Il Vicariato di Puerto Leguízamo Solano (Colombia), nato dall'ex giurisdizione ecclesiastica del Vicariato di San Vicente, ha appena festeggiato 10 anni di fondazione e l’ha fatto con il suo primo vescovo, Mons. Joaquín Pinzón, Missionario della Consolata, che pochi giorni fa ha anche lui festeggiato il decimo anniversario di ordinazione episcopale. Recentemente è stato a Roma per la visita "ad limina" di una parte dell'episcopato colombiano; gli abbiamo chiesto quali sono stati i tre più grandi successi e le tre più grandi sfide di questa giovane chiesa che ha guidato fin dalla sua creazione.
Un primo aspetto positivo del cammino di questo vicariato è stato quello di essere più vicini come Chiesa alle comunità che nella geografia amazzonica vivono in luoghi periferici e spesso a notevole distanza dai centri abitati più importanti. La prima cosa che la Chiesa ha voluto fare in questo territorio è stata quella di farsi presente. È una presenza umile ma disposta a incoraggiare, accompagnare e sostenere la popolazione nel su cammino e nella su quotidianità non sempre facile.
Una seconda conquista è stata quella di entrare in sintonia con il Sinodo dell'Amazzonia prestando attenzione ai diversi volti che compongono la pluralità etnica di questa regione: gli indigeni, i contadini, gli afro-discendenti. La nostra chiesa è fatta da loro, sono loro che disegnano il volto unico e plurale di questa chiesa amazzonica.
Un terzo risultato è aver ottenuto dei giovani che in prima persona si stanno impegnando in un cammino vocazione serio: saranno loro i ministri del domani. È bello vedere questo piccolo gruppo di giovani che vogliono mettersi al servizio dell'Amazzonia e della frontiera.
Non sono poche le sfide che abbiamo davanti e in qualche modo loro rappresentano indicatori, percorsi e orizzonti verso i quali orientare il cammino della Chiesa che vuole rispondere ai bisogni e ai sogni della gente di questo immenso territorio.
Un primo percorso è quindi il processo di accompagnamento degli animatori indigeni e campesinos, affinché possano emergere i diversi ministeri necessari alla crescita e alla maturità di questa chiesa.
Un secondo percorso è quello di rafforzare le vocazioni indigene; uomini e donne che, desiderosi di seguire Gesù, si impegnano nella crescita di questa Chiesa amazzonica e di frontiera.
Una terzo orizzonte invece ci invita a tessere relazioni sempre più profonde con le Chiese vicine, quelle dell'Ecuador e del Perù, che consideriamo come sorelle perché con loro condividiamo tutto: il territorio, la preoccupazione per l'ambiente e l'impegno per vivere in questa casa comune, fragile ed esuberante, che ci accoglie. I nostri popoli sono vicini e sono fratelli e sorelle. Con tutti loro, in Cristo, vogliamo avere vita piena.
* Mons. Joaquín Pinzon, Missionario della Consolata, è il vescovo di Puerto Leguízamo (Colombia)
Le popolazioni indigene e i migranti venezuelani, vittime di pregiudizi nella società di Roraima, sono stati i protagonisti dell'accoglienza al nuovo Vescovo diocesano di Roraima davanti alla Cattedrale del Cristo Redentor a Boa Vista. Essere accolti da coloro che non contano è un segno di Dio, che sceglie coloro che la società scarta.
Così ha preso possesso della sua nuova diocesi di Roraima Mons. Evaristo Spengler che è stato accompagnato, in una emozionante liturgia, dai Vescovi della Regione Nord della Conferenza Episcopale Brasiliana (CNBB), da altri prelati provenienti da diversi angoli del Brasile e del Venezuela, da un folto numero di sacerdoti, religiosi e rappresentanti di parrocchie e comunità e dai suoi due predecessori, mons. Mario Antonio da Silva e mons. Roque Paloschi.
