Sono già oltre tre milioni i pellegrini che hanno attraversato la Porta Santa della Basilica di San Pietro. Questo sabato mattina, 29 marzo 2025, la soglia ha visto attraversare anche un gruppo di missionari e missionarie della Consolata delle comunità di Roma e Nepi che hanno voluto fare la esperienza del Giubileo insieme come famiglia.

Il pellegrinaggio è iniziato alle ore 8:30 nella Piazza Pia, l’area tra Castel Sant’Angelo e via della Conciliazione, dove il gruppo si è riunito e ricevuto la croce in mezzo alla folla di fedeli provenienti da ogni parte del mondo. Nello stesso fine settimana (28-30 marzo) si è svolto anche il Giubileo dei missionari della misericordia.

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I missionari e le missionarie della Consolata nella Piazza Pia a Roma

Il Superiore Generale, padre James Lengarin, IMC, spiega il significato di questo evento. “È un’occasione per essere uniti e camminare insieme come voleva San Giuseppe Allamano. Quindi, un momento per pregare in comunione, per passare da un luogo che conosciamo nella nostra vita e varcare la soglia per entrare in un mistero che ci porta verso la speranza. Abbiamo tante belle cose per ringraziare al Signore, soprattutto per la canonizzazione del nostro Padre Fondatore”. Secondo padre James, la Famiglia Consolata vuole “dare una testimonianza vera e credibile al popolo di Dio nel mondo e così, attirare giovani convinti di sacrificare la loro vita per servire l’umanità. Questa è la speranza nel cuore di ogni uno di noi: servire come Dio ci ha servirti”.

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Il pellegrinaggio è un simbolo del cammino della vita. Preghiere, canti, salmi e riflessioni, hanno accompagnato i pellegrini lungo la via della Conciliazione, nell’attraversare Piazza San Pietro fino al passaggio della Porta Santa per sperimentare l’amore di Dio che consola, perdona e dona speranza. All'interno della Basilica c'è stato un altro momento di preghiera e la benedizione finale con la possibilità di ricevere il sacramento della riconciliazione con i sacerdoti disponibili nei vari confessionali.

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“Come comunità missionaria ci siamo chiesti se viviamo concretamente la speranza che ci aiuta a leggere gli eventi della storia e ci spinge all’impegno per la giustizia e pace, la consolazione, la fraternità e la cura del Creato” commenta padre Ashenafi Yonas Abebe, uno degli organizzatori del l’evento. E aggiunge che “la presenza delle due Direzioni Generali, ci hanno fatto sentire in comunione con i missionari e le missionarie sparsi nel mondo e che seguono la stessa croce, l'àncora della speranza e segno della donazione. Inoltre, ci siamo sentiti accompagnati dalla schiera celeste dei missionari e delle missionarie che, insieme alle Beate Irene e Leonella, hanno seminato speranza e consolazione con la loro vita donata”.

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Dal cielo ci ha accompagnato anche il nostro Santo Fondatore che esortava i missionari: “Allarghiamo il cuore a una viva speranza. E non solo sperare, ma super-sperare, sperare contro ogni speranza. Quando si spera poco, si fa torto al Signore, «il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati» Al Signore piace tanto che noi crediamo alla sua bontà, alla sua misericordia! Dunque, sperare, fortemente sperare! In Te, o Signore, ho sperato, non sarò confuso in eterno!”

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La missionaria brasiliana, Suor Maria Atilia Colet, MC, era emozionata nell’affermare che “È una cosa molto bella. Durante il viaggio da Nepi a Roma, ho provato una grande emozione solo pensare che la misericordia di Dio ci raggiunge in modo così potente. E questo non è solo per noi, ma per tutto il mondo in cui viviamo come missionari e missionarie della Consolata”.

Per il giovane studente ugandese di teologia del Seminario di Bravetta, Richiard Baguma, “il pellegrinaggio è stato bello e ha arricchito la nostra fede e lo spirito di famiglia per incontrarci e camminare insieme. Siamo certi che la speranza non delude. Perciò, dobbiamo credere in Dio e andare avanti con questa certezza che ci porta la pace, l’amore e la unità”.

