Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

La narrazione evangelica ci presenta due miracoli incastrati l’uno nell’altro a forma di “sandwich”: il racconto della resurrezione della figlia di Giairo viene intenzionalmente interrotto dalla narrazione della guarigione della donna emorroissa che, viene pienamente narrata e conclusa prima che la resurrezione della figlia di Giairo, sia ripresa e conclusa.

La frase di Gesù Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male” è cerniera tra un racconto e l’altro: ne conclude uno ed è fondamentale per quello che segue.

Figlia, la tua fede ti ha salvata

Quella che Gesù chiama “figlia” è una donna colpita da emorragia interna  continua da ormai dodici anni, ella perde il sangue, la vita e di conseguenza si tratta di una lenta agonia, della perdita inarrestabile ed irreversibile della vita stessa. Sia la malattia, sia gli anni rivelano la precarietà e debolezza radicata nel tempo della donna che, secondo la legge, era una donna impura che non era possibile toccare, né toccare ciò che lei toccava. Non solo  era una donna legalmente e socialmente isolata ed emarginata, ma addirittura, povera poiché aveva speso “tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi era andata piuttosto peggiorando”. Isolata dalle sue relazioni  e dai suoi averi mentre la  vita veniva meno.

L’Evangelista, però, sottolinea che è una donna di fede, anzi di grande fede, ha sentito parlare di Gesù e lo considera la sua ultima speranza. Oltrepassa tutte le barriere culturali, sociali e religiose solo per toccarlo: irrompe tra la folla massiccia di uomini e si avvicina a Gesù per raggiungerlo da dietro, in incognito e discretamente, per un solo e significativo gesto che neppure le sarebbe stato permesso: toccare. In alcuni miracoli è Gesù che tocca per guarire, ma qui succede il contrario. Si tratta di un toccare indiretto: non toccare Gesù, ma toccare solo  il mantello perché la povera donna pensa: “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata”. Si tratta di incontrare Gesù e toccarlo con fede.

È un toccare che è reciproco, come ha ben detto Delorme: “quel del toccare si distingue per la particolarità di essere reciproco. Quando tocco sono anche toccato da ciò che tocco”. La donna, nel toccare Gesù si è anche lasciata toccare da lui, non è dunque un semplice e superficiale toccare. Infatti, i discepoli si chiedono “tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: "Chi mi ha toccato?”. Per Gesù era un toccare particolare, precisamente quello della fede, che fa sprigionare la potenza di Cristo e che salva; non è un toccare della folla che semplicemente opprime, ma un toccare accompagnato da una grande fede.

Da questo “toccare” nasce il vero incontro tra Gesù e la donna. Quando Gesù fissa lo sguardo su di lei e quando lei, che si era precedentemente tirata indietro, avanza, si inginocchia per digli “tutta la verità”. Lei che era stata guarita, ora, dopo questo incontro vero con Cristo,  viene dichiarata salva per la fede. Lei che era stata svuotata dei suoi averi, che non aveva mai ottenuto la guarigione, anzi peggiorava, ha teso la sua mano vuota, senza soldi e riceve gratuitamente non solo la guarigione ma anche e soprattutto la salvezza e da qui che deve riiniziare la sua nuova vita con la pace: “va in pace” che implica, per la sua origine semitica, prosperità e salute.

Non temere, soltanto abbi fede

Giairo, aveva appena sentito dire da Gesù della donna emorroissa che la sua fede l’aveva salvata, quando vennero degli emissari da casa sua, non solo portandogli la triste e irreparabile notizia della morte della figlia ma anche con il tentativo di scoraggiarlo: non vale più la pena d’ importunare il maestro poiché la figlia  è morta, non c’è più alcuna possibilità. L’evangelista ci fa notare che la fanciulla aveva l’età di 12 anni, età in cui avrebbe dovuto prepararsi a diventare una donna.

