Gs 5,9-12; Sal 33; 2 Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32

Nella quarta tappa del “cammino quaresimale”, le letture odierne ci parlano di vita nuova. Ci dicono come arrivarci e ci invitano a provarlo.

La prima lettura (Gs 5,9-12) ci mostra il popolo di Dio che inizia una nuova vita nella terra di Canaan. Dietro restano la schiavitù dell'Egitto e la desolazione del deserto così come abbiamo sentito Domenica scorsa nella chiamata di Mosè. Ora, nella Terra Promessa, Israele può cominciare a vivere in modo nuovo, costruendo un futuro di libertà e felicità. È questa esperienza – il passaggio dalla schiavitù alla libertà, dalla vita vecchia alla vita nuova – che siamo invitati a fare in questo tempo di Quaresima.

Forse il nostro testo non presenta l'intensità drammatica e la profondità teologica di altri testi fondamentali nella vita del popolo di Dio ma si tratta di un testo assolutamente appropriato per questa quarta domenica di Quaresima, nella quale battezzati e catecumeni sono invitati a proseguire il loro cammino quaresimale verso la vita nuova. Il battesimo, che alcuni ricordano (i già battezzati) e che altri hanno all'orizzonte (i catecumeni), segna per tutti questa vita nuova che il popolo liberato da Dio dalla schiavitù dell'Egitto ha trovato e celebrato nella pianura di Gerico, vicino a Ghilgal. La Quaresima sarà un tempo favorevole per rinnovare il nostro impegno battesimale e per ritornare a quella fonte di vita nuova in cui ci siamo immersi il giorno in cui siamo stati battezzati.

Nella seconda lettura (2 Cor 5,17-21), l’apostolo Paolo, utilizzando il concetto di “riconciliazione”, ci ricorda che Cristo è venuto per sconfiggere l'egoismo e il peccato e per sanare la separazione che esisteva tra Dio e gli uomini. Coloro che accettano di connettersi con Cristo e di camminare dietro a Lui sono riconciliati con Dio. Vivono una vita nuova, la vita dei cari e amati figli di Dio.

Nel Vangelo (Lc 15,1-3.11-32), attraverso la parabola del “padre misericordioso”, che probabilmente conosciamo a memoria, Gesù ci assicura che Dio non ci chiuderà mai le porte: ci aspetterà sempre a braccia aperte, pronto ad accoglierci e a reintegrarci nella sua famiglia. “Ritornare a Dio” è la scelta giusta per chiunque voglia dare senso pieno alla propria esistenza.

Tutti coloro che ascoltavano la storia raccontata da Gesù si aspettavano, da questo giovane uscito di casa, un ricongiungimento difficile con un padre ferito e arrabbiato. Forse il padre gli avrebbe chiuso la porta in faccia? O magari lo avrebbe ammesso in casa per vedere se aveva davvero imparato la lezione e fosse cambiato? Certamente una cosa sembrava chiara anche allo stesso figlio: non avrebbe mai più occupato il posto che aveva prima in famiglia. Perché lui, di sua iniziativa, aveva scelto di smettere di essere figlio. Ebbene, questo è anche l’atteggiamento del figlio maggiore.

Invece ciò che segue è solo l'espressione e la conseguenza dell'amore. Il padre abbraccia il figlio ricongiunto e «lo ricopre di baci»; il suo modo di agire, più che un comportamento di padre, è un comportamento di madre. In lui non c'è prevenzione nei confronti del figlio ingrato ma nel suo cuore c'è solo amore. E poi, quando il figlio cerca di spiegarsi, il padre non lo lascia nemmeno parlare: chi ama così non ha bisogno di spiegazioni né di scuse.

Quel padre pieno d'amore è Dio; noi siamo i figli. La parabola del padre misericordioso è una poesia straordinaria sull'amore di Dio per i suoi figli – per noi.

Nella vita, possiamo anche scegliere l’autosufficienza e allontanarci da Dio ma alla luce di questo vangelo non sembra essere una buona opzione. È piuttosto una perdita di tempo. Non possiamo permetterci di sprecare la nostra esistenza in progetti che non portano da nessuna parte.

