Il Centro Missionario della Diocesi di Roma promuove, presso la Sala della Conciliazione nel Palazzo Lateranense, un corso di formazione che prevede sei incontri a cadenza mensile, da gennaio a giugno, pensato in particolare per animatori missionari, catechisti, insegnanti di religione e operatori pastorali.

“Il commercio delle armi nell’attuale congiuntura internazionale. Una minaccia alla pace” è stato il tema di studio della seconda conferenza tenutasi il 22 febbraio 2025, e guidata da Fabrizio Battistelli, docente emerito dell'Università di Roma la Sapienza e presidente dell'Ente Olivieri, Biblioteca e Musei Oliveriani di Pesaro.

Pubblichiamo di seguito una sintesi della conferenza del professor Battistelli a cura di fratel Alberto Parise, missionario comboniano.

Il commercio delle armi nell’attuale congiuntura internazionale. Una minaccia alla pace.

Ma quali sono i fondamenti della dimensione economica nel condizionamento dei conflitti?

L’aspetto ideologico, di propaganda, è il cavallo di battaglia per la spesa militare e per gli armamenti, sostenendo che in questo modo si promuove l’innovazione tecnologica, si sostiene il reddito, l’occupazione e l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Ma questi non sono che miti da decostruire e c’è già un’ampia letteratura scientifica al proposito.

Per mostrare i limiti della spesa militare non si può trascurare il volano keynesiano delle armi nel settore produttivo. Una riconversione dell’industria militare richiede valutazioni di spostamento verso altri settori ad alta tecnologia e valore aggiunto, come potrebbe essere la transizione ecologica e la sanità (sviluppando apparecchiature sofisticate). Per essere analogo in vista di una riconversione dell’industria bellica, un settore deve essere tecnologicamente avanzato e non essere in competizione con il settore privato, per cui serve una spesa pubblica in settori nuovi, come ad esempio quello spaziale, che, come quello militare, non è un settore di consumo. La sanità e l’ambiente sono settori dove è possibile fare investimenti che facciano da volano all’economia, con un analogo livello di valore aggiunto.

Leggi anche: “Facciamo Pace”. Corso di Formazione Missionaria

Se guardiamo i volumi totali di esportazione delle armi negli ultimi 50 anni, ci accorgiamo che la curva è uno specchio dell’andamento delle relazioni internazionali. Ad esempio. Vediamo un picco della spesa all’acme della guerra fredda (1979-1983), con la crisi degli euromissili – ricordiamo in Italia la questione dei Pershing II e dei Cruise a Comiso – in opposizione agli SS20 sovietici. Poi ci fu la distensione, con l’avvento di Gorbachev, che portò al decennio del disarmo (1987 – 1997), grazie agli accordi bilaterali USA - URSS/Federazione russa. Il picco più basso si è verificato tra il 2004 e il 2008, quindi c’è stata una risalita delle spese militari con la politica di abbandono del controllo degli armamenti da parte di George W. Bush.

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Il padre Giulio Albanese e il fratel Alberto Parise

I primi 5 Paesi del mondo per esportazioni di grandi sistemi d’arma (USA, Germania, Cina, Francia e Italia) sono responsabili per il 70% dell’export totale di armi. Nel 2023, l’Italia ha esportato grandi sistemi d’arma per un valore complessivo di 1.5 miliardi di dollari.

Nei primi 15 anni dall’applicazione della legge 185/190 (1991-2005), l’export annuale medio di materiale d’armamento è stato di circa 1 miliardo di euro. Gli anni successivi (2006-2023) hanno visto l’export di materiale d’armamento quintuplicare, con una media di circa 5 miliardi di euro all’anno.

Le prime 20 società di armamenti a livello mondiale vedono: ai primi 5 posti aziende statunitensi, poi una britannica, una russa e tre cinesi. Leonardo, la maggiore azienda italiana del settore, è al 13° posto.

20250316ArmiNel caso italiano bisogna distinguere tra armi che fanno del male (che, cioè, vanno in teatri di guerra e colpiscono i civili) dalla gestione legittima e formale degli armamenti, per esempio armi che vanno alla NATO.
I Paesi maggiori importatori di sistemi d’arma sono l’Ucraina (14% del mercato), il Pakistan (7%). il Qatar (6,2 %), l’India (4,9%), la Polonia (4,7%), l’Arabia Saudita (4,5%), L’Egitto (3,9%), il Giappone (4%), seguiti da Turchia e EU.

Nei conflitti e nelle guerre contemporanee la tendenza è quella di vittimizzare i non combattenti che non possono reagire agli attacchi. La guerra si fa sempre più tecnologica, con l’impiego anche dell’intelligenza artificiale (IA). Per esempio, nel conflitto israelo-palestinese, dopo il 7 ottobre 2023 l’IA viene utilizzata nella profilazione dei possibili bersagli, attraverso l’algoritmo Lavender che identifica possibili miliziani da eliminare lasciando all’operatore umano 30 secondi per decidere se sparare o meno. L’algoritmo calcola anche la percentuale di danni collaterali, con limitazioni oltre le 20 vittime collaterali per colpire un miliziano, che nel caso dei capi di Hamas sale fino a 100 vittime collaterali per miliziano.