Mentre per gli emissari tutto era finito, non c’era niente da sperare e nemmeno da fare davanti alla morte, per Gesù, invece, c’è speranza perciò chiede a Giairo di non avere  paura e di  continuare a credere. Davanti alla notizia della morte della figlia, Gesù rassicura il padre angosciato e chiede che mantenga ancora e solo la fede e non si lasci disturbare dalla notizia e dei messaggi di disperazione. L’evangelista non usa il verbo indicando un atto di fede puntuale e momentaneo, ma, invece, usa il tempo corrispondente a un imperativo continuativo, cioè, continua ad avere fede , dunque un “atteggiamento prolungato e abituale”: l’unica cosa che devi fare è continuare a credere.

Infatti, Giairo credeva che bastasse solo imporre le mani sulla sua figlia ed essa avrebbe riacquistato la salute e la vita. “La mia figlioletta sta morendo”, aveva detto e, di seguito, aveva chiesto, “vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”. Dunque deve continuare a credere. Anche alla bambina Gesù ha dato la vita toccandola: “Prese la mano della bambina e le disse: “Talità kum”, che significa: “Fanciulla, io ti dico: alzati”.

Il discepolo missionario, come la donna emorroissa, crede nonostante le barriere storico-sociali e religiose del nostro tempo e continua a credere, come Giairo, anche  dove sembra non esserci più speranza perché a Dio nulla è impossibile. Basta incontrare e lasciarsi incontrare da Gesù.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Gb 38, 1. 8-11; Sal 106; 2 Cor 5, 14-17; Mc 4, 35-41

L’esperienza dolorosa della sofferenza alquanto assurda e ingiustificata di Giobbe, gli fa porre alcune domande esistenziale a Dio: “dove sei durante il periodo dei drammi della mia esistenza? Perché mi hai messo al mondo per poi lasciarmi nella sofferenza e preda dei miei nemici? Perché il tuo silenzio e assenza durante il mio percorso nel mare della vita?”

Anche i discepoli, nel Vangelo, davanti alla grande tempesta del vento, chiedono a Gesù: “Maestro, non t'importa che siamo perduti?”.  Sia Giobbe, sia i discepoli sono però  invitati a “passare all’altra riva del mare” per assaporare la grandezza e l’onnipotenza di Dio e del suo figlio.

Giobbe invitato a passare all’altra riva del mare

Il potere divino sul mare e sulla tempesta che da esso proviene accomuna la prima Lettura e il Vangelo di questa domenica. La prima lettura ci presenta la risposta di Dio agli interrogativi di Giobbe sull’assenza e il silenzio di Dio. Dio parla direttamente a Giobbe, ponendogli una serie di domande. Giobbe si aspettava delle risposte alle sue domande ecco inaspettatamente  il Signore gli dice: “Ti farò delle domande e tu insegnami” (Gb 38:3).

Dopo aver posto delle domande sulla persona di Giobbe, ad esempio: “chi sei tu? Dove eri e che cosa sai tu?” ora gli pone una domanda sulla sua onnipotenza nei confronti delle forze della natura: “chi ha chiuso tra due porte il mare, quando erompeva uscendo dal seno materno. Poi gli ho fissato un limite e gli ho messo un chiavistello e porte e ho detto: ‘fin qui giungerai e non oltre, e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde’”.

Mentre le domande di Giobbe erano sul “perché”, quelle di Dio sono sul “chi”. Davanti a queste domande Giobbe non è in grado di rispondere e ammette: “Io sono troppo meschino, che ti potrei rispondere. Io mi metto una mano sulla bocca … Io riconosco che tu puoi tutto e che nulla può impedirti di eseguire un tuo disegno. Chi è colui che senza intelligenza offusca il tuo disegno? Sì, ne ho parlato ma non lo capivo, sono cose per me troppo meravigliose e io non le conosco. Ti prego, ascoltami, e io parlerò ti farò delle domande e tu insegnami! Il mio orecchio aveva sentito parlare di te ma ora l’occhio mio ti ha visto” (Gb 40:4; 42:2-4).

