Nipote di san Giuseppe Cafasso per parte di madre, Giuseppe Allamano nasce a Castelnuovo d'Asti il 21 gennaio 1851. Frequenta il ginnasio a Valdocco e, come educatore, vanta nientemeno che don Bosco. A 22 anni è ordinato sacerdote a Torino e subito incaricato della formazione dei giovani seminaristi. A 29 è rettore del santuario mariano della città, dedicato alla «Madonna Consolata», e formatore del giovane clero al Convitto ecclesiastico.
Il 29 gennaio 1901 fonda a Torino l'Istituto dei Missionari della Consolata. L'8 maggio 1902 partono per il Kenya i primi quattro missionari, due sacerdoti e due fratelli coadiutori, seguiti, alla fine dello stesso anno, da altri quattro sacerdoti e un laico. Nel 1910 Allamano fonda le Missionarie della Consolata.
Muore a Torino il 16 febbraio 1926. La sua salma è conservata e venerata nella Casa Madre dei Missionari della Consolata, a Torino. Il Fondatore dei missionari e delle missionarie della Consolata è stato beatificato da Papa Giovanni Paolo II il 7 ottobre 1990 e la sua festa è stata fissata per il 16 febbraio, giorno del suo ritorno alla Casa del Padre.
Durante il Concistoro Ordinario Pubblico del lunedì 1° luglio 2024, Papa Francesco ha annunciato che la canonizzazione del Beato Giuseppe Allamano si terrà domenica 20 ottobre 2024 a Roma, giornata missionaria Mondiale.
* Video realizzato dall'equipe Comunicazione per la Canonizzazione
“Il Beato Giuseppe Allamano è santo da molto tempo; ora la Chiesa lo riconosce ufficialmente”, ha detto padre Paulo Mzé in una intervista alla TV Aparecida (Brasile).
La stazione televisiva TV Aparecida del Santuario della Madonna di Aparecida a San Paolo ha invitato il 31 luglio il Superiore Regionale dei Missionari della Consolata in Brasile, padre Paulo Mzé e Suor Benildes Capelotto, missionaria della Consolata, per un'intervista sulla canonizzazione del Beato Giuseppe Allamano, che si terrà il 20 Ottobre prossimo, Giornata Missionaria Mondiale, a Roma.
“Per noi è una gioia immensa. In effetti, per noi, il Beato Giuseppe Allamano è santo da molto tempo; ora la Chiesa lo riconosce ufficialmente”, ha sottolineato padre Paulo Mzé ricordando che il Fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata è stato beatificato il 7 ottobre 1990. “Il miracolo che ha permesso la canonizzazione, è avvenuto proprio in Brasile, nella terra indigena Yanomami presso la Missione Catrimani, dove lavoriamo da quasi 60 anni”, ha aggiunto il padre evidenziando l'importanza di questo momento storico. “Vogliamo celebrare con tutta la Chiesa”.
Suor Benildes Capelotto ha condiviso sull'origine e il carisma delle due congregazioni fondate a Torino, quando il Beato Giuseppe Allamano era rettore del Santuario della Consolata, un centro di devozione mariana per Torino e tutto il Piemonte. “La missione specifica dei due istituti è la prima evangelizzazione e la Consolazione, con un’attenzione particolare verso i più poveri e vulnerabili. Il nostro Carisma è la missione ad gentes per portare al mondo la Consolazione”.
I missionari e le missionarie della Consolata nati rispettivamente nel 1901 e 1910, oggi sono presenti in 30 Paesi dell’Europa, Africa, Asia e Americhe.