La cerimonia si è svolta nella cattedrale di Cristo Redentor con una liturgia ricca di simboli amazzonici e nel giorno della solennità dell'Annunciazione del Signore, quando questa comunità diocesana si appresta a cominciare la preparazione ai 300 anni di evangelizzazione che si compiranno nel 2025. I popoli indigeni e i migranti venezonali, presenti numerosi nella cattedrale, hanno avuto un ruolo importante: la lingua spagnola e Macuxi è stata utilizzata nella proclamazione delle letture, nel canto e in altri momenti della celebrazione.
Riflettendo a proposito del Mistero dell'Annunciazione, il vescovo Evaristo ha messo in evidenza come Dio abbia inviato il suo angelo in una regione disprezzata, per incarnare un Messia che ha voluto far parte della povera gente e che ha rivelato che "il Regno di Dio è presente soprattutto nelle persone più umili". Questo è molto evidente nella figura di Maria che ha superato tutte le paure per far suo il progetto di Dio e "portare nel cuore la certezza che Dio cammina con lei e con i poveri. Alcune paure fanno molto male –ha ricordato Mons. Evaristo– e ci impediscono di camminare e di costruire un futuro coerente e più autentico con il Vangelo".
Da qui il nuovo Vescovo della Diocesi di Roraima ha visto l'urgenza di "costruire una Chiesa di speranza e fiducia in Dio" e, chiamando tutti ad assumere la propria vocazione battesimale, ha insistito che dobbiamo continuare ad essere “popolo di Dio in cammino, sempre insieme, senza paura, disposti a costruire comunità di servizio per mezzo delle nostre Comunità Ecclesiali di Base”.
Sull'esempio di Maria "questa Chiesa particolare ascolta la chiamata di Dio attraverso il grido del suo popolo", lo stesso che hanno fatto i primi missionari che sono arrivati 300 anni fa e, "con molto sacrificio per le difficoltà che hanno sperimentato in spostamenti, comunicazioni e risorse qui si sono lasciati consumare nella testimonianza del Vangelo vivo. Loro hanno costruito questa Chiesa che non si è mai lasciata guidare dagli applausi o dalle critiche, ma dalla fedeltà al Vangelo di Gesù Cristo", fino a dare la vita, come è accaduto a padre Calleri IMC.
Commentando il momento attuale il nuovo vescovo ha detto che “la nostra Chiesa non può tacere di fronte alla tragedia del popolo Yanomami, di fronte alle loro terre invase dalle miniere illegali che li hanno privati del territorio, della salute, della pace, dei mezzi di produzione alimentare e, in poche parole, della vita stessa. Quindi la Chiesa di Roraima ribadisce ancora una volta il suo impegno a favore dei popoli indigeni in difesa della vita e del territorio”. Questo impegno, ha aggiunto il Vescovo, si estende anche ai migranti che "desidera accogliere e inserire in questa terra, molti di loro partecipano già alla vita delle comunità cristiane della diocesi”.
Mons. Evaristo Spengler ha anche ricordato, riflettendo sul ministero del vescovo, che "più importante del Vescovo è la Chiesa" e ha concluso con una professione di fede nella Chiesa in cui crede: una Chiesa fedele al Vangelo e sempre attenta alla Parola; una Chiesa al servizio dell’umanità e a difesa della vita soprattutto dove è più minacciata; una Chiesa alleata dei poveri, degli indigeni, dei migranti, delle donne, dei giovani e degli affamati; una Chiesa che fa l'esperienza della condivisione e della solidarietà; una Chiesa responsabile della Casa Comune, che ama, cura e difende la nostra sorella Madre Terra; una Chiesa profetica e ministeriale, fatta di Comunità e testimone di sinodalità.
“In questa Chiesa del Roraima tre volte centenaria –ha concluso mons. Evaristo– mi sento tranquillo e abbastanza sicuro, non per le mie forze, ma per la testimonianza, la fedeltà e profetismo della Chiesa stessa".