Noi oggi come vediamo coloro che hanno abbandonato la comunità cristiana? O quelli che si considerano atei o vivono in situazioni irregolari? Il vangelo ci insegna che ciò che conta è l’amore, la gentilezza, la misericordia, la compassione.

Il padre misericordioso è un padre il cui amore rigenera e dona ai suoi figli una vita nuova e libera; un padre il cui desiderio più profondo è sedersi con tutti loro, nessuno escluso, attorno alla tavola familiare, in una festa senza fine. Nella nostra vita, piena di futilità, di angoscia, di solitudine, di paure, di amori effimeri, di scommesse fallite, abbiamo bisogno di un Dio capace di guardarci con gli occhi di padre e madre, con uno sguardo traboccante d'amore.

* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.

Es 3,1-8.13-15; Sal 102; I Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9

Siamo già nella terza tappa del cammino verso la Pasqua. Questa domenica siamo tutti chiamati, ancora una volta, a ripensare alla nostra esistenza. Il tema fondamentale dell’odierna liturgia della Parola è la “conversione”. Questo tema è legato alla “liberazione”: Dio liberatore si propone di trasformarci in uomini nuovi, liberi dalla schiavitù dell’egoismo e del peccato, affinché si manifesti in noi la vita in pienezza, la vita di Dio.

La prima lettura (Es 3,1-8.13-15) ci parla di Dio che non tollera l'ingiustizia e che è sempre presente in chi lotta per la liberazione. È questo Dio liberatore che esige da noi una lotta permanente contro tutto ciò che ci schiavizza e che impedisce la manifestazione della vita piena. Mosè è invitato ad essere il volto visibile della liberazione che il Signore opererà. Tempo prima, Mosè aveva lasciato l'Egitto e aveva trovato rifugio nel deserto del Sinai, dopo aver ucciso un egiziano che maltrattava un ebreo (il sentiero del deserto era il percorso normale per gli oppositori della politica del faraone, come dimostrano altri racconti dell'epoca giunti fino a noi); accolto da una tribù di beduini, Mosè si sposò e si rifece vita, in un'esperienza di meritata calma e tranquillità, dopo l'incidente che aveva rovinato i suoi sogni di carriera nell'apparato amministrativo egiziano (cfr Es 2,11-22). Ora, è proprio in questa oasi di pace che il Signore si rivela, turba Mosè e lo invia in missione in Egitto.

Per mezzo di Mosè, gli Israeliti scoprirono che il Signore era il protagonista di quel tentativo di liberazione e voleva che il suo popolo, vittima dell'oppressione, diventasse libero e felice.  Il Signore non è rimasto indifferente di fronte all'oppressione ma per la fede di Israele ha dato inizio a una lunga serie di interventi che hanno portato alla liberazione e alla vita di un popolo precedentemente condannato a morte.

Dio agisce nella nostra vita e nella nostra storia attraverso uomini di buona volontà, che si lasciano interpellare da Dio e accettano di essere suoi strumenti nella liberazione del mondo. Di fronte alla sofferenza dei fratelli e sorelle, quale è la risposta corretta? L’autoindulgenza di chi non ha voglia di preoccuparsi per i problemi altrui? L'egoismo di chi crede di essere diverso dagli altri? La passività di chi pensa di aver già fatto qualcosa e che ora tocca ad altri? Oppure l’atteggiamento di chi si lascia interpellare da Dio e accetta di collaborare con Lui nella costruzione di un mondo più giusto e più fraterno?

Paolo di Tarso (1 Cor 10,1-6.10-12) nella seconda lettura ci avverte che non è importante il compimento di riti esteriori e vuoti ma ciò che conta è la vera adesione a Dio, la disponibilità ad accogliere la sua proposta di salvezza e a vivere con Lui in intima comunione.

Il Vangelo (Lc 13,1-9) contiene un invito a una trasformazione radicale dell'esistenza, a un cambiamento di mentalità, a una nuova orientazione della vita affinché Dio e i suoi valori diventino la nostra priorità fondamentale. Se ciò non avviene, dice Gesù, la nostra vita sarà sempre più dominata dall'egoismo che porta alla morte.

