In comunione con tutta la famiglia Consolata nel mondo, le comunità dei missionari e delle missionarie di Roma e Nepi si sono radunati, domenica 16 febbraio 2025, nella Casa Generalizia IMC per festeggiare San Giuseppe Allamano.
La celebrazione di quest'anno è stata speciale perché era la prima festa del Santo Fondatore dopo la sua canonizzazione, avvenuta il 20 ottobre 2024 e ha segnato anche l'inizio di un tempo di preparazione al centenario della sua nascita in cielo che celebreremo il 16 febbraio de 2026.
Nelle sue parole di benvenuto ai presenti, padre Zé Martins, superiore della Casa Generalizia, ha sottolineato l'importanza di vivere questi momenti come una famiglia.
Il programma festivo è iniziato con una riflessione sulla santità di San Giuseppe Allamano, offerta dal Postulatore, padre Jonah Makau. “Se c'era una parola che il Fondatore pronunciava spesso, era il termine santità - ha dichiarato il Postulatore. “L’Allamano ha vissuto una vita santa. Questo spiega perché, per lui, il primo e principale obiettivo dell'Istituto era il benessere spirituale dei suoi membri. L'Allamano diceva infatti che, se non lavoriamo per la nostra santificazione, non meritiamo di essere strumenti di Dio nella sua missione”.
Dopo aver sotto.ineato le caratteristiche principali del Santo Fondatore, padre Jonah ha invitato a riflettere sulla sua attualità rispetto ai problemi del mondo di oggi: “la sicurezza alimentare, la salute, gestione del territorio, sicurezza idrica e il cambiamento climatico”. Secondo il Postulatore, “i missionari e le missionarie della Consolata sono sempre stati attenti ai segni dei tempi e ai bisogni della gente”. Ecco perché l'Allamano insisteva “sull’importanza di cambiare l'ambiente per trasformare anche la gente”.
Padre Jonah Makau. "L’Allamano era un uomo santo proprio perché vedeva la volontà di Dio in ogni cosa"
La missione deve sempre essere vissuta nella santità di vita. É la buona vita spirituale dei missionari e delle missionarie che li trasforma in strumenti efficaci di Dio.
“Mentre celebriamo questa festa del nostro Fondatore e iniziamo un cammino verso il centenario della sua morte, chiediamo al Signore, per sua intercessione, di ispirarci ancora di più al suo spirito e di diventare autentici strumenti di consolazione nel mondo”, ha concluso padre Jonah.
L’Eucaristia festiva
La Santa Messa è stata presieduta da padre Nicholas Odhiambo, rettore nel Seminario internazionale di Bravetta, che nella sua omelia, servendosi di una riflessione di padre Stefano Carmelengo, ha parlato su tre luoghi privilegiati della santità di San Giuseppe Allamano.
“Siamo coscienti che il primo luogo privilegiato per formarci alla santità è la vita quotidiana della nostra missione, fatta di gioie e speranze, di li miti e debolezze, nelle sue varie forme ed espressioni. Si tratta di viverla a imitazione del Signore che ‘fece bene ogni cosa’ (Mc 7:37) con la convinzione che il ‘bene bisogna farlo bene e senza rumore’ (VS 128 - 129). La Santità del nostro Istituto dipende dall’impegno di ogni missionario, sempre e ovunque.
Il secondo luogo privilegiato per formarci alla santità è il servizio. Spesso abbiamo interpretato l’episodio della lavanda dei piedi come un invito di Gesù alla Chiesa, perché lavi i piedi ai poveri, agli emarginati. Abbiamo dimenticati che Gesù ha detto ai suoi apostoli: ‘Dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri’ (Gv 13:14). C’è in questa espressione di Gesù tutto il suo desiderio, tutta la sua preoccupazione per una comunione all’interno del gruppo dei suoi apostoli, una comunione profonda, che noi dobbiamo riscoprire e vivere mettendoci al servizio gli uni degli altri.
Se noi, più a contatto con l’Eucaristia, non viviamo veramente la comunione, la nostra testimonianza sarà vana. Saremmo ipocriti se proclamiamo la Parola, se spezziamo il Pane dell’Eucaristia, e poi vivessimo per conto proprio, mortificandoci a vicenda, coltivando piccole invidie, piccoli rancori, dissociandoci gli uni gli altri, vivendo all’interno della comunità la disaffezione reciproca, ignorandoci a vicenda.