Al termine della celebrazione, c'è stato un momento di ringraziamento per il nuovo vescovo che ha coinvolto sacerdoti, religiosi e laici. Il nuovo vescovo è stato anche accolto dal sindaco della città, che gli ha dato il benvenuto nella città di Boa Vista, sede della diocesi di Roraima.
* Padre Luis Miguel Modino, consigliere per la comunicazione della CNBB Nord.
Sono passati dieci anni da quel momento indimenticabile in cui il nuovo Vescovo di Roma chiese a quello che sarebbero stati suoi parrocchiani di pregare per lui prima di impartire la sua benedizione alla città e al mondo.
Francesco è un papa argentino, gesuita e con il nome del santo di Assisi. È un papa di molte "prime volte", che ha invitato a “fare casino”, che sogna una primavera ecclesiale e pontificia. Parlare di questo papa significa molto spesso tessere un “noi” perché la sua eredità mette in movimento molte persone e intreccia tante storie come le fibre che formano un cesto.
E a proposito dell’Amazzonia? Cosa è cambiato tra il 2013 e il 2023 per quanto riguarda l'evangelizzazione delle persone che occupano questo spazio che è garante della vita della nostra grande Casa Comune? Penso che potremmo riassumere tutto questo in 10 punti:
L'Amazzonia non è solo il cuore biologico del pianeta. È anche un laboratorio ecclesiale di esperienze in cui si stanno cuocendo al fuoco sacro del Vangelo nuovi modi di incarnare la buona notizia del Regno di Dio e di muoversi verso un'Ecologia Integrale, come ha proposto l'Assemblea del Sinodo dei Vescovi per la regione panamazzonica.
La dimensione locale e regionale del camminare insieme nell’Amazzonia ha avuto e avrà profonde implicazioni universali in aspetti che toccano la vita di chiesa, la pastorale, la cultura e l’ecologia del nostro Pianeta blu.
Coerentemente con la sua personale forma di intendere la chiesa che deve essere missionaria, aperta, non autoreferenziale e più simile a un ospedale da campo che a un castello medievale, Papa Francesco ha optato per le persone più fragili e vulnerabili, quelle che abitano uno dei biomi più minacciati della Terra.
I popoli amazzonici sono a serio rischio di estinzione a causa dei cambi climatici e dell’occupazione delle loro terre che li rende vittime di predazioni di ogni tipo con forti indici di discriminazione ed esclusione. Proprio con queste comunità ancestrali il Papa ha stabilito un canale di dialogo, valorizzando la loro saggezza, riconoscendo la loro dignità e promuovendo scenari per rendere visibili le loro particolari interpretazioni del mondo.
Il famoso metodo pastorale "vedere, giudicare, agire" è stato valorizzato dalla dinamica "ascoltare, discernere, rispondere". Il significato del cammino sinodale è precisamente quello di "camminare assieme" verso quelle periferie geografiche ed esistenziali dei luoghi che abitiamo. Nel caso esemplare dell'Amazzonia contempliamo le meraviglie della creazioni e ascoltiamo amorevolmente i vari gruppi etnici nel quali Dio si compiace e si rivela.
Precisamente per la sua varietà etnica e culturale l'Amazzonia non è una “natura” senz’anima o un deposito di "risorse naturali"; non è una dispensa che rifornisce il consumo malsano delle società industrializzate; non è una massa forestale che svolge la funzione di mitigare l'impatto dei gas serra.
Dio, uno e trino, preziosa comunità di amore infinito (Laudato Sii 246), naviga, cammina e abita anche la foresta; in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo. Grazie all’impegno di tante persone, del papa, delle chiese locali amazzoniche, questa immensa regione è passata da "periferia" a "centro" non solo a livello socio-economico e politico, ma anche in una prospettiva spirituale e teologica. L'Amazzonia è un santuario, una cattedrale, una basilica, dove ogni Eucaristia viene celebrata anche sull'altare del mondo e della storia e dove tutto diventa condivisione: la manioca, la fauna, la flora, i sogni, il cielo e il suolo.