Il testo presenta due parti distinte, benché accomunate dal tema della conversione. Nella prima parte (cfr Lc 13,1-5), Gesù cita due esempi storici che però non conosciamo esattamente. Nonostante ciò, la conclusione che Gesù trae da questi due casi è abbastanza chiara: coloro che morirono in questi disastri non furono peggiori di coloro che sopravvissero. In questo modo confuta la dottrina ebraica della retribuzione secondo la quale, chiunque fosse colpito da una disgrazia, lo era perché colpevole di qualche peccato grave. L'ultima frase del versetto 5 (“se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”) va inteso come un invito a cambiare vita; se ciò non avviene, vincerà l’egoismo che porta alla morte.

Nella seconda parte (cfr Lc 13,6-9), abbiamo la parabola del fico. Serve a illustrare le opportunità che Dio concede per la conversione. Dio rivela la sua gentilezza e la sua pazienza ma non è disposto ad aspettare indefinitamente se scopre nel suo popolo il rifiuto della salvezza. Nonostante il tono minaccioso, c'è una nota di speranza sullo sfondo di questa parabola: Gesù confida che la risposta finale di Israele alla sua missione sarà positiva.

La principale proposta che Gesù presenta in questo episodio si chiama “conversione” (“metanoia”). Non si tratta di una penitenza esteriore o di un semplice pentimento; invece è un invito a un cambio radicale e totale della vita, della mentalità, degli atteggiamenti, per fare in modo che Dio e i suoi valori vengano al primo posto. Questo è il cammino che siamo chiamati a percorrere in questo tempo, per rinascere, con Gesù, alla vita nuova dell'Uomo Nuovo. Nello specifico, come dovrebbe cambiare la mia mentalità? Quali sono i valori a cui do priorità e che mi tengono lontano da Dio e dalle sue proposte?

Fratelli e sorelle, “Il Signore è misericordioso e pieno di compassione!” Ecco, gustate e vedete...

* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.

Gen 15,5-12.17-18; Sal 26; Fil 3,17- 4,1; Lc 9,28-36

Le letture di questa domenica hanno come tema principale la fede. Essendo Quaresima siamo invitati a rivitalizzare la nostra fede, ad affidarci ad occhi chiusi a Dio e alle sue proposte. Può darsi che, alla luce della logica umana, le strade che Dio ci indica sembrino strane e illogiche; ma indubbiamente conducono alla vita vera ed eterna.

La prima lettura (Gen 15,5-12.17-18) ci presenta Abramo, modello del credente. Aveva piena fiducia in Dio, anche quando le promesse di Dio sembravano non plausibili; e non rimase deluso. Con Abramo siamo invitati a “credere”, cioè a vivere in un atteggiamento di fiducia totale, di accoglienza radicale, di abbandono totale ai disegni di questo Dio che non fallisce mai ed è sempre fedele alle sue promesse. Siamo sempre disposti –anche nelle situazioni che non comprendiamo o che contraddicono la nostra logica e le nostre idee già pronte– a metterci nelle mani di Dio, fidandoci dei suoi disegni e aderendo alle sue proposte?

L'apostolo Paolo nella seconda lettura (Fil 3,17–4,1) chiede ai cristiani della città di Filippi di non limitarsi a un'esperienza religiosa fatta di pratiche esteriori e di gesti vuoti. I veri credenti sono coloro che vivono con lo sguardo rivolto al Signore Gesù, Colui che “trasformerà il nostro misero corpo per renderlo simile al suo corpo glorioso”. I filippesi e i cristiani di ogni tempo e luogo devono camminare verso di Lui senza esitazione, saldi nella fede e guidati dalla Buona Notizia della salvezza. In questo tempo quaresimale, ad esempio, a cosa diamo più importanza: ai “digiuni” e alle “astinenze” previsti dalla Chiesa, oppure alla conversione?

