Sap 7, 7-11; Sal 89; Eb 4, 12-13; Mc 10,17-30

Scegliere è il verbo che ci serve da filo conduttore per seguire la liturgia della 28ª domenica del Tempo Comune. Infatti, le tre letture ci invitano a riflettere sulle scelte che facciamo, mentre la prima  ci invita a scegliere lo spirito della sapienza: ricchezza inestimabile e incalcolabile, Gesù, nel Vangelo, propone come scelta il cammino dell’amore e della solidarietà che è un cammino del Regno.

La Lettera agli Ebrei propone la scelta della Parola di Dio che ci aiuta a discernere i sentimenti e i pensieri del cuore.

Vendere tutto per scegliere la sapienza

Questa lettura fa parte del lungo discorso dedicato all’ “elogio della Sapienza” nel libro della Sapienza (cap. 6-8) e ci insegna come la Sapienza sia oggetto di preghiera, di ricerca e di scelta. Per Salomone, la “Sapienza di Dio” è il valore più apprezzato tra tutti, molto superiore al potere, alla ricchezza, alla salute, alla bellezza e a tutti i beni materiali. Perciò egli usa dei verbi che rendono conto che davvero la Sapienza ha, per lui, un valore inestimabile: egli l’ha pregata e implorata da Dio, l’ha amata e preferita “a scettri e a troni”, l’ha stimata più della ricchezza che per lui è un nulla che non si può paragonare neppure a una gemma di inestimabile valore.

Quanto sarebbe bello che anche noi potessimo preferire, stimare ed amare la Sapienza! Tutti questi verbi dimostrano che Salomone ha fatto davvero una scelta per la Sapienza che è la “luce” che indica i percorsi e permette di discernere le opzioni, le scelte corrette da intraprendere.

A differenza dei beni terreni, lo splendore della Sapienza non tramonta: è un valore duraturo, che viene da Dio e che conduce l'uomo all'incontro della vera vita, della felicità perenne. Come si dice, anche per Salomone, ciò che risplende non è sempre oro. Come vedremo nel Vangelo, la vera Sapienza ci insegna che è necessario rinunciare a certi valori deperibili per acquisire quelli della vita vera ed eterna.

Ecco perché Salomone ha venduto scettri, troni, ricchezza, gemma inestimabile, argento per acquisire e guadagnare la Sapienza ovvero l’amore; la vera Sapienza è la Parola di Dio, è il Verbo incarnato, che si fece uno di noi e che, per amore, per la salvezza dell’umanità scelse la croce. Ecco perché Gesù, nel Vangelo, dirà al giovane ricco di vendere tutto per acquisire l’amore e vivere dell’amore.

Dà ai poveri e avrai un tesoro in cielo

Il brano evangelico è composto da due parti. Nella prima l’evangelista, in forma di dialogo, racconta l’incontro tra Gesù e l'uomo ricco che gli chiede come ottenere, in eredità, la vita eterna cioè la salvezza, profonda e insopprimibile esigenza di quasi tutti gli esseri umani. Nella seconda parte, invece, ispirandosi dalla conclusione della prima, Gesù dialoga con i suoi discepoli che avevano fatto la scelta di abbandonare tutto e di seguirLo… cioè di sceglierLo.

Nella prima parte, davanti alla richiesta del giovane ricco sul come fare per avere in eredità la vita eterna, Gesù risponde: “Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”. In un secondo momento, dopo che il giovane si è mostrato un vero osservatore dei comandamenti, Gesù va oltre la pura osservanza dei comandamenti e propone che venga fatta una scelta inconsueta e sfidante: “va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi”. Se davanti alla prima proposta, quella abituale e tradizionale – osservanza dei comandamenti - il giovane ne era uscito felicissimo perché grande osservante della legge, dei precetti: “tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”; nella seconda proposta, invece, abbiamo un finale piuttosto amaro.

