul tema dell’evangelizzazione in preparazione al Grande Giubileo dell’Anno 2000. L’eco dei tragici eventi che insanguinavano il Ruanda risuonò e si amplificò in modo particolare nel cuore della Cristianità, dove i rappresentanti dei Vescovi di tutto il continente africano erano riuniti attorno al Successore di Pietro, che non si stancava di invocare riconciliazione e pace.

Il 9 aprile 1994, in un primo messaggio indirizzato alla comunità cattolica del Ruanda, Papa Giovanni Paolo II supplicò “di non cedere a sentimenti di odio e di vendetta, ma a praticare coraggiosamente il dialogo e il perdono”. “In questa tragica tappa della vita della vostra nazione - scrisse il Papa - siate tutti artefici di amore e di pace”.

Nella solenne cornice della Messa di apertura dell’Assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi per l’Africa, celebrata in San Pietro domenica 10 aprile 1994, cui ovviamente non parteciparono i Vescovi del Ruanda, il Papa espresse profonda preoccupazione per il Paese africano, “tormentato da annose tensioni e da sanguinose lotte”. Durante l’omelia ricordò in particolare “il popolo e la Chiesa ruandesi, provati in questi giorni da una impressionante tragedia, legata anche alla drammatica uccisione dei Presidenti del Ruanda e del Burundi. Con voi, Vescovi, condivido la sofferenza di fronte a questa nuova catastrofica ondata di violenza e di morte che, investendo questo diletto Paese, ha fatto scorrere in proporzioni impressionanti, anche il sangue di sacerdoti, religiose e catechisti, vittime di un odio assurdo”. Facendosi portavoce dei 315 partecipanti al Sinodo, e “in spirituale comunione con i Vescovi del Ruanda che non hanno potuto essere oggi qui con noi”, il Pontefice lanciò un appello per fermare i violenti. “Con voi elevo la mia voce per dire a tutti: Basta con queste violenze! Basta con queste tragedie! Basta con queste stragi fratricide!”

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Fronte comune delle associazioni per il ricordo del genocidio tutsi in Ruanda. Foto: Licra memoire

Anche dopo la recita del Regina Coeli di quella stessa domenica, Papa Giovanni Paolo II richiamò l’attenzione sul paese africano: “Le tragiche notizie che giungono dal Ruanda suscitano nell’animo di tutti noi una grande sofferenza. Un nuovo, indicibile dramma, l’assassinio dei Capi di stato di Ruanda e Burundi e del seguito; il Capo del governo ruandese e la sua famiglia trucidati; sacerdoti, religiosi e religiose uccisi. Ovunque odio, vendette, sangue fraterno versato. In nome di Cristo, vi supplico, deponete le armi! Non rendete vano il prezzo della Redenzione, aprite il cuore all’imperativo di pace del Risorto! Rivolgo il mio appello a tutti i responsabili, anche della comunità internazionale, perché non desistano dal cercare ogni via che possa essere argine a tanta distruzione e morte”.

I lavori del Sinodo per l’Africa, il primo nella storia della Chiesa, furono inevitabilmente contrassegnati, oltre che dallo studio e dal dibattito indicati dall’Instrumentum laboris, anche dalle tragiche notizie che via via giungevano dal Ruanda. Il 14 aprile il Santo Padre celebrò la Santa Messa “per il popolo rwandese” e i membri del Sinodo lanciarono un “appello pressante” per la riconciliazione e per i negoziati di pace. Nel messaggio, firmato a nome di tutti dai tre Presidenti delegati del Sinodo (i Cardinali Francis Arinze, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Inter-Religioso; Christian Wiyghan Tumi, Arcivescovo di Garoua, Camerun, e Paulos Tzadua, Arcivescovo di Addis Abeba, Etiopia), i padri Sinodali si dissero “profondamente rattristati per i tragici avvenimenti” e si rivolsero “a tutti coloro che sono coinvolti in questo conflitto, perché facciano tacere le armi e pongano fine alle atrocità ed alle uccisioni”.

Ai ruandesi chiesero di “camminare insieme e di risolvere i loro problemi con la discussione”, ai singoli individui ed alle organizzazioni presenti in Africa o fuori dall’Africa, di “usare la loro influenza per portare il perdono, la riconciliazione e la pace in tutto il Ruanda”.

Fonte: Agenzia Fides

La parola Minga appartenente alle culture indigene andine ed indica una forma di azione collettiva che nasce dall'incontro di diversi attori, conoscenze e strumenti alla ricerca di un obiettivo comune. È un lavoro organizzato e comunitario, finalizzato al progresso e alla resistenza socio-politica. 

È in questo stesso contesto che, nel tempo di Dio e nel calendario amazzonico della Vita, si svolge la Seconda Minga Amazzonica di Frontiera celebrata in questi primi giorni di Novembre nella città amazzonica di Puerto Leguízamo, centro amministrativo, commerciale, militare e religioso dell'Amazzonia colombiana, peruviana ed ecuadoriana.