Gesù nel vangelo di oggi (Lc 9,28-36) chiede ai suoi discepoli di fidarsi di Lui e di osare seguirlo nel cammino verso Gerusalemme. Questo cammino, pur passando per la croce, conduce alla risurrezione, alla vita nuova ed eterna. Ai discepoli spaventati, Dio conferma la verità della proposta di Gesù: “Questi è mio Figlio, il mio Eletto. AscoltateLo”. È una proposta che anche noi siamo invitati ad abbracciare.

Luca, in linea con quanto già aveva fatto Marco (cfr Mc 9,2-10), ha preso elementi simbolici tratti dall'Antico Testamento: il monte, il cambiamento dell'aspetto del volto e della veste, Mosè ed Elia, il sonno dei discepoli, le tende, il timore, la nube, la voce che viene dalla nube e la gloria. Con essi ha costruito la sua catechesi. In essa Gesù è presentato innanzitutto come il Figlio, l'Eletto, nel quale si manifesta la gloria del Padre. Gesù è il Figlio di Dio, inviato agli uomini per proporre la vera vita. Tutto ciò che Egli dice e propone è conforme al disegno salvifico di Dio. I discepoli devono ascoltarlo, prendere sul serio le sue indicazioni, anche quando propone un cammino di dono della vita fino alle sue ultime conseguenze (cfr Lc 9,23-25).

Gesù è anche, secondo questa catechesi, il Messia liberatore e salvatore atteso da Israele, annunciato dalla Legge (Mosè) e dai Profeti (Elia). È venuto per realizzare le promesse che, lungo la storia della salvezza, Dio ha fatto al suo Popolo.

Luca conclude il suo racconto dicendo che i discepoli «tacevano» e che in quei giorni non raccontavano a nessuno quello che avevano visto su quel monte (9,36). È probabile che solo più tardi, dopo la risurrezione di Gesù, sia diventato chiaro ai discepoli ciò che avevano sperimentato sul monte della trasfigurazione. Ma, fin da ora, quel “momento” con Gesù costituisce per i discepoli un’iniezione di speranza. Ha dato loro il coraggio di cui avevano bisogno per seguire Gesù sulla strada verso Gerusalemme.

In questa seconda domenica di Quaresima facciamo anche noi l’esperienza di salire sul monte con Gesù… Mentre saliamo possiamo parlare con Lui e, in tutta sincerità, raccontargli i nostri dubbi e le nostre preoccupazioni. Possiamo dirgli che a volte ci sentiamo persi e scoraggiati da come è costruito il nostro mondo; possiamo dirgli che la strada che Egli indica è dura ed impegnativa e che non sappiamo se avremo il coraggio di percorrerla fino in fondo; possiamo anche dirgli, magari con un po’ di vergogna, che a volte dubitiamo di Lui e rincorriamo altri progetti: più comodi, più attraenti e meno rischiosi... E, dopo avergli detto tutto questo, lasciamo che Gesù ci parli, ci spieghi il suo progetto, ci rinnovi la sua sfida... E prestiamo attenzione anche alla voce di Dio che ci assicura: «guardate, questo Gesù che vi ho mandato incontro è mio Figlio, l’eletto, colui al quale ho dato il progetto di un mondo più umano e fraterno... Ascoltatelo!».

* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.

Dt 26,4-10; Sal 90; Rm 10,8-13; Lc 4,1-13

La Quaresima è un tempo privilegiato per effettuare il nostro pellegrinaggio interiore verso Colui che è la sorgente della misericordia che, nel deserto delle nostre povertà, ci sostiene nel cammino verso la gioia immensa della Pasqua. Anche nella “valle oscura” di cui parla il Salmista (Sal 23,4), mentre il tentatore ci spinge a disperarci e a riporre una speranza illusoria nell’opera delle nostre mani, Dio non ci abbandona, ma ci custodisce e ci sostiene appassionatamente.

Le letture odierne invitano a rivedere le nostre certezze, il nostro modo di pensare e di agire. Perché la Quaresima è il tempo opportuno per la “metanoia”, in vista del rinnovamento della nostra vita. Sta a ciascuno di noi approfittare di questo tempo per riavvicinarci al Signore che è la fonte della vera vita e evitando di seguire altre proposte apparentemente affascinanti ma vuote.