Davanti alla proposta di rinunciare a tutto, distribuire ai poveri le ricchezze e seguire Gesù, il giovane rimane triste e si vede un uomo fallito. Infatti, l’evangelista conclude che egli “fattosi scuro in volto se ne andò rattristato”.  L’uomo se ne va triste, perché la proposta di Gesù è al di là delle sue aspettative. Dall’aspettativa dell’osservanza all’aspettativa della solidarietà con i poveri e della sequela. Il giovane se ne va triste, perché incapace di fare una scelta radicale: vendere tutto, distribuire ai poveri e seguire il Maestro. Tale scelta esige di riconoscere a Cristo il valore-primato, a cui le cose, i beni, le ricchezze vanno sottomesse. Bisogna, come dicevamo nella prima Lettura, stimare, preferire ed amare Gesù e la sua vita.

Infatti, come tanti cristiani, il nostro giovane ricco si è mostrato un credente religiosamente impegnato, sincero, onesto senza segno di orgoglio e di autosufficienza ma con una avidità, una inquietudine sincera verso una ricerca del vero cammino per avere in eredità la vita eterna. È dalla sua giovane età che egli è un vero osservatore: ho osservato tutte queste cose, quindi, ho diritto alla ricompensa che mi viene da Dio.

Gesù che non si accontenta della pura e genuina osservanza dei comandamenti va oltre all’osservanza e decide di invitare il nostro giovane osservatore a salire ad un altro livello in questo cammino verso la vita eterna: invitandolo a unirsi alla comunità dei discepoli. Si tratta di vendere tutto, non per immagazzinare dei soldi da lasciare in banca, ma per distribuirli, non ai famigliari e amici, ma ai poveri e, in conclusione, seguire il Maestro nel cammino di amore, di solidarietà con i poveri. Questa è la fase della perfezione evangelica, o la condizione di chi è discepolo di Gesù: lasciare tutto e seguirLo e far diventare la vita una vera e genuina carità, uno strumento di amore e di solidarietà.

Il discepolo missionario è, secondo Papa Francesco, chiamato a passare dai precetti osservati per ottenere ricompense all’amore gratuito e totale. Al discepolo missionario “Gesù chiede di lasciare quello che appesantisce il cuore e ostacola l’amore. Quello che Gesù propone non è tanto un uomo spoglio di tutto, quanto un uomo libero e ricco di relazioni. Se il cuore è affollato di beni, il Signore e il prossimo diventano soltanto cose tra le altre. Il nostro troppo avere e troppo volere ci soffocano il cuore e ci rendono infelici e incapaci di amare”.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Gen 2,18-24; Sal 127; Eb 2,9-11; Mc 10,2-16

Al centro della Parola di Dio sta il grande progetto primordiale di Dio sull’uomo e la donna, iscritto sin dall’inizio della creazione: che l’uomo e la donna vivano un rapporto di armonia – comunità di amore - il quale trova la sua concretizzazione nell’unione coniugale ossia il matrimonio:

Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un'unica carne”, dove il verbo lasciare è orientato al verbo unirsi, allearsi, cioè mettersi insieme per essere “un’unica carne”. Perciò, Gesù conclude: “l'uomo non divida quello che Dio ha congiunto”.

Lascerà suo padre e sua madre

L’ideale per Dio, sin dall’inizio, dopo avere creato l’uomo, era quello di creare per lui “un aiuto che gli corrispondesse”. Infatti, intorno all’uomo era stato creato il mondo animale, però egli non ha trovato in esso l'aiuto e il complemento che si aspettava. Affinché l'uomo possa realizzarsi completamente, Dio interverrà di nuovo, creando la donna come “aiuto che gli corrisponda”. Infatti, l’uomo riconosce questa nuova creatura come una parte di sé, “osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne”.

Con queste parole l’uomo afferma non solo la parentela con la donna, ma con il pronome possessivo esprime il senso dell’appartenenza. Esiste dunque un legame molto forte tra l’uomo e la donna. Tra di loro non c’è la estraneità ma la parentela perché sono stati creati della stessa sostanza: umanità. La donna è creata dalle costole dell’uomo.

L’uomo già dall’inizio scopre nella donna un rispecchiamento, una reciprocità senza la quale non può vivere; trova in essa una corrispondenza in modo da vivere la parità tra i due. Ecco perché il Signore ha detto “voglio fargli un aiuto che gli corrisponda”. L’aiuto di cui si parla non è uno strumento oppure un elemento subordinato, ma un completamento. Perciò l’uomo è chiamato a vivere un rapporto di comunione, di unione e di armonia, dove si esclude l’atteggiamento di dominio.