Il terzo luogo privilegiato per formarci alla santità è la croce. Ciò che deve accompagnare il nostro cammino verso la santità è la non presunzione, la non arroganza, l’umiltà fino alla debolezza. Tutti i nostri progetti, tutte le nostre mediazioni culturali, tutti i nostri tentativi di presenza tra gli emarginati devono essere portati davanti alla croce di Gesù e devono essere valutati e riconciliati con la Parola di colui che ‘ha tanto amato il mondo’ (Gv 3:16).
La santità è nutrita e vive del memoriale della croce. Perché l’evangelizzazione non batta sentieri aridi e non diventi improvvisazione, guardiamo a Gesù crocifisso, per recuperare il senso umano della vita di fede che esige la gratuità delle relazioni quotidiane con i confratelli e la solidarietà con la gente, l’umiltà di sentirci inutili servi nella vigna del Signore”.
La giornata è poi continuata con un pranzo festivo in famiglia durante il quale, come fratelli e sorelle, figli e figlie di San Giuseppe Allamano, abbiamo condiviso la gioia della vocazione missionaria in questo momento così speciale della nostra storia.
* Padre Jaime C. Patias, IMC, Ufficio per la comunicazione.
“Guarire, Prendersi Cura o Salvare? Il Significato e lo Scopo della Medicina nel Pensiero di Leon Kass e Stanley Hauerwas”. Tesi di dottorato in Sacra Teologia di padre Nicholas Odhiambo Omondi, IMC, rettore nel seminario internazionale di Bravetta, difesa il 22 gennaio 2025, alla Pontificia Università San Tommaso d'Aquino (Angelicum) a Roma.
Come suggerisce il titolo di questa tesi, l'obiettivo è stato quello di esplorare quale sia il significato e lo scopo della medicina, nel pensiero di Kass e Hauerwas, soprattutto di fronte alla crisi morale e al progresso tecnologico che il mondo sta vivendo, al fine di evitare una perversione del significato e dello scopo stesso della medicina. Ho iniziato evidenziando il pensiero di ciascun autore, per poi proseguire confrontando e contrastando il loro pensiero sul ruolo della medicina.
Va notato che la scelta di Kass e Hauerwas ha avuto un criterio preciso, ovvero che entrambi gli autori si interessano di medicina e hanno scritto sul ruolo della medicina con un interesse per la moralità insita nella pratica della medicina stessa. Leon Kass, ebreo di Chicago, è un medico, un chimico e un educatore; Hauerwas è un metodista, un texano e un teologo cristiano.
La tesi ha esplorato come, secondo Kass e Hauerwas, a fronte dei progressi tecnologici che hanno aumentato la capacità della medicina di intervenire sul corpo umano, vi debba essere un limite non scavalcabile che la medicina può oltrepassare nell’applicazione del suo know-how. I due autori resistono all'aspettativa utopica dello scopo della medicina. Perciò Kass dichiara che una professione senza limite di scopo è una professione finita.
I due autori sostengono, con enfasi diverse, l'incondivisibilità della sofferenza. Mentre Hauerwas insiste sul fatto che il dolore rimane tale, comunque lo si curi, e sulla necessità che il medico si fidi del paziente anche se questi non è in grado di diagnosticare la malattia, Kass sostiene invece che, come conseguenza dell'incondivisibilità del dolore, il medico deve servire gli interessi del paziente e non quelli dei parenti o della comunità, che potrebbero non comprendere appieno ciò che il paziente sta passando.
Questa tesi ha mostrato che questi autori ritengono che la medicina sia un'arte morale impegnata nel prendersi cura, e che fin dall'inizio abbia sviluppato norme e confini per difendere la vita e la sua dignità; ad esempio attraverso una comunità che condivide una narrazione comune e la pratica delle virtù, un impegno per il bene del paziente, un rapporto paziente-medico ben regolato e l'adesione dei medici a un codice etico.
Con enfasi Hauerwas ha spiegato che non tutte le sofferenze sono prive di significato e che la sofferenza può essere resa significativa se vissuta in una comunità attenta al prendersi cura di ciascuno dei suoi membri. Sia nella opinione di Kass che di Hauerwas, la medicina comporta il riconoscimento della morte come parte della natura umana: si nasce, si cresce e si muore.
