Solennità di Cristo Re dell’Universo e 39° Giornata Mondiale della Gioventù

Dn 7, 13-14; Sal 92; Ap 1, 5-8; Gv 18, 33-37

Le letture dell’ultima domenica dell’anno liturgico, Solennità di Cristo Re dell’universo, sono centrate sulla regalità di Cristo. Nella pagina evangelica è ben chiaro che Gesù è Re ma che il suo regno, non essendo di questo mondo, ha un obiettivo preciso: rendere testimonianza alla verità.

Con linguaggio profetico, Daniele contempla “uno simile al figlio d’ uomo” che riceve potere da Dio. L’Apocalisse, invece, sottolinea che questo potere regale di Cristo ci viene comunicato per amore: Cristo Re “ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli”.

Un potere dato e comunicato

La “visione” descritta da Daniele fin da Dn 7,1 trova il suo apice con l'apparizione di uno simile a figlio d’uomo figura in cui si compendiano i tratti del Messia che verrà a stabilire il regno di Dio sulla terra. È Gesù che nei Vangeli usa questo termine di “figlio d’uomo” e lo applica a se stesso. Da questa profezia si possono sottolineare quattro aspetti della regalità del figlio d’uomo: il potere del “figlio d’uomo” non solo viene da Dio ma anche gli appartiene; ha un carattere universale poiché destinato a “tutti i popoli, nazioni e lingue”; non tramonta mai è eterno ed infine non sarà mai distrutto.

Queste quattro caratteristiche sono la vera sintesi di ciò che Gesù voleva sottolineare dicendo “il mio regno non è di questo mondo”. È un regno di amore perché viene da Dio e a Dio appartiene: è un regno di amore perché Dio è amore e vuole stabilire il suo regno di amore.

Questo regno e potere che vengono da Dio vengono comunicati all’umanità attraverso Gesù, re dell’universo. Attraverso la sua morte, Egli ha fatto di noi “un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli”. Gesù ci ha introdotto in una nuova dinamica di vita, ci ha avvicinate a Dio e ci ha invitati a diventare parte della famiglia di Dio, del nuovo regno che è un regno di verità.

Sono venuto per dare testimonianza alla verità

Il Vangelo ci presenta una scena del processo-interrogatorio di Gesù davanti a Ponzio Pilato, il governatore romano della Giudea. L'incontro faccia a faccia di Gesù con i capi giudei aveva già avuto luogo, in particolare con Anna. Questo interrogatorio inizia con una domanda diretta posta da Ponzio Pilato “Sei tu il re dei Giudei?”. Tale inizio rivela quale fosse l'accusa portata dalle autorità ebraiche contro Gesù: aveva pretese messianiche; intendeva restaurare il regno ideale di Davide e liberare Israele dagli oppressori.

Gesù, spogliato ed umiliato, risponde senz’ambiguità, si proclama e si riconosce quale re: “tu lo dici: io sono re” ma prima di proclamarsi re, aveva chiarito che il suo regno non era di questo mondo. Affermando che il suo regno non è di questo mondo Gesù vuole sottolineare anche, come diceva il biblista De La Potterie, “la regalità di Cristo non si fonda sui poteri di questo mondo e non è minimamente ispirata a questi. È una sovranità nel mondo, ma che si realizza in maniera diversa dal potere terreno e attinge la sua ispirazione da un’altra fonte”.

Bisogna avere il coraggio di Gesù nel dire che il suo regno non è di questo mondo e si contrappone a Pilato e a coloro che l’hanno accusato e condannato. Non è un regno circondato da soldati, dunque non è un regno di guerra il cui potere si nutre di violenza e produce  morte; il suo regno non ha come obiettivo il vincere ma il servire e l’ amare. Infatti, Egli non si impone con la forza ma è venuto incontrare agli uomini per servirli; non cerca i propri interessi ma obbedisce in tutto alla volontà di Dio suo Padre; si preoccupa in amare, infatti, si proclama re in un processo interrogatorio che lo porterà alla morte in croce: il suo trono. L’abbiamo sottolineato all’inizio, con la prima e la seconda lettura, che la regalità di Cristo è di un altro ordine, l'ordine di Dio. È una regalità che tocca i cuori e che, invece di produrre oppressione e morte, produce vita e libertà.