Popoli che vivono insieme

Secondo la saggezza costruita per secoli dai popoli ancestrali che abitano questo territorio, anche questa seconda Minga continua ad alimentare il grande progetto secondo il quale "tutti in Cristo hanno vita in abbondanza": indigeni, afrodiscendenti, contadini, urbani, colombiani, peruviani, ecuadoriani, migranti o residenti, nativi o coloni. Per tutti, questo territorio ricco, colorato e vario è offerto come una "casa comune" che può essere usata in fraternità, goduta in amicizia e curata responsabilmente.

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Con Gesù nel territorio

"Tutto ciò che accade alla Terra, accadrà ai figli della Terra", sono state le parole che hanno introdotto la riflessione sul territorio che abitiamo, luogo sacro della vita. 

I popoli che vivono in questo territorio hanno una memoria di resistenza, storie di esperienze e la vicinanza di un Dio che cammina con loro. Sono piccoli popoli ma camminano insieme, hanno alti e bassi ma lottano e sopravvivono grazie alle loro credenze ancestrali e alle loro esperienze, che li rendono forti e con una identità propria. La loro storia ci insegna "l'arte di imparare camminando" e in essa scopriamo e comprendiamo la nostra stessa fede.

Come il Popolo d'Israele, anche noi camminiamo in questo territorio dell'Amazzonia, ascoltando e consolando, costruendo una Chiesa dal volto amazzonico, una Chiesa samaritana che cammina con gli altri. 

Sull'esempio di Gesù, che ha percorso il territorio della Galilea nel suo ministero itinerante, abitiamo il territorio nella sua diversità di luoghi; ci impegniamo nei compiti quotidiani stabiliti dalla vita di ogni popolo; siamo chiamati a lasciarci segnare dal territorio e a lasciare un'impronta che ci aiuti a costruire i sogni di unità che ci permettano di sentirci parte dello stesso corpo anche in mezzo alla diversità.

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Una Chiesa sinodale

Monsignor Joaquín Pinzón, missionario della Consolata e vescovo da dieci anni della chiesa di questa regione, il Vicariato di Puerto Leguízamo-Solano, ha notato che il cammino di accompagnamento dei processi, dei volti e delle opzioni apostoliche è stato guidato dalla Parola di Dio, incarnata nel Piano Pastorale. La strada e il cammino ci hanno aiutato a scoprire il modo di essere Chiesa nello stile di Gesù e del suo Regno: una Chiesa samaritana, casa comune, sorella e madre che accompagna, ascolta e guida, annunciando e vivendo la misericordia dalla giustizia e dalla pace, affinché tutti abbiano una vita piena, in abbondanza, di qualità. "Come credenti continuiamo a sognare un territorio possibile e una Chiesa possibile e fraterna".

* Salvador Medina è missionario della Consolata in Colombia.

In questi giorni è stato con noi, nella Casa Generalizia dei Missionari della Consolata, monsignor Ismael Rueda Sierra, arcivescovo di Bucaramanga. Amico personale di Luis José Rueda Aparicio –arcivescovo di Bogotá e creato cardinale nell’ultimo concistoro convocato da papa Francesco lo scorso 30 settembre– ha voluto essergli vicino nei giorni del concistoro ma ha approfittato della presenza in Roma anche per sbrigare alcune pratiche presso le congregazioni vaticane e una riguardava da vicino i Missionari della Consolata che da anni lavorano nella sua diocesi. Un giorno prima di ritornare in Colombia ci ha dato la notizia di aver ricevuto dal Dicastero del Culto Divino l'autorizzazione a dedicare al Beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari della Consolata, una nuova parrocchia. Gli abbiamo chiesto di raccontarci per che motivo aveva fatto questa richiesta alla congregazione romana.

–Quante parrocchie ha Bucaramanga?

–Sono centodieci in totale, questa sarà la centoundicesima. Un numero curioso e significativo! 

E la verità è che sono molto felice che nella nostra diocesi ci sia una parrocchia dedicata al Beato Giuseppe Allamano. 

Per ottenere il permesso è stato necessario fare un processo abbastanza elaborato; quelli del Dicastero del Culto Divino mi hanno fatto capire che è una cosa insolita, in una chiesa locale, dedicare una parrocchia a un santo, in questo caso un beato, senza che la sua memoria sia presente nel calendario liturgico diocesano.

Tuttavia, nel caso del Beato Giuseppe Allamano mi è sembrato importante, come ho scritto nel decreto di indulto, perché "l'Istituto dei Missionari della Consolata è presente nella nostra Chiesa particolare da oltre 60 anni con una meritoria influenza apostolica e missionaria che ha generato la fondazione di diverse parrocchie nei suoi dintorni, Riteniamo giusto e spiritualmente opportuno che quest'ultima sia intitolata al loro Beato Fondatore".

– Qual è stato il lavoro dei Missionari della Consolata in tutti questi anni?