La tesi ha esplorato l'importanza della formazione virtuosa di medici e pazienti nella pratica della medicina. Su questo punto, le loro enfasi sulle virtù specifiche differiscono: Kass pone l'accento sulla virtù della finitudine, mentre Hauerwas sottolinea la virtù della pazienza come importante sia per il paziente che per il medico nella pratica quotidiana della medicina. Vi sono anche altre virtù che i due autori sottolineano, come la prudenza, la fiducia e la compassione.
Questa tesi ha evidenziato come lo sforzo della medicina di curare e prendersi cura della persona umana sia allo stesso tempo uno sforzo per onorare e rispettare il corpo umano, che è creato a immagine e somiglianza di Dio e quindi ha la sua dignità come persona umana. Il paziente, a cui la medicina risponde nella sua sofferenza, è un essere umano composto da un corpo mortale e da un'anima immortale.
In sintesi, sono giunto alle seguenti conclusioni: sebbene l'impegno della medicina sia quello di curare il paziente, tale tentativo non può essere promesso perché la medicina stessa è fallibile. La tesi ha inoltre sostenuto che la medicina ha sempre il ruolo di prendersi cura dei pazienti, anche nei confronti dei malati incurabili, degli anziani, dei disabili e dei morenti, e ha sottolineato che tale ruolo di prendersi cura coinvolge non solo i medici ma anche la comunità (amici e parenti). Infine, la tesi ha chiarito che non è il ruolo della medicina a salvare le persone, ma che è Dio a salvare ogni essere umano.
* Padre Nicholas Odhiambo Omondi, IMC, rettore nel seminario internazionale di Bravetta a Roma.
Francesco compie il rito che dà inizio all’Anno Santo. Per primo attraversa il varco di San Pietro, dietro di lui oltre 50 pellegrini di ogni angolo del mondo in abiti tradizionali. Circa 25 mila persone in Piazza, altre 6 mila in Basilica dove il Pontefice celebra la Messa della Notte di Natale. Nell’omelia l’invito a “trasformare” un mondo piagato da povertà, schiavitù, conflitti: “Pensiamo ai bambini mitragliati, alle bombe su scuole e ospedali”
In silenzio, sulla sedia a rotelle, con il capo chino in preghiera e l’espressione assorta. Due colpi alle valve di bronzo tra le formelle che narrano la storia della salvezza. La Porta Santa della Basilica di San Pietro si spalanca e Papa Francesco per primo la attraversa.
Inizia il Giubileo. Inizia l’Anno Santo della speranza. Inizia il tempo delle indulgenze, del perdono, della rinascita, del rinnovamento. Il tempo dell’impegno a “portare speranza là dove è stata perduta”
Dove la vita è ferita, nelle attese tradite, nei sogni infranti, nei fallimenti che frantumano il cuore; nella stanchezza di chi non ce la fa più, nella solitudine amara di chi si sente sconfitto, nella sofferenza che scava l’anima; nei giorni lunghi e vuoti dei carcerati, nelle stanze strette e fredde dei poveri, nei luoghi profanati dalla guerra e dalla violenza
Il momento è solenne. I rintocchi delle campane accompagnano il lento incedere di Francesco. I fedeli – 25 mila fuori nella Piazza a seguire la celebrazione dai maxi schermi, circa 6 mila all’interno di San Pietro –, che fino a quel momento hanno atteso l’arrivo del Papa con la preghiera, rimangono per tutto il tempo in silenzio. Si uniscono alla Schola Cantorum intonando l’inno d’ingresso che risuona nell’atrio e all’esterno.
Cinquantaquattro pellegrini di diverse nazionalità, anche da Cina, Iran e zone dell’Oceania, attraversano la Porta Santa dopo il Papa. Si vedono copricapi piumati, cerchietti di fiori, sombrero, turbanti, mettersi in fila e attraversare il varco che il Pontefice chiuderà il 6 gennaio 2026. Sono i primi “pellegrini di speranza”, insieme a cardinali, vescovi, concelebranti, rappresentanti di altre religioni cristiane, autorità tra cui il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, e la premier Giorgia Meloni.
Pellegrini da ogni parte del mondo attraversano la Porta Santa
“A ogni uomo e donna sia dischiusa la porta della speranza… che non delude”, scandisce Francesco durante il rito nell'atrio della Basilica. Ha il volto serio, ma negli occhi si legge la commozione. È al suo secondo Giubileo, dopo quello straordinario indetto nel 2016 per ricordare al mondo l’importanza della Misericordia. Questo è il XXVII Anno Santo ordinario della Chiesa cattolica, oltre mille anni dopo il primo, venticinque dopo il “grande Giubileo” di San Giovanni Paolo II che traghettò la Chiesa nel nuovo millennio.