Il suo regno è un regno di verità e la sua missione è rendere testimonianza alla verità, cioè, condurre gli uomini alla Verità suprema, liberandoli da ogni tenebra di errore e di peccato: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità” (Gv 18,37). Gesù un giorno aveva detto "Io sono la Verità, la Via, la Vita"; Io sono la Verità che Conduce alla Vita... E perciò "chiunque é dalla Verità ascolta la mia voce".

Per Gesù, la verità si testimonia e Lui dice di essere venuto: “per dare testimonianza”. Tutta la sua vita, il suo operare, il suo vissuto, sintetizzato nel termine “amore” è un atto di testimonianza. Passando in questo mondo e facendo null’ altro che del bene Gesù diventa testimone: «è il testimone fedele» per eccellenza. La sua vita è un dono della verità, in lui la verità si manifesta come dono: «dare» testimonianza.

Il discepolo missionario sa che Dio è amore e vuole stabilire nel mondo il suo regno di amore, di giustizia e di pace. Questo è il regno di cui Gesù è il re e che si estende fino alla fine dei tempi.  Sa inoltre che il regno di Dio è verità e che la nostra missione è quella di dare la testimonianza alla verità con la nostra stessa vita.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo e segretario della Conferenza Episcopale del Mozambico (CEM).

VIII Giornata Mondiale dei Poveri. "La preghiera del povero sale fino a Dio" (cfr. Sir 21,5)

Dn 12,1-3;  Sal 15; Eb 10, 11-14; Mc 13,27-32

La liturgia della Parola di questa domenica che è la penultima dell'anno liturgico ci invita “a ravvivare la speranza e a renderci operosi nella carità, mentre attendiamo la gloriosa manifestazione del Figlio dell’uomo”. Tale manifestazione marcherà un cambiamento: dalla situazione dall’angoscia, persecuzione e scoraggiamento si passerà al tempo della liberazione e della salvezza.

Quest’è la nostra speranza. E poiché “il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”, il popolo di Dio è chiamato a rimanere fedele alla Parola di Dio nonostante la persecuzione e la prova. La sola cosa che non passa è la vita nuova trasmessa da Gesù: quella del Vangelo.

Risplenderanno come lo splendore del firmamento e come le stelle per sempre

Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Daniele, si parla di un tempo di “angoscia, come non c'era stata mai dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo” ma questa è una situazione di transitorietà per chi è fedele al Signore. Infatti, il profeta afferma che sorgerà Michele, il gran principe, che vigila sui figli del popolo di Dio e saranno salvati tutti quelli che sono scritti nel grande libro.

I saggi avranno il merito di essere inserito in quel grande libro. Per il Profeta, i saggi sono coloro che si impegnano, nella vita giornaliera, all’osservanza della Parola di Dio. Questa Parola è, per i saggi, il centro di riferimento di capitale importanza nella loro vita quotidiana. Loro osservano la Parola di Dio non per obbligo nemmeno per paura, ma sono convinti che in essa si trova il vero senso profondo della vita. È la Parola di Dio che soddisfa la loro crescita personale nella fede. Essi, dunque, perché illuminati dalla Parola, “risplenderanno come lo splendore del firmamento (…) come le stelle per sempre”.  Il loro splendore induce “molti nella giustizia”, ossia nella corretta pratica della Parola di Dio. I giusti, nonostante la persecuzione e la sofferenza, rimangono fedeli a Dio e ai suoi valori, sono destinati alla “vita eterna” ad una vita trasfigurata.

Ma le mie parole non passeranno

La stessa situazione di transitorietà di cui si è parlato nella prima lettura, caratterizza pure la narrazione del Vangelo. In esso, Gesù, similmente, annuncia catastrofi transitori: “in quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte”. Ma allora si manifesterà il Figlio dell’uomo che “manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti”. Gesù invita ad avere gli occhi aperti e il cuore vigilante. Ci chiede di apprendere l'arte della lettura di tutti i segnali della sua venuta: “così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte”.

Però, mentre Gesù ci invita a sapere leggere i segni dei tempi, ci lascia allo stesso momento condizione dell’incertezza: non siamo in grado di sapere e di precisare il giorno e l’ora. Questa situazione dell’incertezza deve risvegliare in noi la vigilanza e perciò dobbiamo impegnarsi.