È in vista di questa comunione, unione ed armonia, che ambedue lasceranno “padre e madre”. Per vivere questa nuova esperienza della relazione tra l’uomo e la donna, essi sono chiamati a fare una esperienza della rinuncia: lasciare la loro relazione iniziale, con il padre e madre. Sono chiamati a sapere rompere il cordone ombelicale; a sapere rinnegare i legami iniziali. L’esperienza del “lasciare” è molto cara nella Bibbia: Dio chiama sempre a lasciare e a partire. Lasciare la propria terra, la propria gente, la propria comodità per andare a vivere una Alleanza nuova. Pertanto, “nell'esperienza matrimoniale, cioè all'atto del lasciare per partire, è unito indissolubilmente quello dell'allearsi, del mettersi insieme per realizzare un progetto comune”.

Così l’uomo e la donna sono chiamati a lasciare i genitori per entrare nella nuova Alleanza, dove i due saranno un’unica carne. Dio che li ha fatti di una sola sostanza, di una sola carne, vuole che l’uomo e la donna cerchino continuamente questa unità, comunione, relazione e amore perché sono destinati a vivere in comunione gli uni con gli altri. Perciò Gesù dirà “l'uomo non divida quello che Dio ha congiunto”.

L'uomo non divida quello che Dio ha congiunto

Dopo che Gesù ha riproposto il progetto primordiale che Dio ha, sin dall’inizio della creazione, che maschio e femmina, non sono più due, ma una sola carne, ora ne conclude “non separi dunque l’uomo quello che Dio ha congiunto”. Dio che è amore, sa anche unire e chiama all’unione; chiama a lasciare per partire e formare una carne sola. Dio vuole fare dell’amore sponsale l’immagine più bella dell’Amore di Dio; lasciare tutto per essere una carne sola; vivere la fedeltà per aprirsi al sempre, all’eternità. Nel piano di Dio non c’era la separazione e la divisione, ma l’unione.

Davanti alla situazione delle divisioni e separazioni, Gesù ripropone il progetto iniziale, l’ideale massimo, che è quello dell’unione e della comunione; una comunione che non toglie identità personale, ma riesce a unire due identità, maschio e femmina, in modo così profondo da essere una carne.

Come afferma Papa Francesco, il discepolo missionario è consapevole che nulla rende felice il cuore dell’uomo come un cuore che gli assomiglia, che gli corrisponde, che lo ama e che lo toglie dalla solitudine e dal sentirsi solo. Perché Dio non ha creato l’essere umano per vivere in tristezza o per stare solo, ma per la felicità, per condividere il suo cammino con un’altra persona che gli sia complementare; per vivere la stupenda esperienza dell’amore: cioè, amare ed essere amato; e per vedere il suo amore fecondo nei figli.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Nm 11,25-29; Sal 18; Gc 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48

Davanti al sentimento di gelosia, di invidia, davanti a coloro che seminano zizzania e divisione, sia la prima Lettura sia il Vangelo propongono l’atteggiamento dell’accoglienza nella diversità e della flessibilità nel giudizio.

È la gelosia e l’invidia che fanno dire sia a Giosuè “Mosè, mio signore, impediscili!” sia a Giovanni “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva”. Ma la risposta di Gesù è perentoria: “non glielo impedite: chi non è contro di noi è per noi”. Per Gesù non è un “noi” che esclude ma che tutti accoglie e abbraccia, anzi tutti riconcilia.

 Volevamo impedirglielo

Ci troviamo ancora a Cafarnao mentre Gesù continua il suo percorso formativo sul discepolato. La lamentazione di Giovanni, questa volta il portavoce del gruppo, non solo rivela la gelosia e l’invidia ma provoca l’insegnamento sull’accoglienza da parte dal Maestro.  Giovanni si lamenta che hanno trovato qualcuno che “scacciava i demoni” nel nome di Gesù, anche se non apparteneva al gruppo dei discepoli. Per Giovanni è un abuso usare il nome di Gesù da parte di qualcuno che non fa parte della comunità dei discepoli. Ecco perché, afferma Giovanni, “volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva”. Così pure nella prima Lettura, quando Eldad e Medad, sebbene non facessero parte dei settanta uomini anziani che avevano ricevuto assieme lo spirito, profetizzavano nell'accampamento.