Solo Dio, con il suo potere e la sua maestà, poteva porre limiti al mare, dargli ordini e liberare gli uomini da queste forze incontrollate, dal caos che il mare racchiudeva. Giobbe è passato all’altra riva dove scopre la sua nudità, i suoi limiti, la sua piccolezza e allo stesso tempo, riconosce la grandezza e l’onnipotenza di Dio. Se tale è il caso, bisogna affidarsi a Lui. Giobbe è passato dal luogo “dove era sicuro di sé”, dov’era conosciuto, dove si considerava uomo giusto ed arriva ad una terra sconosciuta dove necessariamente deve  appoggiarsi a Dio.  Giobbe è stato invitato a percorrere il nuovo cammino della sua vita: un cammino di fede che parte dell’umiltà.

I discepoli invitati a passare all’altra riva del mare

I discepoli sono stati non solo osservatori, ma partecipi dell’attività missionaria del Maestro. Seguivano il Maestro. Dopo una giornata, dove Gesù ha illustrato alle folle lungo il mare il mistero del Regno di Dio in parabole, li invita a passare all’altra riva, alla zona della Decapoli, territorio pagano, considerato dagli ebrei completamente al di fuori delle vie della salvezza; Gesù vuole passare dalla terra santa di Israele, per andare verso una terra abitata dai pagani.

Qualcuno che ha letto la bozza mi ha detto, in riferimento all’invito di Gesù: “mi colpisce questo passare all’altra riva che richiede un cambio di prospettiva… quello che poi vedi dall’altra parte è diverso da come lo vedi da questa riva… Gesù chiede ai discepoli di allargare l’orizzonte, di aprirsi ad altre terre, a nuovi incontri. A volte fare questo è proprio come attraversare una tempesta: scompiglia tutte le tue sicurezze, fai fatica ad incontrare l’altro”.

Notiamo, prima di tutto, l’ambiente in cui Marco ci colloca: in mare, al tramonto (versetto 35). Situare la barca con Gesù e i discepoli ‘in mare’, è collocarli in un ambiente ostile, avverso, pericoloso, caotico, circondati dalle forze che lottano contro Dio e contro la felicità umana. D'altra parte, la ‘notte’ è il tempo dell'oscurità, appare come un elemento legato alla paura, allo scoraggiamento, alla mancanza di prospettive. Il “mare” e la “notte” definiscono una realtà difficoltosa, irta di ostilità, d’ incomprensione. È in questa situazione che arriva la tempesta: grande tempesta di vento e le onde si rovesciano nella barca

I discepoli si trovano in mezzo a tale tempesta, mentre Gesù dorme. L’angoscia e la paura innanzi a quella realtà ha reso impossibile ogni speranza. Ecco la reazione dei discepoli: “Maestro, non t'importa che siamo perduti?” come a dire “ma dove sei Signore? Perché ci lasci” Sono preoccupatissimi per ciò che entra nella barca, nella loro vita, da ciò che arriva come una tempesta. I discepoli si preoccupano più della forza dell’acqua che entra che della forza e la potenza di Gesù che è presente.

I discepoli Lo conoscevano come taumaturgo potentissimo, nessuna malattia resisteva ai suoi ordini, perciò, niente di male poteva loro succedere, ma la tempesta infuria contro la barca… e l’acqua comincia ad infiltrarsi pericolosamente e loro dubitano. Dubitarono perché hanno creduto piuttosto alla forza di ciò che entra che alla potenza della presenza del Maestro, il quale chiede loro "Perché avete paura? Non avete ancora fede?". Sembra che i discepoli conoscano Gesù e che abbiano fede invece no….

Volevano fare la traversata verso la zona pagana per evangelizzare senza la fede, ma Gesù fa fare loro questa esperienza per accrescere la fede: passiamo all’altra riva, attraversiamo per avere la fede, lasciamo qualcosa di certo per affrontare l'insicurezza della novità. “Passiamo all’altra riva”. Con la fede siamo capaci di passare ad altra riva.