– Si occupavano della cura delle comunità cristiane in un settore che all'epoca era periferico e nelle vicinanze del vecchio aeroporto della città che si chiamava Gómez Niño. In questo settore la città ha avuto un notevole sviluppo urbanistico e. come spiego nel documento presentato in Vaticano, dalla vecchia parrocchia della Consolata sono nate diverse parrocchie. Oggi abbiamo una intera zona pastorale che porta il nome di Nostra Signora della Consolata e dietro c'è tutto il lavoro dei missionari che hanno servito nella parrocchia madre di tutte, quella della Consolata. È stato notevole l'impegno che hanno messo nella creazione e nella formazione di comunità cristiane e l'influenza positiva e missionaria che hanno avuto nell'arcidiocesi.

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–E nel caso del quartiere di Monterredondo?

–Bucaramanga è costruita su un altopiano che termina in zone scoscese che sembrano avere la forma di dita... La nuova parrocchia si trova su una di queste dita, quella precisamente del quartiere di Monterredondo. Quel settore, che non ha altre possibilità di estendersi a motivo della sua geografia, attualmente ha circa 5000 abitanti, ma lì succede qualcosa che abbiamo visto in altre parti della città: dove prima c'erano case familiari, ora si stanno costruendo condomini. Quindi, a medio termine, è facile prevedere un aumento significativo della popolazione. 

Questo giustifica la presenza di una parrocchia. Dopo che mi è stato presentato il progetto, ho chiesto al Vicario giudiziale, che si occupa dei confini, di determinare il perimetro della nuova giurisdizione e lui lo ha fatto. Pensate un po'! Oggi si fa con il GPS, non indicando strade o avvallamenti come si faceva prima! Ad ogni modo il limite territoriale non è così importante come il lavoro di evangelizzazione che è stato fatto: questa parrocchia è nata quasi adulta. Ha già una chiesa, una casa parrocchiale con opportuni spazi di catechesi e, la cosa più importante, è già composta da comunità cristiane organizzate e consapevoli della loro vocazione missionaria e del loro impegno. Questo lavoro lo dobbiamo ai missionari della parrocchia della Consolata, in particolare al padre Manuel Dias, che per anni ha accompagnato da vicino questo sviluppo comunitario e pastorale, con una presenza che è stata costante, permanente e silenziosa ma allo stesso tempo efficace e ben mirata. 

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–E l'Allamano, perché?

–Ho visto la statua del vostro Fondatore nel cortile della Casa Generalizia: è raffigurato in abito talare! Lui era un sacerdote diocesano, ma con un grandissimo cuore missionario, attento non solo alle esigenze della sua Chiesa locale, ma anche a quelle della Chiesa universale. 

Lo stile dei Missionari della Consolata, attento alle dinamiche pastorali della Chiesa locale, è stato un grande contributo anche per i sacerdoti diocesani e coerente con gli orientamenti che Papa Francesco sta dando. È bello che i sacerdoti diocesani si interessino e offrano parte del loro tempo e della loro vita per la missione "ad gentes". 

La missione è un'esperienza preziosa e non solo per chi ci va. È una occasione per vedere la chiesa che nasce mossa dall’annuncio ma allo stesso tempo è una sfida per niente facile. Quando abbiamo come tabella di marcia della nostra vita l'annuncio del Vangelo di Gesù non sappiamo mai quali sorprese ci aspettano lungo il cammino: dobbiamo essere preparati a tutto e dobbiamo avere fiducia nello Spirito Santo che alla fine è colui che conduce e guida tutto. Questo è ciò che la missione ci insegna molto chiaramente. 

Nel 2016 abbiamo celebrato a Bucaramanga il dodicesimo congresso missionario nazionale; in quell'occasione è nato l'impegno delle arcidiocesi nei confronti dei vicariati apostolici e a noi è stato assegnato il vicariato di Puerto Leguízamo. Considero una benedizione e un privilegio il fatto che questo Vicariato, che è anche affidato alla cura dei Missionari della Consolata, si trovi nel contesto amazzonico. Dopo il Sinodo dell'Amazzonia e la Laudato Si', tutto questo mondo, prima percepito come marginale, è stato messo al centro dell'impegno ecclesiale e ora anche ecologico della Chiesa. Questa presenza in Amazzonia è una proiezione missionaria di prima grandezza che la Chiesa offre alle nostre comunità cristiane locali per incoraggiarle nel loro impegno. 

Dedicando una parrocchia a Giuseppe Allamano riconosciamo che lo spirito missionario, che il Signore ha seminato nel cuore di questo sacerdote diocesano, ha prodotto molti frutti. La parrocchia numero cento undici dell'arcidiocesi di Bucaramanga potrebbe forse essere considerata un frutto molto piccolo, ma in realtà la spiritualità missionaria che l'ha generata e che, da lì, dovrebbe diffondersi, sta proiettando la nostra chiesa diocesana e locale negli orizzonti più recenti e attuali della Chiesa universale.

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