La cosa allarma Giosuè che si premura di informare Mosè. Non solo, gli chiede di impedire questa profezia, che gli sembra illegale perché coloro i quali profetizzano non fanno parte dei settanta uomini anziani.

In ambedue le realtà emergono dei sentimenti di gelosia, invidia, divisione, perché i discepoli si considerano “detentori della fede, dei doni, dell’amore” e ciò crea esclusione e pone limiti al bene compiuto dagli altri. La gelosia e l’invidia non permettono di vedere il bene che viene compiuto, il geloso e l’invidioso non vedono il bene che fa la profezia di Eldad e Medad, non vedono neppure gli effetti positivi dello scacciare i demoni.

L’invidia e la gelosia accecano i discepoli al punto tale da non riuscire a vedere il bene compiuto. Ecco perché insistono sul fatto che non fanno parte del gruppo, non li seguivano, dimenticando che non sono loro che devono essere seguiti ma è Gesù, il Maestro. Dicendo “non ci seguiva”, i discepoli rivelano la loro pretesa di grandezza, la loro grande preoccupazione per la realizzazione dei progetti personali di prestigio e di grandezza che quasi tutti loro nutrivano.

Poco tempo prima, avevano discusso tra loro su chi sarebbe stato il più grande e chi avrebbe ereditato i posti più importanti nel Regno (cfr. Mc 9,33-37); ora sono inquieti e preoccupati perché è apparso qualcuno al di fuori del gruppo che vuole agire nel nome di Gesù e che potrebbe, in un prossimo futuro, contestare i loro posti elevati nella struttura politica del Regno. Si rivela un gruppo chiuso e detentore della fede e della verità e con tendenze anti-relazionale.

Non glielo impedite: chi non è contro di noi è per noi

Gesù si oppone a tale identità di gruppo chiusa, gelosa, invidiosa, esclusiva, si oppone ad un gruppo legato ad una logica di pretesa di dominio e di potere e afferma: Non glielo impedite: chi non è contro di noi è per noi”. Bisogna passare dalla logica dell'ostilità, alla convivialità delle differenze; dalla logica dell’esclusivismo e divisione all’accoglienza della diversità come ricchezza reciproca, come carità che non annulla le differenze ma è capace di trarre il bene da ogni evento e situazione personale.

Dal punto di vista di Gesù, chi lotta per il bene dell'umanità è dalla parte di Gesù e vive nella dinamica del Regno, anche se non formalmente all'interno della struttura ecclesiale. La comunità di Gesù non può essere una comunità chiusa, esclusivista, monopolizzante, che tiene il broncio e si sente gelosa quando qualcuno da fuori fa del bene; né può sentire violati i suoi privilegi e diritti dal fatto che lo Spirito di Dio agisca fuori dai confini della Chiesa...

La comunità di Gesù deve essere una comunità che mette la preoccupazione per il bene dell'uomo al di sopra dei propri interessi, deve essere una comunità che sa accogliere, sostenere e incoraggiare tutti coloro che agiscono per la liberazione dei loro fratelli, una comunità capace di superare “questo è europeo, questo è africano, questo è musulmano” e cercare di vedere il bene che lui fa anche se non fa parte del proprio gruppo linguistico, culturale oppure religioso. Gesù dirà: “Chiunque, infatti, vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa” (v. 41).

Secondo Papa Francesco, il discepolo missionario deve fare un percorso: quello di “non pensare secondo le categorie di “amico/nemico”, “noi/loro”, “chi è dentro/chi è fuori”, “mio/tuo”, ma ad andare oltre, ad aprire il cuore per poter riconoscere la sua presenza e l’azione di Dio anche in ambiti insoliti e imprevedibili e in persone che non fanno parte della nostra cerchia. Si tratta di essere attenti più alla genuinità del bene, del bello e del vero che viene compiuto, che non al nome e alla provenienza di chi lo compie. E - come ci suggerisce la restante parte del Vangelo di oggi - invece di giudicare gli altri, dobbiamo esaminare noi stessi, e “tagliare” senza compromessi tutto ciò che può scandalizzare le persone più deboli nella fede.”