Come afferma Papa Francesco, i discepoli missionari “devono decidersi a passare all’altra riva, scegliendo con coraggio di abbandonare le proprie sicurezze e di mettersi alla sequela del Signore. Questa avventura non è pacifica: arriva la notte, soffia il vento contrario, la barca è sballottata dalle onde, e la paura di non farcela e di non essere all’altezza della chiamata rischia di sovrastarli.”

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Ez 17,22-24; Sal 91; 2Cor 5,6-10, Mc 4,26-34

La fiducia, la speranza e il coraggio in Dio sono le parole tematiche che impregnano tutte le tre letture.

Mentre il popolo d’Israele si trovava in una situazione umiliante e d’ insopportabile sofferenza, in esilio, sotto il giogo babilonese, Dio si fece sentire, attraverso il profeta Ezechiele, con un rassicurante messaggio di speranza: “un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro… e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; e diventerà un cedro magnifico” e poi dirà “e innalzo l’albero basso, faccio germogliare l’albero secco. Io, il Signore, ho parlato e lo farò”.

Tale messaggio infuse fiducia e coraggio al popolo di Dio, così il popolo era venuto a sapere che Dio era capace di capovolgere la situazione: il ramoscello diventare un cedro magnifico, l’albero basso venire innalzato. Se tale è il caso siamo invitati dunque ad essere pieni di fiducia, come afferma Paolo, nella seconda lettura. Mentre Gesù, con le due parabole del Vangelo, quella del seme che cresce da solo e del minuscolo granello di senape che cresce fino ad avere rami molto grandi, ribadisce l’invito ad avere fiducia in Dio che è una forza vitale capace di capovolgere la situazione.

Il Regno di Dio è come il seme gettato nella terra

Per spiegare la bellezza e la grandezza del regno di Dio, Gesù usa il linguaggio della quotidianità di un contadino della Palestina del tempo. Da osservatore attento, Egli paragona il regno di Dio ad un seme gettato nella terra che germoglia e cresce silenzioso, da solo e senza intervento dell’uomo.

L’uomo, secondo Gesù, getta soltanto il seme, pertanto che egli dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce senza un intervento umano, l’uomo non sa neppure come faccia la pianta a crescere da sola. Egli non è preso da ansia, fretta, inquietudine e dalla preoccupazione di andare a scavare e vedere ancora il seme per avere la certezza che stia germinando anzi sa che se lo facesse, rischierebbe di fare seccar il seme.

Il contadino sa che il seme ha, in se stesso, un dinamismo, una forza vitale che lo fa germogliare e crescere gradualmente: dallo stelo, alla spiga, al frutto che verrà raccolto. Il dinamismo vitale ha la capacità di rendere il ramoscello, da secco che era, in un cedro “magnifico” che si impone con i suoi rami e i suoi abbondanti frutti tanto che gli uccelli vanno a riposarsi sotto di esso, come il caso del granello di senape. Se la crescita è affidata a questa forza segreta e infallibile, all’azione di Dio, non rimane che attendere con fiducia e speranza.

Qualcuno mi scrisse che colpisce, in questa parabola, “la lentezza dinamica che fa da sfondo. Mentre oggi siamo pieni di frenesia e questa ci consuma ... abbiamo dimenticato la lentezza dinamica della crescita di un albero, del crescere e del maturare del grano ... a volte ci sfugge anche la lentezza dinamica del crescere dei nostri figli ... dinamicità non è frenesia”. In tal caso, non occorre essere agitati, sempre di corsa, affannati come al giorno d’ oggi.

Il granello di senape, una pianta coltivata in Palestina che ha semi molto piccoli “come la punta di uno spillo”, è caratterizzata da estrema piccolezza, ma da grande dinamismo. Gesù fa osservare che quel seme di estrema piccolezza “quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra”. Dal poco e con il poco, inizia il regno di Dio che si svilupperà gradualmente raggiungendo la piena realizzazione: quello di essere “più grande di tutte le piante dell’orto” e di avere “rami così grandi da ospitare gli uccelli del cielo”.