In questa situazione di transitorietà in cui anche i cieli e terra passeranno, Gesù ci invita non solo ad essere vigilante ma anche a sapere aggrapparsi non alle cose che passano ma all’unica certezza: la Parola di Dio. Essa, infatti, non solo resterà valida per sempre ma ci dà coraggio e forza ad affrontare qualunque avversità della vita. Questa Parola non perderà mai la sua forza di salvezza e così continuerà ad alimentare la nostra speranza, perché aspettiamo “cieli nuovi e terra nuova”.

Il discepolo missionario è colui che sa attaccarsi alla Parola di Dio poiché impressa nel suo cuore, come i dieci comandamenti furono scolpiti nelle tavole. Niente deve essere in grado di cancellarle.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

1Re 17,10-16; Sal 145; Eb 9,24-28; Mc 12,38-44

Al centro della liturgia della 32a domenica del Tempo Ordinario ci sono due vedove una pagana e una ebrea che ci fanno contemplare ed ammirare due modelli di grande generosità, grande speranza e grande fede. Una generosità capace di pensare prima agli altri e poi a se stessi ed una fede che è un atteggiamento permanente di affidamento nelle mani del Signore. Non si tratta soltanto di “offrire” ma di “offrirsi” per gli altri, sacrificarsi, come fece Gesù, secondo quanto afferma l’autore della Lettera agli Ebrei: “egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso”.

“Prepara una piccola focaccia per me e poi ne preparerai per te e per tuo figlio”

Nella prima e nella terza lettura sono presentate due vedove che vengono lodate e messe come modello di fede e di generosità. In quei tempi sappiamo che la vedova, avendo perso il marito si trova in condizioni precarie, le viene a mancare ogni sostegno sociale ed economico. Nella tradizione biblica, sia che ella abbia figli sia che non ne abbia la sua situazione è accomunata a quella degli orfani, degli stranieri, dei miseri. È per questo che il Signore le pone sotto la sua custodia.

Nella prima lettura Elia nel suo pellegrinaggio arriva a Sarepta e si trova davanti ad una vedova  alla quale fa due richieste, una dopo l’altra: prima un po’ d’acqua e subito dopo un pezzo di pane. La vedova che, non avendo nulla, avrebbe potuto dire che pane non ne aveva, nella sua onestà  afferma che ha del cibo solo per lei e per suo figlio: “non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po' d'olio nell'orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio”. Non solo la quantità è  irrisoria, ma anche è la riserva per un ultimo magro pasto che condividerà con suo figlio.

È l’ultimo pasto perché “mangeremo e poi moriremo”. Lei senza lamentarsi, senza chiedere un ultimo soccorso lascia capire al Profeta Elia che lei e il suo figlio stanno in una penosa sorte e che sono rassegnati a morire: “mangeremo e moriremo”. Ciò nonostante, la vedova, generosamente, va e fa come le ha detto Elia: provvede a  dare da bere e mangiare ad Elia e poi mangiarono lei, il figlio e la casa di lei per diversi giorni. Umanamente parlando lei avrebbe potuto pensare prima alla sua sopravvivenza e poi, se fosse rimasto qualcosa, pensare anche agli altri, ma la vedova ha il coraggio di pensare prima al profeta e poi a se stessa e a suo figlio, non solo una grande generosità ma anche una grande fede.

La donna ha accettato la richiesta compiendo un atto estremo di generosità, dando da mangiare tutto ciò che aveva per poi pensare a se e al suo figlio,  lei lo fa affidandosi totalmente alla promessa del profeta: “La farina della tua giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà” (17,14). Infatti, mangiò Elia, poi non solo lei e suo figlio ma anche la casa di lei per diversi giorni…. Quello che era per un solo pasto di due persone, per fede e generosità, si trasformò in cibo per molti e per diversi giorni. Così fu non solo per la sua grande generosità ma anche per la sua grande fede in un Dio che non era il suo, verso il quale mostra grande deferenza. La vedova era consapevole che Dio la stava invitando a non contare solo su se stessa, ma su di Lui per il suo sostentamento. Pertanto, non vi era alcun motivo di tener stretto nella sua mano quello che aveva, dal momento che Dio avrebbe fornito altro pane all’indomani.

“Vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”

Nel Vangelo, invece, Gesù mette la vedova, descritta come povera, in confronto con un’altra categoria di persone: i ricchi. Mentre questi gettavano molte monete, ma il superfluo, la vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo: il tutto.  Gesù la osserva, chiama a sé i discepoli e dice loro: “Amen”, cioè: “È così, è la verità e io ve la dico”. “Questa povera vedova ha gettato nella cassetta delle offerte più di tutti gli altri. Tutti, infatti, hanno preso dal loro superfluo; lei, invece, nella sua povertà, ha dato tutto quello che aveva, tutto quello che aveva per vivere” cioè lei ha dato tutta la sua vita.

Mentre i ricchi gettavano il loro superfluo, le briciole della loro ricchezza, la vedova si spoglia di ciò che le era necessario per vivere, di tutto ciò che aveva, non di una sua porzione minima. Come la vedova di Sarepta, ella non offre gli avanzi, non trattiene nulla per sé, ma offre se stessa, tutto ciò che ella ha. Il Signore non giudica in base alla quantità di cose che noi offriamo, ma in base alla nostra generosità: giudica le intenzioni e anche in questo caso, la fede della vedova viene ricompensata da Gesù.

Il discepolo missionario, di fronte ai bisogni del prossimo, è chiamato a privarsi di qualcosa di indispensabile, non solo del superfluo. Infatti, il Papa Francesco afferma che “siamo chiamati a dare il tempo necessario, non solo quello che ci avanza; siamo chiamati a dare subito e senza riserve qualche nostro talento, non dopo averlo utilizzato per i nostri scopi personali o di gruppo”.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Ricordo con piacere le diverse esperienze vissute nel noviziato. Una tra le principali è quella che mi mise in contatto profondo e spirituale con il nostro Padre Fondatore e che sconvolse tutta la mia vita cristiana e missionaria: la lettura dei tre volumi di “Le conferenze Spirituali del Servo di Dio Giuseppe Allamano”.

Il Maestro del noviziato ci aveva divisi in diversi gruppi e ad ogni gruppo aveva affidato un tema, con la responsabilità di approfondirlo. Il gruppo cui facevo parte doveva eseguire una ricerca su “Il Fondatore e la S. Scrittura”. Per noi è stato impressionante costatare che le parole del Padre, per esprimermi con le parole di un testimone, erano «come un mosaico di espressioni che riflettono e ricordano le Scritture, anche quando non sono una loro citazione diretta».

Appariva indubbio che il Fondatore aveva la Parola di Dio radicata nella mente e nel cuore e che «la sua vita ne era tutta impregnata». Nelle sue conferenze traspaiono evidenti la sua profonda sensibilità biblica ed il suo senso della fede, che gli consentivano di risalire alla sorgente della Scrittura e di leggerla con profonda intelligenza spirituale.

Diverse testimonianze sottolineano questo culto che Allamano aveva della Parola di Dio. Mi limito a riportarne due, che sono un po' la sintesi di tutte le altre. La prima è una deposizione al processo canonico di beatificazione: «Il Servo di Dio nutriva per la S. Scrittura un vero culto […]; circondava della massima venerazione la Parola del Signore […]; era grandemente avido di ascoltarla».

La seconda è di una missionaria: «Posso attestare che quando ci radunava per farci qualche esortazione, noi eravamo veramente liete, perché sentivamo come la sua parola avesse alcunché di veramente penetrante e toccante, che dimostrava come egli attingesse la sua ispirazione e la sua convinzione dalla S. Scrittura».

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Mons. Osório Citora Afonso durante l'omelia nella messa di ringraziamento per la canonizzazione di San Giuseppe Allamano

Fu così che nacque in me la passione per la S. Scrittura e che questa, fin dal mio primo anno di Teologia, ebbe una grandissima importanza anche nei miei studi. Ho voluto, come diceva il Fondatore, che il primo studio per importanza nella mia formazione teologica fosse la S. Scrittura. Non posso che condividere in pieno ciò che il Padre diceva: «Per noi la S. Scrittura è il primo studio, il sommo, e non c'è scusa […]. Ecco perché si dà tanta importanza nell'Istituto allo studio della S. Scrittura, in modo che si comincia dal primo giorno e si studia fino alla fine: questa è una scuola che non cessa mai».