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Suor Celia Cristina, MC, missionaria argentina in Djibouti dice che “è stato un momento di grazia portare nel cuore le varie realtà delle missioni nel mondo. Lavoro in Djibouti ma ho ricordato particolarmente il Medio Oriente affinché torni al più presto la pace e la fraternità come tanto chiede Papa Francesco. Questa esperienza può unirci al mondo musulmano. Siamo nella Quaresima, loro sono nel Ramadan e così ci sentiamo uniti nella preghiera”, ha concluso.

La missionaria keniana, Suor Gladys Karigi Nduma, MC, che ha lavorato in Colombia ha vissuto il pellegrinaggio come una opportunità per ravvivare la fede. “Spesso ho sentire dire che la Chiesa in Europa stava scomparendo, oggi vedendo qui tante persone varcare la Porta Santa, mi sono ricreduta e ringrazio Dio per questa vitalità. È una chiamata a continuare questa strada per crescere nella fede”.

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Abdisa Dawit Shifera è uno studente etiope della comunità di Porta Pia. “Siamo da diversi luoghi e la preghiera ci aiuta nell’affrontare tanti problemi nel mondo, e per questo abbiamo pregato per la pace, per le nostre congregazioni, per la Chiesa e per la salute di Papa Francesco. Sono contento di essere qui perché sono arrivato a Roma solo dieci mesi fa e vivere questo Giubileo che per noi è un anno di molta preghiera e penitenza”.

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Il Giubileo viene detto Anno Santo perché è destinato a manifestare l’amore di Dio e a promuovere la santità di vita come voleva San Giuseppe Allamano. Si esprime soprattutto attraverso i segni del pellegrinaggio, dell’indulgenza, delle opere di misericordia, che possono essere riassunti in modo simbolico dal passaggio della Porta Santa. La Famiglia Consolata ha avuto questa grazia.

* Padre Jaime C. Patias, IMC, Ufficio per la Comunicazione.

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Momento di preghiera e la benedizione finale all'interno della Basilica

Francesco si è affacciato per la prima volta dall’inizio del ricovero dal balcone del Policlinico, prima di lasciare l’ospedale dove era degente dal 14 febbraio. Saluti, benedizioni e pollici in su verso le 3 mila persone radunate nel piazzale che applaudivano e gridavano il suo nome. Dal Pontefice un saluto alla signora Carmela, 78 anni, con in mano un mazzo di fiori gialli: “È brava!”

“Grazie a tutti!”

Eccolo il Papa, eccolo riapparire ai 3 mila fedeli riuniti dalla mattina nel piazzale del Gemelli che in questi 38 giorni di ricovero ha visto una catena ininterrotta di preghiere per la sua guarigione. Poche parole dal balconcino del quinto piano, il volto provato, le mani sulle ginocchia che si sono alzate per benedire e tirare su i pollici. Un accenno di sorriso nel vedere e sentire questa folla che grida: “Francesco, Francesco!”, “ti vogliamo bene!”, “siamo qui per te!”.

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 3 mila persone radunate nel piazzale del Policlinico Gemelli applaudivano e gridavano il nomedel Papa. Foto: Jaime C. Patias

Il saluto a Carmela, "la signora dai fiori gialli"

“Grazie a tutti!”, scandisce il Papa con voce flebile. Era previsto un gesto di saluto, ma il Papa ha voluto farsi vedere oltre che sentire. Lo sguardo è andato da una parte all’altra della piazza, poi, come è tipico di lui, si è concentrato su un particolare: la signora Carmela Mancuso, 78 anni, calabrese, in prima fila diretta verso il balconcino, con in mano un mazzo di fiori gialli. È partita dalla Stazione di San Pietro per recarsi al Gemelli. Lo ha fatto quasi ogni giorno da oltre un mese, ma lo ha fatto anche tante volte durante l’udienza generale del mercoledì.

“E vedo questa signora con i fiori gialli! È brava!”

Un applauso, un coro di “W il Papa!”. La stessa Carmela che ha piegato la testa verso il basso tirata giù dal peso delle lacrime. “Non so che dire. Grazie, grazie, grazie, al Signore e al Santo Padre. Non pensavo di essere così ‘vista’”, commenta subito dopo ai media vaticani. “Doveva dare la benedizione e invece ha visto il mio fascio di rose. Gli auguro di guarire subito e tornare come prima tra noi”.