Ora un Papa ottantottenne, “venuto dalla fine del mondo”, vuole dare un’iniezione di speranza ad un mondo afflitto come mai negli ultimi decenni da crisi, violenze, guerre che costringono ad assistere a scene drammatiche come “bambini mitragliati” o “bombe su scuole e ospedali”, come Francesco denuncia – a braccio – nell’omelia della successiva Messa della notte di Natale.
Questa è la notte in cui la porta della speranza si è spalancata sul mondo; questa è la notte in cui Dio dice a ciascuno: c’è speranza anche per te! C’è speranza per ognuno di noi. Ma non dimenticatevi, sorelle e fratelli, che Dio perdona tutto, Dio perdona sempre
Messa della Notte di Natale nella Basilica di San Pietr. Foto: Jaime C. Patias
La “speranza cristiana” che si fa dono nel tempo giubilare “non è un lieto fine da attendere passivamente”, “non è l’happy end di un film”, bensì “la promessa del Signore da accogliere qui e ora, in questa terra che soffre e che geme”, dice il Papa in una Basilica gremita, ornata di fiori, dove all’altare è esposta la statua della Madonna Madre della Speranza. Questa speranza è “qualcos’altro”; chiede di muoverci “senza indugio” verso Dio. “A noi discepoli del Signore, infatti, è chiesto di ritrovare in Lui la nostra speranza più grande, per poi portarla senza ritardi, come pellegrini di luce nelle tenebre del mondo”.
“La speranza non è morta, la speranza è viva, e avvolge la nostra vita per sempre!”
“Fratelli e sorelle, questo è il Giubileo, questo è il tempo della speranza!”, esclama Papa Francesco. L’Anno Santo “ci invita a riscoprire la gioia dell’incontro con il Signore, ci chiama al rinnovamento spirituale e ci impegna nella trasformazione del mondo, perché questo diventi davvero un tempo giubilare: lo diventi per la nostra madre Terra, deturpata dalla logica del profitto; lo diventi per i Paesi più poveri, gravati da debiti ingiusti; lo diventi per tutti coloro che sono prigionieri di vecchie e nuove schiavitù”.
Celebrazione della Notte di Natale a San Pietro. Foto: Jaime C. Patias
Il Papa invita a mettersi in cammino “senza indugio” così da “ritrovare la speranza perduta, rinnovarla dentro di noi, seminarla nelle desolazioni del nostro tempo e del nostro mondo”. Tante desolazioni: “Pensiamo alle guerre”, afferma il Papa. “Non indugiare”, “non trascinarci nelle abitudini”, “non sostare nelle mediocrità e nella pigrizia”, esorta ancora. La speranza “ci chiede di farci pellegrini alla ricerca della verità, sognatori mai stanchi, donne e uomini che si lasciano inquietare dal sogno di Dio, il sogno di un mondo nuovo, dove regnano la pace e la giustizia”.
La speranza che nasce in questa notte non tollera l’indolenza del sedentario e la pigrizia di chi si è sistemato nelle proprie comodità, e tanti di noi abbiamo il pericolo di sistemarci nelle nostre comodità. La speranza non ammette la falsa prudenza di chi non si sbilancia per paura di compromettersi e il calcolo di chi pensa solo a sé stesso; è incompatibile col quieto vivere di chi non alza la voce contro il male e contro le ingiustizie consumate sulla pelle dei più poveri
“Audacia”, “responsabilità”, “compassione”, sono le strade che indica il Vescovo di Roma in questo tempo speciale, a partire già da questa notte in cui si apre la “porta santa” del cuore di Dio: “Con Lui – conclude il Papa - fiorisce la gioia, con Lui la vita cambia”. Con Lui “la speranza non delude”.
Papa Francesco con Gesù Bambino. Foto: Vatican Media
Al termine della Messa, il Papa, accompagnato da un gruppo di bambini di diverse nazionalità, si reca al presepe all'interno della Basilica per posare nella grotta la statua di Gesù Bambino. Anche lì qualche istante in preghiera dinanzi alla natività a cui ha esortato a guardare come riferimento per la vita. Poi un passaggio attraverso la navata centrale per salutare le due ali di fedeli.
* Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va
Il vescovo coadiutore della diocesi di Isiolo, di passaggio a Roma per la visita ad limina dei vescovi del Kenya, ha lasciato questo messaggio sulla canonizzazione.