Padre Paulo ha ricordato che il Beato Allamano, fin da quando era un giovane sacerdote, sentiva raccontare molte storie sulle missioni in Africa. “A causa della sua salute fragile non poté andare in missione, nonostante il suo cuore missionario. Però riuscì a radunare diversi sacerdoti dell’archidiocesi di Torino e del Piemonte che erano desiderosi di andare in missione in Africa. Il nostro carisma è la missione ad gentes, consacrati a portare la Consolazione nel mondo. Siamo “Consolata” di nome e di cognome, la nostra ispirazione e motto è: «Annunceranno la mia gloria alle genti» (Isaia 66,19)”
I missionari della Consolata arrivarono in Brasile nel lontano 1937 a San Manuel, San Paolo, mentre le missionarie arrivarono qualche anno più tardi, nel 1946, “quando un gruppo di suore, espulse dall'Etiopia durante la Seconda guerra mondiale, iniziarono una prima presenza a Rio do Oeste, nello Stato di Santa Catarina”, ha ricordato Suor Benildes. In seguito furono aperte altre comunità in diverse parti del Paese, in particolare nell’Amazzonia. “Il nostro carisma è portare la Consolazione nei luoghi dove nessuno vuole andare, ai più poveri, ai più vulnerabili e a coloro che soffrono”.
Qui sotto il link dell’intervista a padre Paulo Mzé e a Suor Benildes Capelotto - TV Aparecida (Portoghese)
Uno dei momenti più toccanti dell'intervista è stato il racconto del miracolo che ha portato alla canonizzazione di Giuseppe Allamano. Suor Benildes ha raccontato la storia di Sorino, un indigeno Yanomami assalito e gravemente ferito alla testa da un giaguaro. “Altri indigeni e una suora lo trovarono insanguinato e riposero la parte della massa celebrale fuoruscita nella scatola cranica fasciandola con una maglietta e allo stesso tempo chiamarono un aereo per portarlo a Boa Vista per un intervento chirurgico. Questo avvenne il 7 febbraio 1996, all'inizio della novena in preparazione alla festa del nostro Fondatore. Tutti i missionari pregarono per la guarigione di Sorino. I medici, che inizialmente erano scettici sulla sopravvivenza di Sorino, assistettero alla sua completa guarigione, che fu riconosciuta come un miracolo dalla Santa Sede”.
“Stiamo preparando e sensibilizzando tutta la Chiesa. In Brasile ci sono 22 comunità, tra parrocchie, seminari e case, che si stanno preparando a celebrare il nuovo Santo", ha spiegato padre Paulo Mzé sottolineando l'importanza di celebrare questo momento storico. “L'ideale sarebbe che tutti andassero a Roma, ma ognuno celebrerà nella propria comunità. Il miracolo avvenuto in Amazzonia conferma l'importanza di questa regione per la missione della Chiesa”.
Al termine dell'intervista, padre Paulo Mzé ha rivolto un invito speciale a quei giovani interessati a conoscere meglio l’Allamano o diventare missionari della Consolata, incoraggiandoli a scoprire la loro vocazione e a unirsi alla missione aggiungendo: “Siamo presenti in internet e nei social media: www.consolata.org.br Twitter, YouTube, Consolata Brasil”.
* Redazione IMC Brasile con informazioni della TV Aparecida
Il miracolo riguarda la guarigione di Sorino Yanomami, assalito e gravemente ferito da un giaguaro, nella foresta amazzonica brasiliana, il 7 febbraio 1996. Sorino è guarito e ha recuperato completamente la salute grazie all'intercessione del Beato Giuseppe Allamano.
DESCRIZIONE DELL’EVENTO
Sorino Yanomami è un indigeno di etnia Yanomami, nato nella comunità di Maimasik (Roraima-Brasile), presumibilmente nel 1955 (giorno e mese non sono registrati). Residente nella comunità di Yaropi (nella regione del medio corso del fiume Catrimani), è sposato con Helena Yanomami, ma senza figli. L’ambiente in cui è inserita la sua comunità è l’immensa foresta amazzonica, da cui, come gli altri membri del suo popolo, può ottenere ciò che è fondamentale per vivere, tramite la raccolta, la caccia, la pesca e la coltivazione di grandi orti.
La sua maloca (abitazione indigena, usando un termine tupi entrato nel vocabolario del portoghese brasiliano) è, tuttora, nei pressi di una “comunità missionaria della Consolata”, lì presente dal 1965 e costituita da religiosi (padri e fratelli coadiutori) e da suore missionarie.