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Sap 2,12.17-20; Sal 53; Giac 3,16-4,3; Mc 9,30-37

La prima Lettura, come il Vangelo hanno in comune il tema della passione e morte di nostro Signore. Mentre il libro della Sapienza parla del progetto degli empi che finisce nella morte del servo innocente “mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo a una morte infamante”, nel Vangelo, invece, è proprio Gesù che, pur parlando della sua passione, contrariamente al progetto degli empi, va oltre alla morte “una volta ucciso dopo tre giorni risorgerà”.

Anzi, dà un senso alla sua passione e morte: la salvezza dell’umanità. Mentre egli legge la sua passione in chiave di disponibilità e di amore verso l’umanità, i discepoli, con le loro categorie mondane, discutono, tra di loro, chi è il più grande, per Gesù, il più grande è semplicemente colui il quale si mette al servizio dell’altro.

Il Figlio dell’uomo dev’essere consegnato

Gesù continua il suo percorso missionario e formativo: sta attraversando la Galilea e, nel frattempo, continua ad istruire i suoi discepoli, il contenuto del suo insegnamento è la croce ovvero la sua passione, morte e resurrezione. Si tratta del secondo annuncio. Dice la profezia di Isaia (Is 53,1-10), il Figlio dell’Uomo deve essere consegnato e condannato a morte. Verrà consegnato dagli uomini suoi fratelli, come realizzazione di un malvagio progetto, come è ben stigmatizzato nella prima lettura “mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione. Condanniamolo a una morte infamante”. 

Gesù legge la sua passione come realizzazione delle Scritture e come realizzazione della sua stessa missione: la salvezza dell’umanità. Come nel primo annuncio, in Mc 8,32, i discepoli lo ascoltano, ma non capiscono ciò che dice a proposito della croce. Però non chiedono chiarimenti, ma discutono tra di loro di tutta un’altra cosa. Il maestro chiede loro di che cosa stavano discutendo ma essi rimangono in silenzio, hanno paura che emerga la loro ignoranza ma soprattutto il loro progetto e la loro mentalità di grandezza terrena. Infatti, per la strada avevano discusso tra loro chi fosse più grande. La domanda che possiamo porci anche noi è perché i discepoli non capivano le parole di Gesù e avevano timore di interrogarlo.

Per Gesù era chiarissimo che la via del Messia doveva passare attraverso la croce e il dono della vita. Per i discepoli, invece, non era chiaro perché, per loro, la morte non poteva essere la via della vittoria. Perciò il Messia doveva essere vittorioso, doveva trionfare, non essere consegnato nelle mani dei nemici. Ecco perché i discepoli non capiscono e non sono neppure d'accordo con il cammino che Gesù ha scelto di seguire: la croce. La croce per loro non è segno di vittoria ma una via di fallimento.

Il percorso e l’orizzonte dei discepoli rimane fisso solo sulla croce, sulla morte, mentre quello di Gesù va oltre ed arriva alla resurrezione: “ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà”. I discepoli non riuscivano ad oltrepassare la mentalità mondana che era già presente nella persona di Pietro che, subito dopo il primo annuncio della passione, consigliava Gesù di non accettare il progetto di Dio, ma Gesù fu chiarissimo: “Va' dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. La stessa mentalità è ben presente anche in questo brano, ma si aggiungono altre due modalità dell’essere umano: la competitività e il desiderio di grandezza. Possiamo anche dire che i discepoli non capiscono la logica di Gesù perché sono versati nella logica mondana caratterizzata appunto dalla competitività e dalla mania di grandezza. Ma per Gesù tutto è ben chiaro: “Se uno vuole essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servitore di tutti.”