Papa Francesco, come San Giuseppe, é al servizio dei sogni del Dio che custodisce la vita, dà nome alla salvezza e libera da ogni male e pericolo. Quando, in “Querida Amazonia”, propone i suoi quattro sogni (sociale, culturale, ecologico ed ecclesiale) non usa solo un linguaggio tecnico, ma anche poesia e immagini simboliche, per suggerire che il sogno ecclesiale va sempre di pari passo con i sogni sociali, culturali ed ecologici. Una Chiesa dal volto amazzonico sarà possibile solo vivendo un'ecologia integrale e una visione sacra del territorio dove i riti sono in armonia con i miti, la scienza con la coscienza, la credenza con la coerenza.
Il Sinodo dell'Amazzonia non ha prodotto solo un messaggio ma tutto un processo e un modo di fare chiesa in cui il recupero della relazione affettiva con il territorio è fondamentale. Tutti assieme come chiesa, in rete, cerchiamo di "amazzonizzare" la Chiesa, la società e lo Stato. Non si tratta evidentemente di fare assumere a tutti una identità amazzonica: sappiamo che esistono molte altre culture. Ma dall’Amazzonia vogliamo imparare a vivere sobriamente, in armonia, senza distruggere l'habitat e scoprendo in esso la presenza sacra.
L'Amazzonia non è un oggetto ma un soggetto; è un tutt’uno connesso; è la nostra casa comune.
Grazie alle pioniere Reti Ecclesiali Territoriali di Ecologia Integrale, l'Amazzonia ha ispirato una mistica che ci porta a vivere la missione evangelizzatrice della Chiesa in modo sinodale. Nell’Amazzonia è nata la REPAM (Rete ecclesiale pan-amazzonica) ma dopo di lei sono venute al mondo la Rete Ecclesiale Ecologica del Mesoamerica), la Rete Ecclesiale del Gran Chaco e dell'Acquifero Guarani), la REBAC per il bacino del Congo, la RAEON in Asia e Oceania.
Se l’evangelizzazione oggi va di pari passo con la lode, come ci insegna la Laudato Sii, non c'è modo di lodare il Signore senza rendere amazzonico e fraterno, secondo i criteri della Fratelli Tutti. Nella vita e la testimonianza cristiana assumono un ruolo importante, oltre alla cura di se stessi e degli altri esseri umani, anche quella di tutte le altre creature che sono nostre sorelle perché provengono dalla mano amorevole del Creatore.
Lo stesso Papa Francesco ha confessato che, durante la Conferenza dei Vescovi dell'America Latina e dei Caraibi svolta ad Aparecida (2007), gli è stato difficile capire perché i vescovi brasiliani insistessero tanto sull'Amazzonia, fino a quando gli scienziati che lo hanno consigliato nella stesura della Laudato Sii e l'esperienza di contatto con la saggezza dei popoli nativi gli hanno fatto comprendere con il cuore il valore del bioma amazzonico e la proposta di vita buona che, da secoli, i custodi della foresta amazzonica hanno assunto.
Vivere insieme su un terreno comune dà anche il tono alle pratiche che favoriscono la pace e la non violenza. In modo simile a come San Francesco d'Assisi cercò il sultano musulmano Al Kamil ai suoi tempi, Francesco, il Vescovo di Roma, ha cercato il dialogo con altre fedi e spiritualità. Questo atteggiamento rappresenta un'enorme sfida per migliorare la comunicazione tra la chiesa, le altre confessioni cristiane, i governi, i popoli che rimangono nascosti in un isolamento volontario, gli scienziati e gli accademici.
Con crudo realismo, dobbiamo assumere che la Dottrina sociale della Chiesa da sola non trasforma la realtà. Essa richiede processi pastorali inculturati che si manifestano in comunità piene di vita.
Il nonno bianco, come alcuni abitanti dell'Amazzonia chiamano Papa Francesco, ha costruito un ponte di dialogo tra le generazioni. Da buon pontefice - cioè da costruttore di ponti - si è preoccupato di rivendicare il valore degli anziani, così emarginati nella civiltà occidentale. Questo è particolarmente significativo per le culture amazzoniche, perché convalida un aspetto fondamentale del loro modo di vivere e propone un cambiamento di paradigma nelle relazioni interpersonali.