Mentre all’uomo viene chiesto solo di gettare il seme, tutto il resto viene affidato a Dio da cui tutto dipende e compete: far crescere e fruttificare. Bisogna dunque fidarsi, gettarsi nella mani di Dio, bisogna avere fede in Dio, mettere Dio al centro di tutto. Tale atteggiamento è difficile se ci mettiamo noi al centro e tutto vogliamo controllare, convinti che tutto dipenda da noi. Il voler controllare costantemente crea un blocco alla forza creatrice e proprio quando noi abbassiamo la guardia lei è libera... con il controllo non creiamo.

L’uomo deve imparare a lasciare che Dio possa fare la sua parte, come dinamismo e forza vitale. È Lui che capovolge le situazioni. Nel contempo, la parabola ci fa pensare che il regno di Dio è un regno di collaborazione dove ognuno fa la sua parte. Ognuno può fare la sua parte solo quando gli altri hanno fatto la loro, questo è un regno di condivisione.

Queste parabole sono state raccontate nel contesto del regno di Dio, il quale richiede fede, speranza, fiducia in Dio. La sua crescita non dipende da noi ma dalla sua forza, la forza dello Spirito Santo.

Un vero discepolo missionario vive nella fede e nella fiducia; egli è paziente e, come afferma Papa Francesco, lascia perdere l’ansia, la fobia di tenere tutto sotto controllo, il voler programmare e capire tutto.

“Egli prende sul serio la fede in Cristo e vive di fede, immerso in un cammino di perfezione nell’amore, che giunto al termine del suo sviluppo, diventato albero, costituisce un esempio per gli altri, un sostegno, una protezione, un punto di riferimento, un refrigerio dalle fatiche della vita quotidiana”.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Gn.3,9-15; Sal.129; 2Cor.4,13-18.5,1; Mc. 3,20-35

Gesù ha commesso un’autentica follia. Di fronte al rifiuto da parte di Israele che addirittura ha deciso di assassinarlo Gesù rompe e istituisce dodici discepoli, dodici come le tribù che componevano Israele. Gesù compone il nuovo Israele.

Di fronte a questa clamorosa rottura di Gesù con l’istituzione religiosa ecco la reazione della famiglia e dell’istituzione. Scrive l’evangelista Marco al capitolo 3, versetti 20-35, che I suoi sentito questo, cioè sentita questa rottura di Gesù con l’istituzione, escono per andare a prenderlo, letteralmente catturarlo, è lo stesso verbo della cattura di Giovanni Battista e di Gesù, poiché dicevano è fuori di sé, cioè è pazzo perché poteva essere soltanto una pazzia.

L’evangelista per giustificare questa accusa di pazzia inserisce anche l’accusa da parte degli scribi che sono scesi niente meno da Gerusalemme, la sede dell’istituzione religiosa, gli scribi sono i massimi responsabili del sinedrio, che sentenziano costui è posseduto da Beelzebùl.

Chi è Beelzebùl? C’era una divinità filistea chiamata Beelzebub che era il dio delle mosche e i farisei, per impedire il culto verso questa divinità, c’era anche un re, il re Acazia che era andato a perpetrare la guarigione, l’avevano trasformato in Ba al zĕbūl, cioè il dio del letame, non solo non protegge dalle mosche, ma le attira. L’accusa che fanno gli scribi è sottile: attenti a Gesù, non possono negare che Gesù non guarisca le persone, ma le guarisce per infettarle ancora di più.

Allora Gesù li convoca e dimostra l’inconsistenza del loro discorso dicendo come può Satana scacciare se stesso? Se Satana scaccia se stesso è finito. E poi, ecco la sentenza molto dura in verità, quindi quello che Gesù afferma è sicuro, tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche le bestemmie che diranno. I peccati frutto di ignoranza, di fragilità saranno perdonati, ma, dichiara Gesù, ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna.