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Foto: Jaime C. Patias

L'abbraccio della gente

È l’augurio che esprimono infermiere, medici, studenti dell’Università Cattolica riuniti nel cortile. Ci sono fedeli di diverse nazionalità, la Cooperativa Auxilium che ha innalzato prima delle 12 un grande cartellone con le bandiere di tutto il mondo e un appello per la pace. C’è un uomo che ieri ha compiuto 75 anni che esibisce un cartello in cui affida Francesco alla intercessione del suo predecessore Giovanni Paolo II. E c’è un gruppo che da Piazza San Pietro ha imbracciato la croce del Giubileo – quella che viene usata per il pellegrinaggio verso la Porta Santa – ed è arrivata fino al Gemelli: “È importante essere qui”. Ci sono Emanuela e Adam, con i loro tre figli, che dopo la Messa “qui vicino” hanno voluto portare i bambini a salutare Francesco: “Abbiamo pregato ogni giorno a tavola per lui, era giusto che lo vedessero”, dice il papà.

Poi c’è lei, suor Geneviéve Jeanningros, la religiosa angelo del Luna Park di Ostia, impegnata per la pastorale di rom e sinti ma anche di omosessuali e persone transgender. Una vecchia conoscenza del Papa (la “enfant terrible”, la chiama lui) che va a salutare ogni mercoledì all’udienza in Piazza San Pietro o in Aula Paolo VI. “Non vedevo l’ora che Francesco si facesse vedere e uscisse”, commenta ai media vaticani. “Non ce la facevamo più. Gli facciamo tanti auguri. Auguri buoni!”.

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I fiori alla Madonna a Santa Maria Maggiore

Subito dopo aver lasciato il balconcino, la folla si è spostata verso l’ingresso del Gemelli per catturare l’uscita del Pontefice nella consueta e ormai nota Fiat 500L bianca. Ancora saluti e cori hanno accompagnato il passaggio del Papa in auto, con i finestrini alzati. La direzione è Santa Maria Maggiore, la basilica che mai una volta – dopo un viaggio internazionale o una operazione e un ricovero – Jorge Mario Bergoglio ha mancato di visitare per pregare la Salus Populi Romani e ringraziarla per la sua protezione. La Sala Stampa della Santa Sede fa sapere che il Papa ha consegnato dei fiori al cardinale Rolandas Makrickas, arciprete coadiutore della Basilica liberiana, da porre ai piedi dell'icona mariana.

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Foto: Jaime C. Patias / Consolata News

Il saluto prima dell'uscita dall'ospedale

Prima di affacciarsi dal balcone dell’ospedale, Papa Francesco ha voluto salutare brevemente il personale e i vertici dell’Università Cattolica e del Policlinico Gemelli: il rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, professoressa Elena Beccalli; il presidente della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, dottor Daniele Franco; inoltre il preside della Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica, professor Antonio Gasbarrini; il vicepresidente della Fondazione, Giuseppe Fioroni; il direttore generale, Marco Elefanti, l’assistente ecclesiastico generale dell’Università, monsignor Claudio Giuliodori, e il professor Sergio Alfieri, direttore del Dipartimento di Scienze Medico-Chirurgiche del Policlinico e Responsabile dell’equipe medica del Gemelli; il direttore sanitario della Fondazione Policlinico Gemelli, Andrea Cambieri.

Fonte: Vatican New. Pubblicato originalmente in: www.vaticannews.va

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Prima di rientrare a Casa Santa Marta, dopo la sua uscita dall’ospedale, Papa Francesco è andato a Santa Maria Maggiore e ha consegnato a Sua Eminenza il Cardinale Makrickas dei fiori da porre davanti all’icona della Vergine Salus Populi Romani. Al termine ha fatto rientro in Vaticano. Foto: Holy See Press Office

In comunione con tutta la famiglia Consolata nel mondo, le comunità dei missionari e delle missionarie di Roma e Nepi si sono radunati, domenica 16 febbraio 2025, nella Casa Generalizia IMC per festeggiare San Giuseppe Allamano.

La celebrazione di quest'anno è stata speciale perché era la prima festa del Santo Fondatore dopo la sua canonizzazione, avvenuta il 20 ottobre 2024 e ha segnato anche l'inizio di un tempo di preparazione al centenario della sua nascita in cielo che celebreremo il 16 febbraio de 2026.

Nelle sue parole di benvenuto ai presenti, padre Zé Martins, superiore della Casa Generalizia, ha sottolineato l'importanza di vivere questi momenti come una famiglia.