Alla base di questo modo di percepire il mondo c'è l'esperienza di un Dio traboccante di misericordia e amore che ci invita a ripristinare i sacri legami di fratellanza e a vivere la gioia della comunità.
Dopo anni le parole pronunciate da Papa Francesco a Puerto Maldonado in Perù e alla presenza dei popoli originari dell’Amazzonia, quando è stato compiuto il primo passo sinodale, sono ancora straordinariamente attuali: "Amate questa terra, sentitela come vostra. Annusatela, ascoltatela, ammiratela. Innamoratevi di questa terra, Madre di Dio, impegnatevi e curarla e difenderla. Non usarla come un semplice oggetto usa e getta, ma come un vero tesoro da godere, da far crescere e da trasmettere ai vostri figli. Ci affidiamo a Maria, Madre di Dio e Madre nostra, e ci mettiamo sotto la sua protezione. Dio onnipotente, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo vi benedica".
* Alirio Cáceres Aguirre è un diacono permanente, eco-teologo, manager ambientale ed educatore. Articolo pubblicato in REPAM.
La città di Puyo nell'Amazzonia ecuadoriana, fra il 10 e il 12 febbraio, ha ospitato l'ottavo Incontro e Festival della Gioventù Amazzonica, con il seguente motto: "Giovani, alzatevi e, con Maria, evangelizzate l'Amazzonia".
Si sono riuniti giovani cattolici proveninenti dai cinque vicariati amazzonici dell'Ecuador: Sucumbíos, Aguarico, Napo, Puyo e Méndez, con l'obiettivo di far nascere in questo momento festivo e comunitario un incontro personale con Cristo per mezzo della formazione, la condivisione fraterna, la preghiera e la celebrazione dell’eucaristia. Si è visto come importante il riconoscimento della propria identità amazzonica per intraprendere un cammino di evangelizzazione e di testimonianza dell’amore di Dio in questa regione del paese.
Il festival si è celebrato la prima volta nella stessa città di Puyo nel 2004 con il motto: "Giovani vivete la vostra fede con Cristo" e da quel momento, con una cadenza di 3 o 4 anni, ci sono stare altre celebrazioni: nel 2007 a Sucumbíos con il motto "Giovani amazzonici in missione con Cristo"; nel 2009 nel Napo al grido di "giovani missionari e discepoli di Gesù"; nel 2014 nel Vicariato di Aguarico guidati dalla frase "sono giovane Signore e non ho paura delle difficoltà per lottare per la giustizia"; nel 2016 ancora una volta Sucumbíos con l’espressione "quant’è bello essere misericordiosi" e nel 2019 nuovamente nel Napo con il motto "i giovani con fede e gioia danno vita e difendono l'Amazzonia". In quell’ultima occasione la partecipazione era stata davvero significativa: 600 giovani amazzonici. Dopo la pausa obbligata dal Covid siamo arrivati all’appuntamento 2023.
Gli obiettivi dell'ottavo festival giovanile sono stati quelli di conoscere la realtà delle situazioni vissute dai giovani dell'Amazzonia e le sfide che trovano nella società e nella Chiesa; rafforzare il loro incontro con Cristo per farli diventare protagonisti del rinnovamento della Chiesa della regione e approfondire in chiave amazzonica il tema proposto per la prossima Giornata Mondiale della Gioventù di Lisbona.
La metodologia utilizzata per la riflessione è stata quella del vedere, illuminare e agire. Vedere la realtà dell'evangelizzazione delle comunità indigene amazzoniche. Illuminare questa realtà con il magistero della Chiesa, specialmente le esortazioni apostoliche “Cristo Vive”, dedicata alla gioventù, e “Querida Amazonía”. L'azione poi si tradurrà in concrete attività di evangelizzazione organizzate nelle rispettive giurisdizioni invitando tutti a prendersi cura della Casa Comune e a valorizzare l'interculturalità dell'Amazzonia.