Il superiore di allora, Guglielmo Damioli, così ricorda Sorino: «Lungo gli anni, già sposato, col suo gruppo familiare, Sorino era venuto a costruire la sua maloca all’inizio della pista di atterraggio della missione. Appariva frequentemente alla missione, sempre accompagnato dalla sua giovane sposa. Uomo comune, semplice, con un sorriso perenne sul volto. Buon cacciatore, in foresta, sulla fragile canoa, gran lavoratore nella piantagione per contribuire col gruppo e sostenere la sua famiglia».
Proprio nel cuore della foresta, quella mattina del 7 febbraio 1996, Sorino Yanomami subisce l’assalto di una femmina di giaguaro (onça pintada).
Suor Florença Lindey con Sorino e la moglie nella casa di cura per gli indigeni, Hekura Yano a Boa Vista
Sempre Gugliemo Damioli, così racconta: «Il giaguaro, come di consueto, ha attaccato Sorino di sorpresa, alle spalle. Con una zampata, gli ha fratturato la scatola cranica. Sul posto, per terra, furono trovati dagli indigeni pezzi di osso e parte di massa encefalica. Nonostante la gravità estrema delle ferite, Sorino non perse i sensi; riuscì a svincolarsi, ad alzarsi e a usare l’arco come una lancia per tenere il giaguaro a una certa distanza, mentre gridava, chiedendo aiuto. In pochi minuti, con le grida e l’arrivo degli indigeni armati di archi e frecce, il giaguaro fuggiva».
Il cognato di Sorino, B. (non riportiamo il nome, per rispetto delle usanze Yanomami che non pronunciano più il nome di una persona già morta), corre al piccolo dispensario della missione a cercare soccorso e l’infermiera titolare, suor Felicita Muthoni, missionaria della Consolata kenyana, si precipita sul luogo dell’incidente per rendersi conto della situazione e prestare le prime cure.
Così, la suora ricorda quei primi momenti: «Ho visto Sorino per terra, in un bagno di sangue, sono rimasta impietrita, bloccata e tremante, non sapendo cosa fare. Ho chiamato sua madre e ho chiesto dell’acqua; poi ho capito che il cuoio capelluto sporgeva e che Sorino stava anche sanguinando molto; c’era molta sabbia, sporcizia e parte del cervello era fuoriuscito. Ho spinto dentro il cervello e poi ho preso il cuoio capelluto e l’ho rimesso a posto, ma continuava a sanguinare; era vivo, ma non parlava. Siccome non avevo portato niente con me, ho preso l’unica cosa che avevo, la maglietta che indossavo: me la sono tolta e l’ho avvolta alla testa di Sorino, per premere meglio e fermare un po’ l’emorragia.
Ho poi mandato qualcuno a cercare la Toyota, in servizio alla nostra missione. Con dona Creuza, nostra aiutante, lo abbiamo messo in un’amaca e poi sistemato nella Toyota arrivata nel frattempo con fratel Antonio Costardi che si trovava anche nella missione. Sono rimasta con lui seduta nella parte posteriore, tenendogli la testa e ci siamo diretti al piccolo dispensario della missione».
Suore missionarie della Consolata di ritorno dalle visite alle comunità lungo il fiume Catrimani
Riferisce ancora suor Felicita: «Ho guardato le sue mani, ma le vene non erano più visibili. Avevo del plasma e l’ho messo in un piede e, all’altro piede, una flebo di glucosio con un forte analgesico».
Vista la situazione di estremo pericolo, suor Felicita chiede che Sorino venga trasportato all’ospedale di Boa Vista, capoluogo dello stato di Roraima. Riesce a contattare la CCPY (Commissione Pro Yanomami) e le viene assicurato un posto sul piccolo aereo che fa servizio nella vasta area indigena, anche se dovrà aspettare un po’, perché le richieste di aiuto sono numerose.
Ma i compagni di Sorino si oppongono alla proposta di trasferire il paziente a Boa Vista. Come è frequente nella retorica che accompagna situazioni di tensione e preoccupazione, arrivano anche a proferire minacce; per loro, infatti, è inconcepibile che uno Yanomami possa morire fuori dal suo villaggio, senza l’accompagnamento dei parenti e di uno sciamano. Lo spirito di Sorino era pronto a fare il suo viaggio. Gridano: «No! Sorino resterà qui! Lo sciamano ha già detto che, quando il sole tramonterà, lui entrerà nella casa degli spiriti e salirà in alto».