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Il programma festivo è iniziato con una riflessione sulla santità di San Giuseppe Allamano, offerta dal Postulatore, padre Jonah Makau. “Se c'era una parola che il Fondatore pronunciava spesso, era il termine santità - ha dichiarato il Postulatore. “L’Allamano ha vissuto una vita santa. Questo spiega perché, per lui, il primo e principale obiettivo dell'Istituto era il benessere spirituale dei suoi membri. L'Allamano diceva infatti che, se non lavoriamo per la nostra santificazione, non meritiamo di essere strumenti di Dio nella sua missione”.

Dopo aver sotto.ineato le caratteristiche principali del Santo Fondatore, padre Jonah ha invitato a riflettere sulla sua attualità rispetto ai problemi del mondo di oggi: “la sicurezza alimentare, la salute, gestione del territorio, sicurezza idrica e il cambiamento climatico”. Secondo il Postulatore, “i missionari e le missionarie della Consolata sono sempre stati attenti ai segni dei tempi e ai bisogni della gente”. Ecco perché l'Allamano insisteva “sull’importanza di cambiare l'ambiente per trasformare anche la gente”.

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Padre Jonah Makau. "L’Allamano era un uomo santo proprio perché vedeva la volontà di Dio in ogni cosa"

La missione deve sempre essere vissuta nella santità di vita. É la buona vita spirituale dei missionari e delle missionarie che li trasforma in strumenti efficaci di Dio.

“Mentre celebriamo questa festa del nostro Fondatore e iniziamo un cammino verso il centenario della sua morte, chiediamo al Signore, per sua intercessione, di ispirarci ancora di più al suo spirito e di diventare autentici strumenti di consolazione nel mondo”, ha concluso padre Jonah.

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L’Eucaristia festiva

La Santa Messa è stata presieduta da padre Nicholas Odhiambo, rettore nel Seminario internazionale di Bravetta, che nella sua omelia, servendosi di una riflessione di padre Stefano Carmelengo, ha parlato su tre luoghi privilegiati della santità di San Giuseppe Allamano.

“Siamo coscienti che il primo luogo privilegiato per formarci alla santità è la vita quotidiana della nostra missione, fatta di gioie e speranze, di li miti e debolezze, nelle sue varie forme ed espressioni. Si tratta di viverla a imitazione del Signore che ‘fece bene ogni cosa’ (Mc 7:37) con la convinzione che il ‘bene bisogna farlo bene e senza rumore’ (VS 128 - 129). La Santità del nostro Istituto dipende dall’impegno di ogni missionario, sempre e ovunque.

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Il secondo luogo privilegiato per formarci alla santità è il servizio. Spesso abbiamo interpretato l’episodio della lavanda dei piedi come un invito di Gesù alla Chiesa, perché lavi i piedi ai poveri, agli emarginati. Abbiamo dimenticati che Gesù ha detto ai suoi apostoli: ‘Dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri’ (Gv 13:14). C’è in questa espressione di Gesù tutto il suo desiderio, tutta la sua preoccupazione per una comunione all’interno del gruppo dei suoi apostoli, una comunione profonda, che noi dobbiamo riscoprire e vivere mettendoci al servizio gli uni degli altri.

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Se noi, più a contatto con l’Eucaristia, non viviamo veramente la comunione, la nostra testimonianza sarà vana. Saremmo ipocriti se proclamiamo la Parola, se spezziamo il Pane dell’Eucaristia, e poi vivessimo per conto proprio, mortificandoci a vicenda, coltivando piccole invidie, piccoli rancori, dissociandoci gli uni gli altri, vivendo all’interno della comunità la disaffezione reciproca, ignorandoci a vicenda.

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Il terzo luogo privilegiato per formarci alla santità è la croce. Ciò che deve accompagnare il nostro cammino verso la santità è la non presunzione, la non arroganza, l’umiltà fino alla debolezza. Tutti i nostri progetti, tutte le nostre mediazioni culturali, tutti i nostri tentativi di presenza tra gli emarginati devono essere portati davanti alla croce di Gesù e devono essere valutati e riconciliati con la Parola di colui che ‘ha tanto amato il mondo’ (Gv 3:16).