In questa celebrazione non hanno partecipato solo giovani amazzonici ecuadoriani ma anche, per la prima volta, giovani dell'Amazzonia colombiana. Era infatti presente una piccola delegazione della città di Florencia e di Cartagena del Chairá, che rappresentavano l’animazione Missionaria e Vocazionale dei Missionari della Consolata, dell'Arcidiocesi di Florencia e della Diocesi di San Vicente del Caguán.
L'obiettivo di questa presenza è stato quello di mostrare che in Amazzonia "i fiumi non separano ma uniscono"; che i giovani amazzonici ecuadoriani interagiscono con i giovani amazzonici colombiani; che l'Amazzonia è una sola nonostante i confini che cercano di dividerla.
Era anche l’occasione di articolare legami fra le diverse giurisdizioni ecclesiastiche amazzoniche per continuare a sognare insieme nella costruzione di una pastorale giovanile dal volto amazzonico.
Per i giovani colombiani presenti si trattava anche di imparare dall’esperienza consolidata dei giovani ecuadoriani. Le certezze e le sfide di questo incontro sono state molte: ispirati in Maria, che per prima si è messa in cammino, i giovani sono stati invitati a continuare a tessere legami di fraternità e identità nello spirito del Sumak kawsay, la “vita in pienezza”, un principio appartenente alla cultura indigena e anche recepito dalla costituzione dell’Ecuador.
Il prossimo appuntamento nel 2026 nella città di Macas, nel Vicariato Apostolico di Méndez.
Con quasi 10 milioni di ettari, la riserva indigena dello stato del Roraima, con una popolazione di poco superiore ai 25 mila abitanti, sta vivendo una crisi senza precedenti, come ci raccontano quelle persone che da anni vivono e lavorano per la difesa dei diritti dei Popoli e della foresta pluviale che è la loro casa. In tutto questo dramma è molto evidente la colpevole negligenza dell'ultimo governo federale presieduto dal ex presidente Jair Bolsonaro (2019 al 2022).
L'estrazione dell'oro dal suolo o dai sedimenti dei corsi d'acqua, effettuata con tecniche manuali o con macchinari pesanti, è favorita da vere e proprie organizzazioni criminali ed è stata la causa principale della crisi umanitaria che ha svigorito le comunità Yanomami.
Uno studio condotto dalla University of South Alabama degli Stati Uniti rivela che la quasi totalità delle miniere illegali ( ben il 95%) si concentra in tre territori indigeni: Kayapó, Munduruku e Yanomami, che sono le zone più colpite da questa attività.
Non è complicato capire che, se queste riserve sono abbandonate a se stesse, com’è successo in questi ultimi anni, si impone chi ha più risorse, appoggi e forze.
L’abbondanza dei giacimenti di tutta la conca amazzonica ha quindi investito le popolazioni più deboli: favorita dai poteri economici, dalle élite locali e dall'aumento del prezzo dell'oro sul mercato internazionale l’estrazione illegale (garimpo) ha avuto la meglio. Grazie all’appoggio del precedente governo è stato perfino presentato in Parlamento un progetto di legge, poi dichiarato incostituzionale, per regolamentare e promuovere l'estrazione mineraria nei territori indigeni.
La strada di 10 km che conduce al territorio Yanomami appare oggi come una ferita aperta nel cuore della foresta. La deforestazione, l'inquinamento senza precedenti e gli enormi crateri aperti che squarciano la terra hanno conseguenze drastiche sulla vita, la cultura, la spiritualità e la salute fisica delle popolazioni autoctone.