Che sia l'ultimo di tutti e il servitore di tutti

Mentre Gesù parlava della sua passione per la salvezza dell’umanità, i discepoli indaffarati all’ interno della loro logica mondana, discutevano tra loro chi fosse il più grande. Si tratta del più grande all’interno di una mentalità di competitività e di prestigio. Mentre Gesù si preoccupa di essere il Messia Servo, i discepoli, invece, solo pensano a chi è il più grande. Gesù cerca di scendere, di mettersi al servizio, di farsi uguale agli altri, i discepoli, invece, cercano di salire, di essere superiori agli altri, di essere serviti. Sono alla ricerca del prestigio, della grandezza, dell’onore! Per Gesù, il potere deve essere usato non per salire e dominare, ma per scendere e servire.

La grandezza consiste dunque nel servire: chi non serve non è grande, non può essere il primo. Per essere primo, deve mettersi nel posto del servizio; deve mettersi al servizio dei piccoli, dei bambini. Ma si sa che una persona che solo pensa a salire e dominare, non può prestare tanta attenzione ai piccoli e ai bambini. Ma Gesù dice il contrario: accogliere i bambini, per Lui, il servizio consiste nell’accogliere le persone, soprattutto, gli umili e gli ultimi.

Il discepolo missionario è colui che sceglie la strada del servizio caratterizzato dall’accoglienza al più umile. Per il Papa Francesco la strada contro lo spirito del mondo è una sola: l’umiltà. Servire gli altri, scegliere l’ultimo posto, non arrampicarsi.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Is 50, 5-9; Sal 114; Giac 2,14-18; Mc 8, 27-35

In questa domenica la liturgia ci presenta un episodio evangelico molto importante: Gesù chiede ai discepoli che cosa pensa la gente di lui, e poi che cosa pensano loro di lui; e dopo la confessione di Pietro annuncia la sua passione. Questo annuncio viene preparato dalla prima lettura, che è un oracolo del profeta Isaia sul Servo del Signore (Is 50, 5-9). La seconda lettura, tratta dalla Lettera di Giacomo (Giac 2,14-18), parla della fede che deve manifestarsi nelle opere.

Il Signore Dio mi assiste

Gli oracoli di Isaia sul Servo del Signore non parlano esplicitamente del Messia, per cui lasciano adito a varie interpretazioni. Tuttavia, annunciano una sorte dolorosa per il Servo del Signore: egli deve presentare il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che gli strappano la barba, non sottrarre la faccia agli insulti e agli sputi. La sua è una sorte veramente umiliante. Ma il Servo del Signore dice: «II Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso». In questa sorte umiliante il Servo del Signore è sicuro di essere assistito da Dio. Perciò non perde il coraggio, anzi mostra una straordinaria fermezza.

Chi dice la gente che io sia?

Dopo la prima parte della sua vita pubblica Gesù va nella regione  di Cesarea di Filippo, un territorio a nord-est della Palestina. Qui interroga i suoi discepoli: «Chi dice la gente che io sia?». Il suo ministero ha avuto un grande successo; egli ha parlato come nessun uomo ha mai parlato (cf. Gv 7,46) e ha manifestato al tempo stesso una bontà straordinaria e una potenza impressionante: ha accolto tutti i malati e ne ha guariti molti. Perciò la sua persona suscita molti interrogativi: la gente si chiede chi sia questo personaggio così potente e così buono.

I discepoli rispondono alla prima domanda di Gesù: per alcuni egli è Giovanni Battista risorto, per altri Elia - Elia, secondo il racconto biblico, non era morto, ma era stato assunto in cielo; quindi, ne era atteso il ritorno -; per altri uno dei profeti che ha avuto una sorte simile. La gente dunque è incerta sulla vera identità di Gesù.

Gesù allora rivolge una seconda domanda ai discepoli: «E voi  chi dite che io sia?». Pietro risponde: "Tu sei il Cristo». Guidato dallo Spirito Santo, Pietro riconosce che Gesù è il Messia, il re promesso della stirpe di Davide, il re che doveva essere Figlio di Dio. La reazione di Gesù a questa confessione di Pietro è inaspettatamente negativa. Egli accetta questo titolo, ma impone severamente ai discepoli di non parlare di lui a nessuno, di non dire a nessuno che egli è il Messia. Il motivo è lo stesso che, dopo la moltiplicazione dei pani, lo ha spinto a ritirarsi solo sulla montagna, rifiutandosi di diventare re (cf. Cv 6,15).