Di conseguenza, nacque anche in me il desiderio di leggere la Parola di Dio con la mente e il cuore dell'Allamano. Cioè, si trattava di comprendere bene che cosa era la S. Scrittura per il nostro Padre Fondatore e che posto aveva nella sua vita, per poi vedere come io, Missionario della Consolata, dovevo impegnarmi a leggere la S. Scrittura e ad assumerne il messaggio nella situazione odierna.

Che cos'è la S. Scrittura per l'Allamano. Ecco come l'Allamano, parlando ai missionari, descrive la S. Scrittura e ne spiega la naturai: «La S. Scrittura è un sacramentale: e questo è certo perché è Parola di Dio e perciò conferisce la grazia, infonde consolazione». Inoltre: «Tutti i santi dicono che la S. Scrittura è un magazzino di ogni sorta di rimedi; è un arsenale pieno di armi per combattere contro i nemici della nostra anima, il demonio ed il mondo».

Prendendo l'esempio dal grande Vescovo di Milano, l'Allamano aggiungeva:  “S. Carlo Borromeo diceva che la S. Scrittura era il suo giardino; e quando qualcuno lo invitava ad andare un po' a passeggio, ad andare un po' nel giardino, diceva che il giardino di un ecclesiastico è la S. Scrittura». Secondo Allamano, dunque, la S. Scrittura è: sacramentale, fonte di grazie e di consolazione; è un giardino di riposo spirituale per ogni cristiano e, in particolare, per ogni  missionario.

Se tale è la concezione che l'Allamano ha della S. Scrittura, ne scaturisce questa conseguenza concreta: avere un'attenzione particolare per la Parola di Dio ed impegnarsi nella sua lettura, perché, come affermava ancora l'Allamano: «Se la leggiamo con queste disposizioni, la S. Scrittura ci farà del bene: ecciterà in noi l'amore di Dio, il desiderio della perfezione». In più, la S. Scrittura sarà il nostro sostegno e la nostra consolazione in missione. Cosi ribadiva Allamano: «Le S. Scrittura siano la nostra consolazione. In questi tempi [della prima guerra mondiale] tanto dolorosi per tutti, ed anche per noi, a chi ci rivolgeremo per avere consolazione?».

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Preghiera presso la tomba di San Giuseppe Allamano nella Casa Madre a Torino

La S. Scrittura fonte di consolazione. L'Allamano indicava a chi ricorrere, secondo un ordine discendente: « Certamente a Gesù, [...] abbiamo anche Maria SS. Consolata..., ma poi [ricorrere] alla lettura della S. Scrittura». E qui citava, dall'Antico Testamento, la risposta che Giuda Maccabeo aveva dato ad Ario Re degli Spartani che gli offriva la propria alleanza: «Noi non abbiamo bisogno della vostra alleanza e del vostro aiuto; a noi basta la consolazione dei santi libri che sono nelle nostre mani» (1Mc 12,9).

E commentava: «Che bella cosa è mai questa! I poveri ebrei erano sempre in guerra, eppure dicono che non hanno bisogno di aiuto, che la loro consolazione erano i santi libri, è la S. Scrittura. Così dev'essere anche per noi: la S. Scrittura dev'essere la nostra consolazione. La S. Scrittura ci consola, ci fortifica e ci sostiene nelle tribolazioni, affinché stiamo fermi nella speranza. Tutta la S. Scrittura, sia l'Antico Testamento come il Nuovo, dobbiamo leggerla per essere consolati. Tutti i santi trovavano nella S. Scrittura una fonte di consolazione e di vita. La Parola di Dio penetra come una spada nell'anima e provvede a tutti i nostri bisogni. [...]. Inoltre, il leggere la S. Scrittura eccita nel nostro cuore l'amore di Dio, scalda il cuore. Vedete un poco i discepoli di Emmaus che, venendo da Gerusalemme e accompagnando N. Signore, quando lo hanno riconosciuto, dicevano: non ardeva il nostro cuore mentre ci parlava? Le sue parole ci scaldavano la mente: eppure non lo conoscevano ancora. Le parole di Nostro Signore sono di fuoco».

Ecco, in sintesi, come l'Allamano spiega il valore della S. Scrittura: rende perfetti coloro che la studiano e li prepara a compiere ogni opera buona; è un vero tesoro, un magazzino di medicinali, un arsenale di armi, in cui possiamo trovare tutto quello di cui abbiamo bisogno per la vita. È la vera fonte di consolazione. Questo valeva allora, quando l'Allamano spiegava ai giovani missionari queste cose, e vale allo stesso modo anche oggi.