Alla fine, cedono alla richiesta di suor Felicita, ma con una minaccia terribile: se il loro compagno dovesse morire in città, lontano dalla foresta e tra “i bianchi”, uccideranno, con le loro frecce, i missionari presenti al Catrimani.
Mentre si attende l’arrivo dell’aereo, un ragazzo porta una foglia di banano arrotolata, con dentro un frammento di osso della testa di Sorino, rinvenuto nel luogo dell’incidente, e formula una sua “diagnosi”: «Noi abbiamo visto bene quando Sorino è arrivato. Abbiamo visto il cervello, abbiamo visto l’osso, l’abbiamo tirato fuori e arrotolato e poi abbiamo parlato con gli xapuri, gli spiriti della foresta: Sorino non può vivere, perché il cervello è fuoriuscito!».
Verso le 14,00, con l’arrivo dell’aereo, Sorino viene imbarcato, accompagnato dal tuxaua (capo del villaggio) C. Dopo circa un’ora di volo, all’aeroporto di Boa Vista, viene accolto da Suor Rosa Aurea e Suor Lisadele, che lo trasportano immediatamente all’Ospedale Generale.
Ricordava il dott. José Nunes da Rocha, un medico che ha avuto in cura Sorino: «Quella di Sorino era una situazione molto grave e il paziente respirava con affanno, esalava miasma e non credevamo molto nella guarigione, perché il modo in cui era infetto, putrido e in un posto “nobile” come il cervello, avrebbe causato encefalite e meningite. Quindi, non avevamo davvero molte speranze, ma lui era arrivato vivo e dovevamo curarlo, facendo tutto il possibile».
Sorino giunge, dunque, al Pronto Soccorso dell’Ospedale Generale in stato di coma, in shock ipovolemico, con una vasta ferita al cranio (perdita di cute, osso, dura madre, estesa lesione fronto-temporo-parietale con perdita di sostanza cerebrale).
In anestesia generale, viene effettuato il lavaggio della ferita, che è contaminata da terra, frammenti ossei e sangue coagulato. Il paziente tollera la procedura senza problemi, ma a causa della perdita significativa di tessuto e dell’elevato rischio di infezione, la ferita viene lasciata aperta.
L'interno di una maloca - abitazione Yanomami. Foto: Jaime C. Patias
Sulle condizioni del paziente abbiamo la testimonianza di suor Florença Lindey, religiosa che aveva lavorato al Catrimani e che conosceva bene Sorino e la sua famiglia: «Quando sono tornata a Boa Vista e i medici hanno saputo che ero arrivata, mi hanno chiamata per andare in ospedale. Sorino era stato ricoverato in terapia intensiva, non parlava e non mangiava. Quando sono entrata nella stanza, è rimasto sorpreso di vedermi, voleva abbracciarmi e parlare. Dopo alcuni giorni, è stato dimesso dalla terapia intensiva e trasferito in infermeria. Stava migliorando sempre di più, specialmente nell’umore, quando qualcuno che conosceva era con lui. Ad un certo punto del ricovero, è stato necessario eseguire un secondo intervento chirurgico, ma lui era contrario. Non è stato facile convincerlo, era molto determinato, aveva un carattere forte. Ho parlato con i medici e mi hanno permesso di accompagnarlo in sala operatoria; gli hanno spiegato e gli hanno assicurato che non avrebbe sentito dolore; quindi, ha accettato di sottoporsi all’intervento. Sono stata nella stanza per tutto il tempo dell’intervento. Quando è stato dimesso dal reparto di chirurgia, era ancora ricoverato in ospedale e sono sempre rimasta con lui, fino a quando non è stato trasferito alla casa di cura per gli indigeni, Hekura Yano», per la convalescenza.
Dal Diario della missione Catrimani, sappiamo che Sorino rientra al suo villaggio l’8 maggio, accolto dallo stupore e dalla gioia della sua famiglia, dei missionari e dai membri della sua comunità: è quasi perfettamente guarito, ma con l’obbligo di essere ancora seguito dal dispensario del Catrimani, presentandosi, ogni 15-20 giorni, per il controllo e le medicazioni.