In effetti, l'attesa messianica nel popolo ebreo si manifestava allora in un modo che non piaceva a Gesù. Senza dubbio egli è  consapevole di essere il Messia, ma sa che la sorte del Messia non è quella immaginata dalla gente. La gente pensa al Messia come a un re trionfatore o, più esattamente, come a un personaggio che deve provocare un 'insurrezione, prendere il potere e liberare il popolo ebreo con la forza delle armi. Gesù non intende favorire questa immagine del Messia; perciò, vieta ai discepoli di rivelare che egli è il Messia: A questo punto egli comincia a insegnare che il Figlio dell'uomo deve molto soffrire. «Figlio dell’uomo» è un'espressione che Gesù usa spesso per designare sé stesso. È un titolo che non ha nulla di trionfalistico, ma che vuole semplicemente significare un uomo chiamato a una missione, senza quelle risonanze militari suscitale dal titolo di Messia.

Gesù afferma che il Figlio dell'uomo dovrà molto soffrire, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare. Fa questo discorso apertamente. Pietro allora lo prende in disparte e si mette a rimproverarlo. Pietro non accetta questa sorte umiliante per Gesù. Anche lui pensa a un Messia trionfatore non a un uomo riprovato dagli altri, che deve soffrire, essere accusalo, maltrattato e ucciso; perciò, non può accettare questa prospettiva.

La reazione di Gesù è decisa e severa. Pietro lo ha rimproverato; ora è lui che rimprovera Pietro e gli dice: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». I pensieri di Dio non sono come quelli degli uomini, come ci dice il profeta Isaia.

Nel caso di Gesù i pensieri di Dio vanno nel senso di dover affrontare una passione dolorosa e umiliante. Ma questa passione avrà effetti molto positivi, di salvezza per lutti gli uomini: effetti che non possono essere ottenuti per mezzo di un trionfo militare, con la forza delle armi. Questo è il progetto di Dio, che era stato già indicato, sia pure non in modo così esplicito, nelle profezie e, in particolare, nei canti del Servo del Signore.

Dopo l'annuncio della passione Gesù dà un insegnamento generale, valido per tutti quelli che vogliono diventare suoi discepoli: «Se qualcuno vuoi venire dietro di me, rinneghi se stesso prenda la sua croce e mi segua». Sono parole molto chiare, che cancellano tutte le illusioni di chi vuoi diventare discepolo del Messia per trionfare con lui e soddisfare le proprie aspirazioni umane spontanee. Gesù dice che bisogna rinnegare se stessi - quindi, rinunciare alle proprie aspirazioni umane di trionfo, successo e dominio, prendere la propria croce eseguirlo.

Poi dà una regola generale: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà». Per capire questo principio importante di Gesù, dobbiamo ricordare che la vocazione dell’essere umano è una vocazione all'amore: Dio, che è amore, ci ha creati per comunicarci il suo amore e renderei capaci di vivere nell'amore. Pertanto, la felicità dell'essere umano non si trova nell'egoismo, ma nell'amore. Chi vuoi salvare la propria vita, la perde, perché si mette sulla via dell'egoismo, e non può trovare in essa la vera gioia. Invece, chi accetta di perdere la propria vita per causa di Gesù e del suo Vangelo, la salva, perché si mette decisamente sulla via dell'amore: per amore del Signore accetta una sorte difficile, un combattimento duro; accetta di perdere la propria vita per amore, e così raggiunge la gioia perfetta e definitiva.

Dobbiamo tener sempre presente questo insegnamento di Gesù, perché la nostra tendenza spontanea è quella di cercare in maniera immediata la felicità, e quindi di metterei sulla via dell’egoismo, che non conduce alla vera gioia. Dobbiamo accettare sempre di perdere la nostra vita, cioè di rinunciare ai nostri interessi immediati, per cercare il regno di Dio, che è il regno dell' amore, della pace e della gioia.

Il discepolo missionario è quello che per fede, è consapevole di essere chiamato a perdere la propria vita per amore, e così ottenere la vera vita, la vera gioia e la felicità eterna.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

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