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La santità è nutrita e vive del memoriale della croce. Perché l’evangelizzazione non batta sentieri aridi e non diventi improvvisazione, guardiamo a Gesù crocifisso, per recuperare il senso umano della vita di fede che esige la gratuità delle relazioni quotidiane con i confratelli e la solidarietà con la gente, l’umiltà di sentirci inutili servi nella vigna del Signore”.

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La giornata è poi continuata con un pranzo festivo in famiglia durante il quale, come fratelli e sorelle, figli e figlie di San Giuseppe Allamano, abbiamo condiviso la gioia della vocazione missionaria in questo momento così speciale della nostra storia.

* Padre Jaime C. Patias, IMC, Ufficio per la comunicazione.

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“Guarire, Prendersi Cura o Salvare? Il Significato e lo Scopo della Medicina nel Pensiero di Leon Kass e Stanley Hauerwas”. Tesi di dottorato in Sacra Teologia di padre Nicholas Odhiambo Omondi, IMC, rettore nel seminario internazionale di Bravetta, difesa il 22 gennaio 2025, alla Pontificia Università San Tommaso d'Aquino (Angelicum) a Roma.

Come suggerisce il titolo di questa tesi, l'obiettivo è stato quello di esplorare quale sia il significato e lo scopo della medicina, nel pensiero di Kass e Hauerwas, soprattutto di fronte alla crisi morale e al progresso tecnologico che il mondo sta vivendo, al fine di evitare una perversione del significato e dello scopo stesso della medicina.  Ho iniziato evidenziando il pensiero di ciascun autore, per poi proseguire confrontando e contrastando il loro pensiero sul ruolo della medicina.

Va notato che la scelta di Kass e Hauerwas ha avuto un criterio preciso, ovvero che entrambi gli autori si interessano di medicina e hanno scritto sul ruolo della medicina con un interesse per la moralità insita nella pratica della medicina stessa. Leon Kass, ebreo di Chicago, è un medico, un chimico e un educatore; Hauerwas è un metodista, un texano e un teologo cristiano.

20250203Nickolas2La tesi ha esplorato come, secondo Kass e Hauerwas, a fronte dei progressi tecnologici che hanno aumentato la capacità della medicina di intervenire sul corpo umano, vi debba essere un limite non scavalcabile che la medicina può oltrepassare nell’applicazione del suo know-how. I due autori resistono all'aspettativa utopica dello scopo della medicina. Perciò Kass dichiara che una professione senza limite di scopo è una professione finita.

I due autori sostengono, con enfasi diverse, l'incondivisibilità della sofferenza. Mentre Hauerwas insiste sul fatto che il dolore rimane tale, comunque lo si curi, e sulla necessità che il medico si fidi del paziente anche se questi non è in grado di diagnosticare la malattia, Kass sostiene invece che, come conseguenza dell'incondivisibilità del dolore, il medico deve servire gli interessi del paziente e non quelli dei parenti o della comunità, che potrebbero non comprendere appieno ciò che il paziente sta passando.

Questa tesi ha mostrato che questi autori ritengono che la medicina sia un'arte morale impegnata nel prendersi cura, e che fin dall'inizio abbia sviluppato norme e confini per difendere la vita e la sua dignità; ad esempio attraverso una comunità che condivide una narrazione comune e la pratica delle virtù, un impegno per il bene del paziente, un rapporto paziente-medico ben regolato e l'adesione dei medici a un codice etico.

Con enfasi Hauerwas ha spiegato che non tutte le sofferenze sono prive di significato e che la sofferenza può essere resa significativa se vissuta in una comunità attenta al prendersi cura di ciascuno dei suoi membri. Sia nella opinione di Kass che di Hauerwas, la medicina comporta il riconoscimento della morte come parte della natura umana: si nasce, si cresce e si muore.

La tesi ha esplorato l'importanza della formazione virtuosa di medici e pazienti nella pratica della medicina. Su questo punto, le loro enfasi sulle virtù specifiche differiscono: Kass pone l'accento sulla virtù della finitudine, mentre Hauerwas sottolinea la virtù della pazienza come importante sia per il paziente che per il medico nella pratica quotidiana della medicina. Vi sono anche altre virtù che i due autori sottolineano, come la prudenza, la fiducia e la compassione.