“Siamo qui per ringraziare per tutte le benedizioni che Dio ci ha concesso, soprattutto per la canonizzazione del Beato Allamano il 20 ottobre di quest'anno. Vi invitiamo a unirvi a noi nella Giornata Missionaria Mondiale. L'Allamano voleva che la Buona Novella del Vangelo raggiungesse tutto il mondo e per questo ha fondato le nostre due congregazioni e per questo siamo grati al Signore”.
* Video realizzato dall'equipe di comunicazione per la Canonizzazione
C'è un tempo per ogni cosa”, dice il libro del Qoelet (3,1). Quindi, dopo un anno a Roma è tempo per me di partire per Kinshasa nella Repubblica Democratica del Congo. Il 19 giugno 2023 ero arrivato in Italia per un periodo sabbatico dopo alcuni anni in Venezuela; questo tempo è stato per me un vero momento di grazia. Come non ringraziare la mia Congregazione per avermi offerto questa esperienza prima di ritornare in missione!
Quando sono arrivato a Roma ho cominciato subito a studiare la lingua italiana per tre mesi. Anche questa prima tappa è stata importante perché non solo stavo imparando la lingua ma mi stavo anche immergendo nella cultura italiana. La scuola, che ringrazio, ci ha permesso di conoscere la grande città di Roma, mostrando località storiche e turistiche e spiegandoci ogni luogo in cui siamo stati.
Appena terminato lo studio della lingua, sono andato in Piemonte, per vedere con i miei occhi e calpestare con i miei piedi il luogo dove tutto ha avuto inizio. Per prima cosa sono andato a Castelnuovo dove è nato il Beato Giuseppe Allamano, il nostro Fondatore. Che emozione! Sono entrato nella casa dove viveva, ho visto il letto dove dormiva, la cucina... insomma la terra dov’era nato. Poi, di ritorno a Torino, è stata la volta di visitare il bel santuario della Consolata e inginocchiarmi e pregare davanti alla tomba del padre Fondatore in Casa Madre. Un altro momento commovente, memorabile e indimenticabile per me.
Per concludere c’è stata anche una tappa importante ad Alpignano nella quale ho potuto visitare i grandi combattenti della missione. In quel municipio torinese la comunità ha una casa destinata ai missionari anziani che hanno donato tutta la loro vita al Signore e alla missione. Si tratta quindi di un ambiente fatto apposta per il riposo e la tranquillità di persone cariche di anni e con qualche problema di salute. Ne ho trovati tanti: alcuni conosciuti e altri a me sconosciuti. Ma una cosa è chiara: tutti aspettano la corona; perché, come dice l'apostolo Paolo: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione” (2 Tim 4,7-8). Questa è la sensazione che ho provato parlando con alcuni di loro; sono l’esempio vivente di cosa vuol dire donare la propria vita al Signore! È stato un onore per me averli conosciuti.
Padre Genaro Ardila, padre Innocent Mbisamulo e padre Edilberto Meza Olivera
Tutte queste esperienze mi hanno rinnovato; arrivare alle fonti ha prodotto in me una importante ricarica spirituale e vocazionale.
Ora mi sto preparando per andare in Congo, la mia nuova destinazione. Posso dire che grazie a questo periodo sabbatico mi sento fresco e pronto ad iniziare una nuova sfida missionaria. Vorrei quindi cogliere l'occasione per ringraziare tutti i confratelli della casa generalizia per avermi accolto. Con loro ho trascorso momenti piacevoli. Ho imparato molto da ciascuno di loro. Vi porterò sempre nelle mie umili preghiere quotidiane.
In particolare, ringrazio padre José Martins Fernandes, superiore della comunità, che per me è stato davvero un padre e mi ha messo in condizione di vivere questo periodo in modo proficuo. E anche Padre Gabriele Casadei, economo della casa, per avermi sempre accolto e servito con un sorriso contagioso e caloroso.
Vorrei anche ringraziare tutti coloro che collaborano alla manutenzione quotidiana della casa: cucina, pulizia delle camere, portineria, lavanderia, giardino. Vi porterò tutti nel mio cuore.
Lo Spirito del nostro Padre Fondatore, che presto sarà proclamato santo, possa sempre mantenerci uniti. Saluto tutti e ci vediamo la prossima volta!
* Padre Innocent Bakwangama Mbisamulo, IMC, missionario nella RD del Congo.