Come leggere la S. Scrittura. E come leggerla? L'Allamano insegnava anche come leggere la Parola di Dio: «Le S. Scritture sono un “pozzo profondo” che esige fatica a tirare acqua; ma è fatica dolce e consolante. Si sbagliano quelli che non l'hanno sempre tra mani, o che credono di capire tutto subito; solo ai semplici si rivela Dio, e si nascondi ai superbi». Ecco i consigli pratici dell'Allamano. Il primo è: per leggerla e capirla bisogna anzitutto pregare ed avere retta intenzione. Diceva: «Pregare mentre si legge la S. Scrittura che il Signore ci illumini; mettere in mezzo tante giaculatorie... e poi bisogna leggerla con purità di intenzione, non come certi dottoroni che scrutano la S. Scrittura ma per trovare la prova dei loro errori... Bisogna leggerla con quello spirito con cui fu scritta, leggerla con riverenza, non voler penetrare più di quello che si può».20241106Allamano2

Chiesa di Sant'Andrea a Castenuovo don Bosco

Inoltre, è necessario leggere la Parola di Dio con rispetto: «S. Carlo Borromeo la leggeva sempre a capo scoperto ed in ginocchio. […].  Andiamo avanti: non basta leggerla, ma bisogna scrutarla, andare a fondo. Nostro Signore non ha detto solo di leggerla, ma di scrutarla; non leggerla solo di passaggio, ma fermarsi sopra; prendere, per esempio, tre versetti e fermarsi lì. Fortunati voi che la leggete a tavola! Bisogna stare attenti non solo al latino, ma anche alle traduzioni ed alle note».

Come si vede, i consigli del Padre sono quanto mai saggi e concreti: leggere la Parola di Dio, meditarla, approfondirla, impregnarsi dalla sua ricchezza e farne uso nella nostra vita. Purtroppo, anche oggi la S. Scrittura è ignorata e manipolata. Ecco perché è importante averla spesso tra le mani e leggerla «con quello spirito con cui fu scritta». Per noi missionari, in più, è indispensabile  farla arrivare al popolo che Dio ci ha affidato. L'Allamano voleva che i suoi figli la portassero con sé, assicurando che «in missione avrete almeno il Nuovo Testamento e, se possibile, anche tutta la Bibbia». Per quel tempo era già un passo enorme.

Oggi possediamo non solo tutto l'Antico e il Nuovo Testamento, ma anche molti altri testi con approfondite esegesi e adeguati commenti, di modo che possiamo continuare “scrutarla” sempre più. Il nostro ideale, come figli e figlie di San Giuseppe Allamano, è di rassomigliargli almeno un po': che anche le nostre «parole siano un mosaico di espressioni che riflettono e ricordano le Scritture» come era per lui. Saremo così testimoni della Parola di Dio che è la Verità per gli esseri umani di tutti i tempi.

* Mons. Osório Citora Afonso, IMC, è vescovo ausiliare dell’Archidiocesi di Maputo, Mozambico.

Dt 6,2-6; Sal 17; Eb 7,23-28; Mc 12,28-34

Nel tempio di Gerusalemme Gesù ha accusato la casta sacerdotale al potere di aver trasformato il tempio in una spelonca di ladri. Non solo, ma ha accusato i capi di essere assassini che per interesse lo ammazzeranno. Naturalmente vogliono ammazzare Gesù, ma non possono perché hanno paura della folla e allora c’è tutta una serie di attacchi contro Gesù per provare a diffamarlo, attacchi dai quali Gesù esce ogni volta più rafforzato.

Quindi dopo l’attacco dei farisei e quello dei sadducei è ora la volta dello scriba, leggiamo Marco, il capitolo 12, dal versetto 28.

Allora è collegato a questi attacchi, si accostò uno degli scribi, gli scribi sono i teologi ufficiali del tempo che già hanno deciso che bisogna eliminare Gesù. L’evangelista ha detto che cercavano il modo di farlo morire, già al capitolo secondo avevano accusato Gesù di essere un bestemmiatore e quindi doveva morire. Uno degli scribi che li aveva uditi discutere e visto come aveva loro ben risposto gli domandò: “Qual è il primo di tutti i comandamenti”?