E poi Gesù continua Poiché dicevano è posseduto da uno spirito immondo, ecco il motivo. Cos’è questo peccato contro lo Spirito Santo? È quello che già il profeta Isaia aveva dichiarato, sono coloro che chiamano bene il male e male il bene. Cioè questi scribi capiscono, loro lo sanno, è gente colta, gente che conosce la Bibbia. Sanno che se Gesù agisce così lo fa per la forza che gli viene da Dio, ma non possono ammetterlo perché se lo ammettono crolla tutto il loro prestigio e il loro dominio che c’hanno sulla gente. Allora diffamano Gesù. Allora dicono che quello che è bene, l’attività che Gesù sta facendo, è male per mantenere il proprio prestigio. Ma perché non saranno mai perdonati? Perché mai chiederanno perdono. Quando Gesù ha perdonato il paralitico gli stessi scribi hanno sentenziato: bestemmia, cioè è reo di morte.

In questo frangente scrive l’evangelista giunsero sua madre e i suoi fratelli, quindi tutto il clan familiare e stando fuori, stando fuori significa che non hanno compreso l’insegnamento di Gesù, ritenendo di avere un potere su di lui lo mandano a chiamare. Ma, sottolinea l’ evangelista, c’è un impedimento. Tutto attorno a Gesù era seduta la folla, e il termine che adopera Marco indica una folla mista di persone impure, di persone pagane e gli dissero: ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano, il verbo cercare nel vangelo di Marco ha sempre una connotazione negativa nei confronti di Gesù.

Ed ecco la risposta tremenda, terribile da parte di Gesù Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Cioè quelli là fuori? Quelli che si vergognano di me, del pazzo di casa? E girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, quindi non vede né la madre, né i fratelli che sono rimasti fuori, Gesù afferma ecco mia madre e i miei fratelli.

E poi l’invito, l’invito rivolto al suo clan familiare, in particolare alla madre e ai fratelli chi compie la volontà di Dio costui è mio fratello, sorella e madre. A Nazareth il clan familiare di Gesù è vittima dell’insegnamento degli scribi, pensano veramente non solo che Gesù sia matto, ma che sia un posseduto. Gesù vuole arrivare a far comprendere che i veri posseduti sono i rappresentanti dell’istituzione religiosa che, per non perdere il proprio prestigio, dicono che l’azione di Gesù è negativa e fa male.

* Padre Alberto Maggi, OSM, Centro Studi Biblici G. Vannucci, a Montefano (Mc).

Es 24,3-8; Sal 115; Eb 9,11-15; Mc 14,12-16.22-26

Una nuova ed eterna Alleanza

Vorrei prendere il concetto dell’Alleanza come il concetto chiave che ci permette di riflettere sulle letture della Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo.

L’autore della Lettera agli Ebrei, infatti, partendo dalla passione e morte di Cristo – sacrificio di Cristo -, considerate come offerta incondizionate di se stesso per la salvezza dell’umanità, chiama Cristo come mediatore della nuova ed eterna Alleanza. Infatti, Cristo dirà “questo è il mio sangue dell'alleanza”. La novità di questa Alleanza sancita con il sangue di Cristo, come sottolinea la Lettera agli Ebrei, è in contrapposizione all’antica Alleanza, come letta nel libro dell’Esodo: mentre nella Nuova Alleanza Gesù consegna volontariamente se stesso, nell’Antica si offrivano in olocausto gli animali. Il segno della nuova Alleanza è il corpo e il sangue di Cristo, il quale ci invita a prenderne per mangiare e bere.

Prendete: questo è il mio corpo e questo è il sangue dell’Eterna Alleanza

La consapevolezza dell’importanza di quella Pasqua, l'ultima per Gesù, spinge i discepoli a celebrarla in modo ineccepibile, anticipando una desiderata ed accurata preparazione. “Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?”, chiesero i discepoli a Gesù.  Per Lui, c’era una stanza pronta: una grande sala al piano superiore, già arredata e pronta. Lì avrebbero preparato la cena per tutti loro. È in questa sala che Gesù, durante la cena, dirà: “prendete questo è il mio corpo” e “questo è il mio sangue dell'eterna alleanza”.