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Questa tesi ha evidenziato come lo sforzo della medicina di curare e prendersi cura della persona umana sia allo stesso tempo uno sforzo per onorare e rispettare il corpo umano, che è creato a immagine e somiglianza di Dio e quindi ha la sua dignità come persona umana. Il paziente, a cui la medicina risponde nella sua sofferenza, è un essere umano composto da un corpo mortale e da un'anima immortale.

In sintesi, sono giunto alle seguenti conclusioni: sebbene l'impegno della medicina sia quello di curare il paziente, tale tentativo non può essere promesso perché la medicina stessa è fallibile. La tesi ha inoltre sostenuto che la medicina ha sempre il ruolo di prendersi cura dei pazienti, anche nei confronti dei malati incurabili, degli anziani, dei disabili e dei morenti, e ha sottolineato che tale ruolo di prendersi cura coinvolge non solo i medici ma anche la comunità (amici e parenti). Infine, la tesi ha chiarito che non è il ruolo della medicina a salvare le persone, ma che è Dio a salvare ogni essere umano.

* Padre Nicholas Odhiambo Omondi, IMC, rettore nel seminario internazionale di Bravetta a Roma.

Francesco compie il rito che dà inizio all’Anno Santo. Per primo attraversa il varco di San Pietro, dietro di lui oltre 50 pellegrini di ogni angolo del mondo in abiti tradizionali. Circa 25 mila persone in Piazza, altre 6 mila in Basilica dove il Pontefice celebra la Messa della Notte di Natale. Nell’omelia l’invito a “trasformare” un mondo piagato da povertà, schiavitù, conflitti: “Pensiamo ai bambini mitragliati, alle bombe su scuole e ospedali”

In silenzio, sulla sedia a rotelle, con il capo chino in preghiera e l’espressione assorta. Due colpi alle valve di bronzo tra le formelle che narrano la storia della salvezza. La Porta Santa della Basilica di San Pietro si spalanca e Papa Francesco per primo la attraversa.

Inizia il Giubileo. Inizia l’Anno Santo della speranza. Inizia il tempo delle indulgenze, del perdono, della rinascita, del rinnovamento. Il tempo dell’impegno a “portare speranza là dove è stata perduta”

Dove la vita è ferita, nelle attese tradite, nei sogni infranti, nei fallimenti che frantumano il cuore; nella stanchezza di chi non ce la fa più, nella solitudine amara di chi si sente sconfitto, nella sofferenza che scava l’anima; nei giorni lunghi e vuoti dei carcerati, nelle stanze strette e fredde dei poveri, nei luoghi profanati dalla guerra e dalla violenza

Leggi qui il testo integrale dell’omelia di Papa Francesco

"Pellegrini di speranza" da ogni angolo del mondo

Il momento è solenne. I rintocchi delle campane accompagnano il lento incedere di Francesco. I fedeli – 25 mila fuori nella Piazza a seguire la celebrazione dai maxi schermi, circa 6 mila all’interno di San Pietro –, che fino a quel momento hanno atteso l’arrivo del Papa con la preghiera, rimangono per tutto il tempo in silenzio. Si uniscono alla Schola Cantorum intonando l’inno d’ingresso che risuona nell’atrio e all’esterno.

Cinquantaquattro pellegrini di diverse nazionalità, anche da Cina, Iran e zone dell’Oceania, attraversano la Porta Santa dopo il Papa. Si vedono copricapi piumati, cerchietti di fiori, sombrero, turbanti, mettersi in fila e attraversare il varco che il Pontefice chiuderà il 6 gennaio 2026. Sono i primi “pellegrini di speranza”, insieme a cardinali, vescovi, concelebranti, rappresentanti di altre religioni cristiane, autorità tra cui il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, e la premier Giorgia Meloni.

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Pellegrini da ogni parte del mondo attraversano la Porta Santa

Il dolore per le guerre

“A ogni uomo e donna sia dischiusa la porta della speranza… che non delude”, scandisce Francesco durante il rito nell'atrio della Basilica. Ha il volto serio, ma negli occhi si legge la commozione. È al suo secondo Giubileo, dopo quello straordinario indetto nel 2016 per ricordare al mondo l’importanza della Misericordia. Questo è il XXVII Anno Santo ordinario della Chiesa cattolica, oltre mille anni dopo il primo, venticinque dopo il “grande Giubileo” di San Giovanni Paolo II che traghettò la Chiesa nel nuovo millennio.