In un'intervista, padre Corrado Dalmonego IMC, che sta conducendo una ricerca di dottorato sull'impatto dell'attività estrattiva nel territorio indigena, ha dichiarato: "I centri sanitari hanno esaurito i medicinali di base come il diprone, il paracetamolo e i farmaci per il trattamento della malaria. Di conseguenza, più di 500 bambini sono morti per malattie curabili. A questo si aggiunge che il garimpo illegale non solo ha danneggiato la salute degli indigeni ma ha anche sconvolto la vita familiare, spingendo molte donne alla prostituzione o i giovani alla migrazione verso le periferie povere della città dove sono spesso vittime della tossicodipendenza e della miseria”.
Non c’è dubbio. Coloro che si addentrano nella foresta hanno atteggiamenti predatori nei confronti delle ricchezze naturali; i facili guadagni sono sempre realizzati a spese della vita della foresta e delle persone che la abitano e sanno vivere in armonia con essa.
Per padre Bob Mulega, 34 anni, missionario della Consolata di origine ugandese e nel Catrimani dal 2019, anche le manovalanze minerarie sono a loro volta vittime di un sistema di sfruttamento: "noi sappiamo che nelle miniere le condizioni di vita sono terribili e coloro che vi lavorano sono i più poveri, senza terra e senza altre opportunità”. Gli fa eco Gilmara Fernandes, leader cattolica e membro del Consiglio indigeno missionario di Roraima (Cimi) che dice: "i veri responsabili della tragedia mineraria non sono coloro che stanno nelle miniere ma quelli che forniscono logistica, manutenzione, cibo e finanziamenti senza i quali il garimpo diventa una impresa impossibile. I lavoratori delle miniere sono solo la punta di un iceberg che va molto più in profondità; sono i poteri occulti, spesso vere e proprie imprese criminali sostenute da politici conniventi, quelle che devono essere ritenute responsabili e assicurate alla giustizia”.
Quando nel 1993, quasi trent’anni fa, è stata espulsa dalle terre indigene una prima ondata di garimpeiros questi hanno potuto diventare agricoltori, ottenendo l'accesso alla terra e partecipando a progetti di riforma agraria. Oggi è tutto più difficile continua Gilmara: “con l'arrivo della soia, il valore della terra è aumentato considerevolmente e la maggior parte della terra in Roraima è concentrata nelle mani di politici, uomini d'affari, grandi produttori di soia, e diventa impossibile comprarla. Come potranno questi lavoratori illegali mantenere le loro famiglie? Se il governo non pensa a soluzioni per loro... saranno probabilmente riciclati in altre attività illecite o in nuove frontiere del garimpo”.
Suor Mery Agnes, MC, visita una comunità Yanomami.
I missionari della Consolata che vivono con gli Yanomami nella regione del Catrimani da più di 50 anni conoscono quello che le telecamere non possono vedere e ciò che si muove dietro le quinte. Per padre Mulega, gli Yanomami sono una società strutturata e fortemente ancorata alle loro credenze e alla loro forma di concepire la vita e la creazione. Tutto è ben costruito: l'ora di mangiare, le regole per vivere bene in società, la cura della natura, il posto delle donne e dei bambini, il ruolo degli uomini... questo mondo merita il massimo rispetto.
Il padre Mulega si appella alla società affinché non veda gli indigeni come dei poveri disgraziati ma come un popolo originario che condivide con tutti diritti, doveri, dignità e bisogni. "Non dimentichiamoci che loro sono persone degne, e non una popolazione che vive rinchiusa in una riserva ed è oggetto di studi. A loro bisogna offrire politiche di salute pubblica ed educazione basate sulla loro lingua. Difendere la selva è difenderne la vita, la casa e luogo sacro per tutti loro".
In questo contesto, appare fondamentale una conversione dello sguardo e del cuore che permette un incontro autentico con la popolazione indigena. Un rapporto di colonizzazione, da qualsiasi parte provenga –dal governo, dai proprietari terrieri o perfino da organizzazioni che sono al servizio delle comunità indigene–, non farà altro che aumentare i danni. Il genocidio e l'etnocidio, che oggi è alla luce del sole, continueranno.
* Rosinha Martins è Missionaria scalabriniana e giornalista. FONTE