Sull’aereo che lo riporta a casa, c’è anche suor Lisadele, la quale annota: «Sorino stava rientrando per la prima volta al Catrimani… ho visto la sua gioia di tornare. Ogni maloca lo stava aspettando, fu molto bello. La ferita era ancora semiaperta, quindi ho avuto l’opportunità di applicargli le medicazioni; lo lavavo con acqua ossigenata, lo pulivo con una garza e poi gli mettevo in testa il mio cappello, ma solo per proteggerlo dal sole».
Sorino riprende, così, la sua vita normale di “abitante della foresta” nelle sue attività di cacciatore, pescatore, agricoltore, anche se più debole per gli acciacchi dell’età che avanza, le anemie causate dalla malaria (endemica in quei luoghi) … mentre le sue condizioni di salute, al di là di ogni previsione, rimangono buone e senza alcuna conseguenza negativa dell’incidente.
Lui stesso, così si descrive, durante l’Inchiesta diocesana (2021): «Quando sono tornato dall’ospedale, facevo come gli altri Yanomami: lavoravo, coltivavo i campi, solo che ora non posso più lavorare, perché sono vecchio. Lavoro solo la mattina presto e, quando il sole diventa alto, torno a casa. Ma mi sento bene».
Interessante la testimonianza della dott.ssa Roberta Barbaro: «In data 4 marzo 2019 (dunque, ben 23 anni dopo l’assalto del giaguaro mi sono recata presso la missione Catrimani, ho incontrato Sorino Yanomami, avendo modo di osservarlo nella sua quotidianità. Sorino ha fornito un racconto dettagliato dell’incidente accorso nel 1996. Ha riferito di condurre una vita normale, continuando a svolgere le sue attività di caccia e pesca, senza problemi».
E conclude: «Il paziente presenta oggi completa ripresa funzionale e senza postumi alcuni, duratura nel tempo, che alla luce delle estese lesioni cerebrali riportate in seguito al trauma con perdita di sostanza, risulta scientificamente inspiegabile».
Mons. Mário Antonio con la Commissione durante il processo diocesano per la canonizzazione del Beato Allamano. Foto: Diocesi di Boa Vista
La vicenda “umana e sanitaria” dell’indigeno Sorino Yanomami ha come sfondo un intenso movimento di fede e invocazione, ad opera soprattutto delle suore missionarie, che lo hanno assistito e accompagnato in tutto il decorso della sua malattia e guarigione.
Una “coincidenza”: il giorno dell’incidente in foresta era anche il primo giorno della novena, in preparazione alla festa del Fondatore dei missionari/e della Consolata, che cade il 16 febbraio. Da ciò, le suore hanno tratto l’ispirazione di affidare Sorino all’intercessione del beato Giuseppe Allamano.
Dal 7 al 16 febbraio 1996, e anche nei mesi successivi, sia alla missione del Catrimani, come nella Casa Regionale delle missionarie, a Boa Vista, si è intensificata l’invocazione, espressa in umili gesti, come il cero acceso per tutto il tempo della novena o, subito dopo l’operazione, l’azione furtiva di suor Maria Da Silva Ferreira di infilare, sotto la stuoia di Sorino, una reliquia del Fondatore.
Un esempio dell’intensa preghiera da parte delle suore di Roraima è quella di suor Felicita Muthoni, nella missione del Catrimani, dopo la partenza di Sorino per l’ospedale della città: «Oh, mio Dio, oggi iniziamo la novena del nostro Fondatore. Ho detto: Hai fondato i tuoi missionari per i non cristiani. Per questo popolo, ti chiederò una cosa: che Sorino possa guarire completamente (perché, se guarisce e rimane storpio, non può vivere nella foresta). Guarisca completamente, per poter cacciare, coltivare, pescare… può guarire, se tu intervieni!».
Iniziava da quel momento il percorso di guarigione di Sorino Yanomami che, nonostante la prognosi infausta, «guarisce completamente, per poter cacciare, coltivare, pescare», come aveva chiesto al Fondatore, suor Felicita Muthoni.