La domanda dello scriba non è volta ad apprendere, lui la risposta la sa già, ma vuole controllare qual è la posizione di Gesù perché Gesù ha un atteggiamento abbastanza distaccato nei confronti dei comandamenti. Qual è il primo di tutti i comandamenti ? Il primo di tutti i comandamenti è il comandamento che anche Dio osserva e qual è il comandamento che Dio osserva? Il riposo del sabato.

Pertanto, l’osservanza del riposo del sabato equivale all’osservanza di tutta la legge. La trasgressione del sabato equivale alla trasgressione di tutta la legge e per questo è punita con la morte. E Gesù non ha osservato il sabato, ha fatto diverse trasgressioni in questo giorno. Quindi la domanda era finalizzata non ad apprendere, ma a controllare, accusare.

Gesù rispose: “Il primo è, e qui è sorprendente la risposta di Gesù perché lo scriba gli ha chiesto qual è il primo, il più importante di tutti i comandamenti. Ebbene Gesù non cita nessun comandamento. Gesù si rifà al credo di Israele, Shemà Israele, Ascolta Israele, la preghiera che gli ebrei dovevano recitare due volte al giorno, alla mattina e alla sera, che si trova nel libro del Deuteronomio al capitolo sesto, dal versetto 4, ma non cita il decalogo. “Il primo è: Ascolta Israele!

Il signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, Gesù al testo ebraico aggiunge il possessivo per far vedere l’immediatezza, la forza di questo comando, con tutta la tua anima, è la vita, la psiche in greco, con tutta la tua mente e con tutte le sue forze”.

Ma per essere autentico l’amore verso Dio si deve tradurre in amore verso il prossimo e allora Gesù aggiunge a questa preghiera un precetto tratto dal libro del Levitico, al capitolo 19, e dice E il secondo è questo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Quindi c’è un amore a Dio assoluto e un amore al prossimo relativo. Questo è l’insegnamento per la comunità giudaica, ma non per la comunità di Gesù. Nella comunità di Gesù si lascerà un unico comandamento dove non viene richiesto l’amore a Dio perché il Dio di Gesù non assorbe gli uomini, ma comunica le sue energie e Gesù dirà “Vi lascio un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri”, questo lo troviamo nel vangelo di Giovanni al capitolo 13, versetto 34.

E Gesù, dopo aver espresso questo, conferma allo scriba che non c’è comandamento più importante di questo. Allora lo scriba gli disse: “Hai detto bene, Maestro”, ora finalmente lo scriba si rivolge a Gesù chiamandolo maestro, si riconosce il suo insegnamento, e secondo verità che Egli è unico e non vi altri all’infuori di lui, e nella risposta lo scriba omette la vita, dice amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso, ed ecco che lo scriba comprende finalmente qualcosa di nuovo, val più di tutti gli olocausti e i sacrifici. Già il profeta Osea aveva detto, era il Signore che parlava, “Voglio l’amore, la misericordia e non il sacrificio”, è questo che il Signore vuole e che Gesù è venuto a riproporre, non un sacrificio verso Dio, ma un amore verso gli altri. Questo è più importante di tutti gli olocausti e di tutti i sacrifici.

Ebbene Gesù vedendo che aveva risposto saggiamente gli disse: “Non sei lontano dal regno di Dio, perché non è lontano, ma non è vicino? Perché per entrare nel regno di Dio occorre la conversione e la conversione è basata su tre atteggiamenti che Gesù richiede: anziché accumulare per sé condividere generosamente con gli altri, anziché salire sopra gli altri abbassarsi con gli ultimi e anziché comandare servire, ma questo è difficile per uno scriba.

L’evangelista conclude che nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo, ma non si segnala nessuna reazione da parte dello scriba, non accoglie l’invito a far parte del regno. La sua era una domanda teorica, un’opinione scolastica, teologica, rimane all’interno della sua tradizione e non accoglie l’invito di Gesù, anche perché per entrare nel regno dovrebbe abbassarsi e dovrebbe mettersi a servire, e questo all’illustre teologo, al teologo ufficiale che rivestiva posizione importante nella società è quasi impossibile.

* Padre Alberto Maggi, OSM, Centro Studi Biblici G. Vannucci, a Montefano (Mc).

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