La prima lettura (Dt 26,4-10) riporta una “confessione di fede” che gli Israeliti fecero quando presentarono a Dio le primizie della terra. Riconoscendo l'azione salvifica e liberatrice di Dio nella loro vita, il popolo di Israele afferma la propria fede e incrollabile fiducia nella potenza e nell'amore di Dio. Ciascuno si rendeva così conto che tutto ciò era e tutto quello che possedeva era dono gratuito della generosità e della sollecitudine premurosa del Signore che è la fonte della vita in abbondanza. In Quaresima è opportuno chiederci: che posto ha Dio nella mia vita? Puoi identificare gli “dei” in cui riponi la tua fiducia e trovare il modo di liberartene?

Paolo ricorda ai Romani che la salvezza ci è donata per mezzo di Gesù Cristo (Rom 10,8-13). Chi crede in Gesù è chiamato ad abbracciare il suo stile di vita e così sarà salvato e diventerà membro di una “nuova” famiglia dove “non c'è differenza tra ebrei e greci”. Chiediamoci allora: ci sentiamo una famiglia nata da un “sì” a Gesù, che testimonia la comunione e la fraternità? Nella nostra comunità cristiana c'è spazio per tutti, valorizzando le “differenze”, come un dono che arricchisce la fraternità?

Il vangelo di oggi (Lc 4,1-13), ci presenta le tentazioni di Gesù nel deserto che, di fatto, mostrano i capisaldi del suo ministero. Il tempo trascorso nel deserto, è stato certamente per Gesù un tempo di prova e di purificazione per comprendere bene lo stile che avrebbe assunto durante la sua vita.

Le tentazioni avvengono in diversi passaggi con i quali il “diavolo” incalza il Signore per costringerlo a scegliere.

Prima di tutto Gesù è sfidato sui beni materiali, gli viene chiesto di usare la sua condizione divina per soddisfare i suoi bisogni più elementari: «se tu sei Figlio di Dio, dì a questa pietra di diventare pane» (v. 3). Segue poi l’invito rivolto a Gesù di intraprendere la strada del potere, del dominio e dell’arroganza come fanno i grandi della terra (vv. 5-7). I due contendenti si spostano sul “culmine del tempio” di Gerusalemme, nell'angolo sud-ovest dell'edificio, dove i visitatori del santuario potevano godere di una magnifica vista sulla valle del Cedron (v. 9), al Signore gli viene chiesto di buttarsi e lasciare che vengano gli angeli a salvarlo. Gesù chiude il dramma delle tentazioni ammonendo il diavolo come sta scritto “non tenterai il Signore Dio tuo” (v. 12).

In questo modo Gesù fin dall’inizio ha chiaro la strada che sarà chiamato a seguire per annunciare la venuta del Regno in parole e opere: niente accumulo di beni, nemmeno dominio sulle persone, né utilizzare la potenza di Dio per un tornaconto personale. Al contrario Gesù si mette al servizio del progetto di Dio, facendo solamente la volontà del Padre che lo ha inviato.

Alla luce dell’esempio integerrimo di Gesù, anche noi lungo il percorso quaresimale, siamo chiamati a verificare, con lucidità e senso di responsabilità, le nostre opzioni, le nostre priorità, i nostri valori, il senso della nostra vita.

Auguri di una santa e feconda Quaresima!

* Padre Geoffrey Boriga, IMC, studia Bibbia nel Pontificio Istituto Biblico a Roma.

Sir 27,5-8; Sal 91;1Cor 15,54-58; Lc 6,39-45

Per il cristianesimo la morale non è autonoma, non si auto giustifica, ma trova il suo fondamento nella risposta al Vangelo. Gesù, riprendendo il linguaggio sapienziale dell’Antico Testamento, si presenta come un maestro che comunica non solo con parole ma anche con il cuore perché la sua bocca esprime ciò che dal suo cuore sovrabbonda, come è ben evidenziato sia nel Siracide, sia nel Vangelo. In tale senso, siamo invitati a seguire questo maestro saggio e sapiente e non un maestro cieco e stolto.