* A cura della Postulazione a Roma.
Il 01 luglio 2024, il Santo Padre, Papa Francesco, ha annunciato la data prevista per la canonizzazione del Beato Giuseppe Allamano. Si tratta del 20 ottobre 2024. Sia la data che il mese in cui il Fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata sarà canonizzato sono di inestimabile importanza.
Ottobre ha un significato speciale nella Chiesa: è il mese delle missioni e la missione è la ragion d'essere della Chiesa che esiste per evangelizzare. Durante il mese delle missioni si intensifica l'animazione missionaria, ci uniamo tutti in preghiera e facciamo sacrifici e donazioni per le missioni, perché vogliamo che il Vangelo sia annunciato in tutto il mondo.
Perché il Beato Giuseppe Allamano sarà canonizzato nel mese delle missioni? Egli fu un uomo di missione con la bocca, la mente e il cuore e promosse molto l'evangelizzazione dei popoli al di fuori della sua chiesa locale, del suo Paese e del suo continente. Convinto dell'importanza di questo compito, fondò i due istituti missionari al servizio dell'evangelizzazione prima in Africa e poi in altri continenti.
La sua canonizzazione, che proclama la santità di un sacerdote che ha promosso l'urgenza della missione nella Chiesa, è un'occasione preziosa per sensibilizzare sull'importanza della missione nella vita della nostra Chiesa.
A questo dobbiamo aggiungere che ottobre è anche il mese del rosario. Anche il beato Giuseppe Allamano, che era un devoto della Vergine Maria con il titolo di Consolata, aveva una forte devozione per il rosario. Del rosario diceva: “È la migliore meditazione sulla vita del Signore e di Maria” (Così vi voglio N. 169).
Il 7 ottobre 1990, 34 anni fa, il Beato Giuseppe Allamano veniva beatificato da Papa Giovanni Paolo II. Era un altro mese di ottobre e Giovanni Paolo II lo riconobbe con queste parole: “Santo della Consolata, padre provvidente, formatore e maestro del clero, sacerdote per il mondo” (Così vi voglio, pag. 20).
Il 20 ottobre la Chiesa celebrerà anche la Giornata Missionaria Mondiale: in questo giorno i fedeli sono incoraggiati a contribuire spiritualmente e materialmente all'opera di evangelizzazione della Chiesa. Il Beato Giuseppe Allamano ha trascorso gran parte della sua vita svolgendo questo lavoro con la sua chiesa locale di Torino, motivo per cui ha fondato i suoi due Istituti missionari. Canonizzarlo in occasione della Giornata Missionaria Mondiale significa riconoscere il suo contributo indelebile all'evangelizzazione dei popoli, e un'occasione per continuare a sensibilizzare la Chiesa sull'importanza della missione ad gentes oggi. L'urgenza di annunciare Gesù Cristo a persone che non lo conoscono o che sono indifferenti al suo messaggio di salvezza non è meno importante oggi di quanto lo fosse ai tempi del Beato Giuseppe Allamano.
La missione ad gentes ha sempre caratterizzato il pensiero di Giuseppe Allamano. Ai suoi missionari, da lui fondati per l'evangelizzazione dei popoli, insisteva sul fatto che la santità era la ragion d'essere della loro vocazione missionaria e la “conditio sine qua non” per riuscire a evangelizzare secondo il cuore di Gesù: “Il fine primario dell’Istituto, è la santificazione dei membri e la conversione dei popoli (…) Sbaglierebbe chi dicesse: «Sono venuto per farmi missionario e basta!». No, non basta affatto. Non bisogna cambiare i termini: prima la nostra santificazione, poi la conversione degli altri (Così vi voglio N. 3). Grazie al carisma ad gentes che i Missionari e le Missionarie hanno ereditato dal loro santo Fondatore, oggi sono sparsi in varie parti del mondo e dal loro lavoro sono nate diverse chiese locali in Africa, America e Asia.
* Lawrence Ssimbwa, IMC, parroco di San Martin de Porres a Buenaventura, Colombia.