Al piano terra, forse si trovava la sala di soggiorno, sala dello svago sempre fremente dell’agitazione che la vita quotidiana porta con sé. Gesù sceglie la sala al piano superiore per allontanarsi dalla distrazione e dall’agitazione giornaliera e mondana. Gesù preferisce che tutto avvenga in un luogo intimo, facendo riferimento alla sala interna ed intima degli uomini: il cuore che è il luogo più intimo dell’essere umano, il luogo dove Dio deve compiere la sua Alleanza con gli uomini, come ben profetizzò Geremia: “porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” (Ger 31,33). La nuova Alleanza, in Cristo, è scritta nel cuore. Dobbiamo dunque allontanare il cuore dall’agitazione della vita quotidiana per entrare nell’intimità dell’incontro con Cristo e far risuonare quel comando di Gesù: “prendete questo è il mio corpo” e “questo è il mio sangue dell'eterna alleanza”.

Pendere è il primo gesto di Gesù, in quell’ultima cena

Egli prese il pane e il calice e lo presentò ai discepoli, accompagnato dall’imperativo: “prendete”. Prendete e cioè tendete la mano, apritela e riceverete in dono questo pane, nel riceverlo come dono, siete in comunione con me. Questo verbo vuole sottolineare che quel pane preso viene donato diventando così segno dell’amore e del dono di sé. A noi viene chiesto soltanto di prendere, un gesto alquanto passivo, poiché è Cristo che dà e si dà, è Lui che si fa presente.
In questo verbo “prendere”  si intravede tutto il bisogno di Cristo di entrare in una comunione senza ostacoli, senza paure, senza secondi fini: è un dono, prendetelo pure.

Si tratta di prendere il suo corpo – soma in greco - che significa la persona intera con la sua attività, storia e vita. Gesù chiede ai discepoli di prendere non solo quel “pezzo di pane”, ma la sua vita, la sua storia, il suo modo di vivere, il suo progetto di vita e tutto quanto la sua vita ha mostrato: l’amore, dunque Gesù invita i suoi ad essere come lui nella vita. “Prendete questo è il mio corpo, segno del mio amore per l’umanità”.

E il sangue suo sarà versato per la moltitudine

Si ricordi che Gesù, a Giacomo e Giovanni, che gli chiesero di sedersi uno a destra e l’altro a sinistra, chiese loro: “potete bere il calice che io sto per bere, o ricevere l’immersione nella quale io devo essere immerso?” (Mc 10,38). Bere il calice è essere partecipi del Suo Regno caratterizzato dall’amore e servizio all’altro; cioè, essere disposti a dare la propria vita per amore a Dio e dedicarci a servire i nostri fratelli, con lo stesso atteggiamento misericordioso che ebbe Gesù. Bisogna sottolineare che l'evangelista non dice che i discepoli mangi(a)no il pane, mentre sottolinea che beva(o)no il calice. Questo significa che non si può condividere il destino di una persona, nel caso di Gesù, se non si è disposti a dare se stessi agli altri.

La nuova ed eterna alleanza è l’amore, è scritta nei nostri cuori e viene simbolizzata dal pane e dal vino, corpo e sangue di Cristo. Dobbiamo sempre predisporci a prenderne, per nutrirci spiritualmente, per poter essere capaci di divenire pane spezzato per il bene dell’umanità, per essere in comunione con Dio e con i fratelli.

Il discepolo missionario è consapevole che l’Eucaristia, come ha giustamente sottolineato Papa Francesco, “ci permette di non disgregarci, perché è vincolo di comunione, è compimento dell’Alleanza, segno vivente dell’amore di Cristo che si è umiliato e annientato perché noi rimanessimo uniti. Partecipando all’Eucaristia e nutrendoci di essa, noi siamo inseriti in un cammino che non ammette divisioni. Il Cristo presente in mezzo a noi, nel segno del pane e del vino, esige che la forza dell’amore superi ogni lacerazione, e al tempo stesso che diventi comunione anche con il più povero, sostegno per il debole, attenzione fraterna a quanti fanno fatica a sostenere il peso della vita quotidiana, e sono in pericolo di perdere la fede”.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

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