La parola rivela i pensieri del cuore

Sia il brano dal libro del Siracide, sia la pagina del Vangelo affermano, in comune, che l’essere umano si riconosce da come parla, perché “la parola rivela i pensieri del cuore” oppure “la bocca esprime ciò che dal cuore sovrabbonda”. Sono al centro della riflessione non solo la parola ma il cuore, dove la parola, un mezzo privilegiato di comunione e di comunicazione, svela ciò che si trova nel cuore. L’essere umano coi suoi discorsi, dall’ uso che fa delle sue parole, dal modo di ragionare comunica “all’altro” che cosa ha nel cuore: “così il modo di ragionare è il banco di prova per un uomo” oppure “il frutto dimostra come è coltivato l'albero”.

Dalle nostre parole possono uscire o verità o menzogne, la verità rivelerà la sincerità e la limpidezza del cuore, la menzogna rivelerà la cattiveria e la sporcizia del cuore dell’uomo. Dobbiamo dunque avere un cuore sincero e limpido per, attraverso le nostre parole, trasmettere, comunicare le cose buone. La comunità a cui apparteniamo ha bisogno dei buoni frutti che provengono dai nostri cuori.

Ad esempio, se siamo sempre pronti a criticare gli altri, vuole dire che il nostro cuore è cattivo, non sono gli altri cattivi, ma noi, che abbiamo sempre bisogno di criticare, di bestemmiare, se avessimo un cuore buono, troveremmo sempre il modo di scusare gli altri, d’incoraggiarli e di difenderli.

Come già detto, Gesù è il maestro sapiente che parla con parole sapienti e sagge e soprattutto con il cuore, noi suoi discepoli dobbiamo seguirlo, lasciarci guidare da Lui per essere come Lui.

Un discepolo ben preparato, sarà come il suo maestro

Il brano evangelico ci invita allo sforzo di prepararci ad essere come il maestro poiché “un discepolo… che sia ben preparato, sarà come il suo maestro”. Si tratta di essere come il maestro: il discepolo, nella fedeltà al maestro, deve poter ripetere le parole del maestro ed insegnare a sua volta. Il discepolo è colui che imita il Signore Gesù, il vero sapiente. Il Maestro insegna a noi, ancora oggi, attraverso le parabole, il modo come dobbiamo essere.

Per farci capire, Gesù usa la parabola del cieco che guida un altro cieco: “può forse un cieco guidare un altro cieco?”. Molti di noi si credono detentori della verità, camminano in mezzo agli altri con atteggiamento di superiorità; hanno la pretesa di sapere perfettamente ciò che dovrebbero fare e dire, vogliono allora essere guida agli altri, mentre loro stessi sono ciechi.

Dobbiamo invece andare incontro dell’altro con atteggiamento di apertura: ecco l’insegnamento della parabola della pagliuzza nell'occhio del fratello. Gesù chiede “Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?”. Se vogliamo essere guida degli altri, se vogliono insegnare agli altri, dobbiamo prima e anzitutto convertire noi stessi, togliendo la trave che c’è nel nostro occhio. Molte volte, siamo indulgenti con noi stessi ed esigenti con gli altri, invece, dovremmo essere esigenti con noi stessi e indulgenti con gli altri, il contrario nuoce molto alla vita di carità e crea tensioni, incomprensioni e conflitti nella comunità. Impariamo a fare osservazioni agli altri con umiltà.

Il discepolo missionario, come l’ha affermato Papa Francesco, è colui che ha la capacità di accusare sé stesso. Dunque, il «primo passo» è: «accusa te stesso». Per Papa Francesco quando a noi vengono i pensieri su altre persone, del tipo: «Ma guarda questo così, quello così, quello fa questo, e questo...». Proprio in quei momenti è opportuno domandare a se stessi: «E tu che fai? Cosa fai? Io cosa faccio? Io sono giusto? Io mi sento il giudice per togliere la pagliuzza dagli occhi degli altri e accusare gli altri?». Al discepolo missionario Papa Francesco suggerisce questo consiglio pratico: «Quando mi viene in mente di pensare ai difetti degli altri, fermarsi: “Ah, e io?”. Quando mi viene la voglia di dire agli altri i difetti degli altri, fermarsi: “E io?”».

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).

 

 

 

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