Il 23 maggio scorso la sala stampa del Vaticano annunciava che papa Francesco aveva approvato l’avvenuto miracolo della guarigione dell’indigeno Sorino Yanomami, per intercessione di Giuseppe Allamano. Un passaggio che ha aperto le porte alla prossima canonizzazione, cioè alla proclamazione della santità del nostro fondatore (che avverrà il prossimo 20 ottobre, come deciso dal Concistoro del 1° luglio).
Questo atto del Papa è il coronamento di un lungo itinerario, durato parecchi decenni, che aveva trovato il suo culmine nella beatificazione di don Giuseppe Allamano, avvenuta il 7 ottobre 1990 in Piazza San Pietro a Roma, da parte del papa Giovanni Paolo II. Mancava ancora il riconoscimento da parte della Chiesa di un miracolo per poterlo infine proclamare «santo». Ora anche l’ultima meta è stata raggiunta.
Molte persone si interrogheranno sul perché di questo cammino durato tanti anni con la raccolta di testimonianze, documentazione, ricerca delle grazie ricevute in varie parti del mondo. Ne valeva la spesa? Altri ancora, in maniera forse più radicale, si potrebbero domandare: che bisogno ha la Chiesa di proclamare i santi? Essi hanno raggiunto felicemente il loro obiettivo e vivono nella pace del Paradiso. A questi interrogativi risponde in maniera magistrale papa Benedetto XVI che, dopo aver presentato parecchi profili di santi, il 13 aprile 2011, ha affermato: «Nelle udienze generali di questi ultimi due anni ci hanno accompagnato le figure di tanti santi e sante: abbiamo imparato a conoscerli più da vicino e a capire che tutta la storia della Chiesa è segnata da questi uomini e donne che con la loro fede, con la loro carità, con la loro vita sono stati dei fari per tante generazioni, e lo sono anche per noi. I santi manifestano in diversi modi la presenza potente e trasformante del Risorto; hanno lasciato che Cristo afferrasse così pienamente la loro vita da poter affermare con san Paolo “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Seguire il loro esempio, ricorrere alla loro intercessione, entrare in comunione con loro, “ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla fonte e dal capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso del popolo di Dio” (Lumen gentium, 50)».
La storia, quella che troviamo scritta nei libri o illustrata in opere d’arte, dà importanza a chi conta nella produzione di beni materiali o a chi rende più bello il mondo con l’arte e la poesia oppure ha aiutato a sconfiggere epidemie. Similmente avviene anche con i santi che hanno arricchito la Chiesa con i loro scritti o la loro testimonianza di vita. La loro opera è a beneficio di tutti, tutti ne godiamo. I santi – possiamo affermare – sono uno scrigno di valori che ridondano a beneficio di tutta la cristianità. Quanto povera sarebbe la Chiesa se perdesse questi legami tra i santi in cielo e noi qui in terra. Per questo motivo essa ci esorta a non lasciare perdere questa comunione tra coloro che già hanno raggiunto il cielo e noi tutti ancora pellgrini qui in terra, ma desiderosi dello stesso traguardo. La ormai prossima canonizzazione, attraverso la voce del Papa, inviterà con forza tutta la Chiesa ad affidarsi con fiducia all’intercessione di Giuseppe Allamano e soprattutto a guardare al suo esempio di vita come faro che illumina e guida il cammino dei cristiani.
Quale messaggio ci possiamo aspettare dalla proclamazione di Giuseppe Allamano «santo»? Senza dubbio che venga rivolto un richiamo forte a ogni battezzato affinché metta sempre Dio al centro della propria vita per farlo punto di riferimento in ogni sua scelta, che aborrisca ogni chiusura per sentirsi quello che tutti noi siamo: famiglia di Dio, solidale e fraterna, aperta e attenta ai segni dei tempi.
Sono sicuro che quando papa Francesco proclamerà l’Allamano santo non mancherà di far riecheggiare ancora una volta uno dei suoi richiami più frequenti affinché la Chiesa sappia imitare i santi come il nostro fondatore per sentirsi «in uscita», aperta al mondo intero e nella predilezione per l’umanità più povera.
La Chiesa in uscita è quella che «sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva» (Evangelii gaudium 24).
* Pietro Trabucco, IMC, Castelnuovo don Bosco. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it