Ora un Papa ottantottenne, “venuto dalla fine del mondo”, vuole dare un’iniezione di speranza ad un mondo afflitto come mai negli ultimi decenni da crisi, violenze, guerre che costringono ad assistere a scene drammatiche come “bambini mitragliati” o “bombe su scuole e ospedali”, come Francesco denuncia – a braccio – nell’omelia della successiva Messa della notte di Natale.

Questa è la notte in cui la porta della speranza si è spalancata sul mondo; questa è la notte in cui Dio dice a ciascuno: c’è speranza anche per te! C’è speranza per ognuno di noi. Ma non dimenticatevi, sorelle e fratelli, che Dio perdona tutto, Dio perdona sempre

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Messa della Notte di Natale nella Basilica di San Pietr. Foto: Jaime C. Patias

La speranza una promessa, non un happy end

La “speranza cristiana” che si fa dono nel tempo giubilare “non è un lieto fine da attendere passivamente”, “non è l’happy end di un film”, bensì “la promessa del Signore da accogliere qui e ora, in questa terra che soffre e che geme”, dice il Papa in una Basilica gremita, ornata di fiori, dove all’altare è esposta la statua della Madonna Madre della Speranza. Questa speranza è “qualcos’altro”; chiede di muoverci “senza indugio” verso Dio. “A noi discepoli del Signore, infatti, è chiesto di ritrovare in Lui la nostra speranza più grande, per poi portarla senza ritardi, come pellegrini di luce nelle tenebre del mondo”.

“La speranza non è morta, la speranza è viva, e avvolge la nostra vita per sempre!”

Trasformare il mondo

“Fratelli e sorelle, questo è il Giubileo, questo è il tempo della speranza!”, esclama Papa Francesco. L’Anno Santo “ci invita a riscoprire la gioia dell’incontro con il Signore, ci chiama al rinnovamento spirituale e ci impegna nella trasformazione del mondo, perché questo diventi davvero un tempo giubilare: lo diventi per la nostra madre Terra, deturpata dalla logica del profitto; lo diventi per i Paesi più poveri, gravati da debiti ingiusti; lo diventi per tutti coloro che sono prigionieri di vecchie e nuove schiavitù”.

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Celebrazione della Notte di Natale a San Pietro. Foto: Jaime C. Patias

"Senza indugio"

Il Papa invita a mettersi in cammino “senza indugio” così da “ritrovare la speranza perduta, rinnovarla dentro di noi, seminarla nelle desolazioni del nostro tempo e del nostro mondo”. Tante desolazioni: “Pensiamo alle guerre”, afferma il Papa. “Non indugiare”, “non trascinarci nelle abitudini”, “non sostare nelle mediocrità e nella pigrizia”, esorta ancora. La speranza “ci chiede di farci pellegrini alla ricerca della verità, sognatori mai stanchi, donne e uomini che si lasciano inquietare dal sogno di Dio, il sogno di un mondo nuovo, dove regnano la pace e la giustizia”.

La speranza che nasce in questa notte non tollera l’indolenza del sedentario e la pigrizia di chi si è sistemato nelle proprie comodità, e tanti di noi abbiamo il pericolo di sistemarci nelle nostre comodità. La speranza non ammette la falsa prudenza di chi non si sbilancia per paura di compromettersi e il calcolo di chi pensa solo a sé stesso; è incompatibile col quieto vivere di chi non alza la voce contro il male e contro le ingiustizie consumate sulla pelle dei più poveri

“Audacia”, “responsabilità”, “compassione”, sono le strade che indica il Vescovo di Roma in questo tempo speciale, a partire già da questa notte in cui si apre la “porta santa” del cuore di Dio: “Con Lui – conclude il Papa - fiorisce la gioia, con Lui la vita cambia”. Con Lui “la speranza non delude”.

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Papa Francesco con Gesù Bambino. Foto: Vatican Media

Al presepe della Basilica

Al termine della Messa, il Papa, accompagnato da un gruppo di bambini di diverse nazionalità, si reca al presepe all'interno della Basilica per posare nella grotta la statua di Gesù Bambino. Anche lì qualche istante in preghiera dinanzi alla natività a cui ha esortato a guardare come riferimento per la vita. Poi un passaggio attraverso la navata centrale per salutare le due ali di fedeli.

* Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano. Originalmente pubblicato in: www.vaticannews.va

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