Il caso Rheinmetall: malgrado le normative che vietano la vendita di armamenti a Paesi in guerra o dittature, Rheinmetall ha attività parallele al di fuori delle leggi tedesche sulle esportazioni. Emblematico è il caso di RWM ITALIA S.p.A. che per la società tedesca ha fabbricato gli ordigni forniti all’aviazione saudita e impiegati nei bombardamenti di obiettivi civili in Yemen. Sui tratta di filiere in deroga per bypassare le leggi tedesche, eludendo la certificazione di chi userà le armi. In questo caso, i pacifisti sono riusciti a fermare questa esportazione di armi verso lo Arabia Saudita e Yemen.

Non è facile arginare le derive economiche dell’esportazione delle armi. Nell’opinione pubblica in Italia, il 46% è per il divieto assoluto di export perché mette a rischio la pace, mentre il 48% è favorevole a vendere solo a Paesi che rispettano i diritti umani. L’opinione pubblica ha un peso nelle democrazie rappresentative, specie nei casi di decisioni impopolari.

Per l’attuale governo, la legge 185/90 è eccessivamente severa e persecutoria. Ma nella realtà il commercio c’è già anche in regime di trasparenza e controllo e vale 5 miliardi di Euro. In questi giorni il Parlamento vuole ampliare la legalità della vendita di armi, introdurre il silenzio assenso per l’approvazione dell’esportazione delle armi e ridurre l’accessibilità alle informazioni su questo commercio all’opinione pubblica.

Sulla questione del commercio delle armi c’è bisogno di suscitare e promuovere maggiore sensibilità, ma c’è una barriera all’informazione, una cortina del silenzio e un privilegio del mondo politico: non vogliono che si disturbi la coscienza dell’opinione pubblica, che deve continuare a credere che tutto va bene, vedere che il PIL cresce, ecc.

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Le notizie sul commercio delle armi vengono tenute rigorosamente nascoste… ignorandole, mentre nel momento pubblico del dibattito vengono selezionate apposta persone non competenti, così da non far emergere informazioni. Oramai ogni giornalista è un opinionista, parla di qualunque argomento. Ci vuole competenza, la capacità di entrare nei problemi, una serena pacatezza basata sui fatti, ma tutto questo risulta inadatto per le dinamiche delle trasmissioni televisive. Si fanno sondaggi basati sulle emozioni anziché sulle informazioni, il posizionamento prescinde dai dati di fatto.

Come possiamo coltivare la speranza?

1. L’opinione pubblica è potenzialmente sensibile. La guerra in Italia si vende a fatica perché c’è ancora una componente culturale che viene dalla storia (soggezione a potenze straniere, fascismo, guerra devastante) e che nutre un senso di inutilità delle soluzioni belliche, a partire dall’esperienza del passato (noi come la Germania abbiamo perso la II Guerra Mondiale, abbiamo avuto il fascismo, ecc.). Molte persone sono contrarie all’invio di armi come forma di solidarietà.

2. Tenere sotto controllo gli armamenti, bisogna parlarne, esaminarne i pro e i contro, puntare su obiettivi intermedi, raggiungibili.

Il 15 marzo 2025 il corso ha affrontato il tema: “Effetti del neocolonialismo sulla pace nelle periferie del mondo” presentato da Marco Massoni.

* Ufficio per la Comunicazione

I cadaveri di almeno 70 cristiani decapitati sono stati ritrovati il 14 febbraio in una chiesa protestante del Nord Kivu: un massacro attribuito ai jihadisti delle Adf. Anche l’esercito governativo è allo sbando e terrorizza la popolazione: due sacerdoti e il vescovo di Uvira rapinati da tre soldati con le armi puntate. E l'M23 avanza. L'appello di Open Doors.

Sono almeno 70 i cristiani decapitati rinvenuti il 14 febbraio in una chiesa protestante del Nord Kivu, una delle tre provincie orientali della Repubblica Democratica del Congo nelle quali decine di gruppi armati agiscono quasi incontrastati ormai da decenni. Sono gruppi che combattono per il controllo di territori sempre più estesi e infieriscono sulla popolazione, motivati da divisioni etniche e dall’obiettivo di accedere alle preziose risorse minerarie della regione. Ma uno di questi gruppi, le Allied democratic forces (Adf, Forze democratiche alleate), è spinto anche da un’altra motivazione, con il tempo diventata la principale, quella di combattere in nome di Allah il jihad, la “guerra santa”.

Le Adf si erano formate tra il 1995 e il 1996 in Uganda, sotto la guida di un leader islamista, Jamil Mukulu, per combattere contro il governo. Da oltre 20 anni però hanno trasferito le loro basi nell’est del Congo. Nel 2016 hanno giurato fedeltà all’Isis, lo Stato Islamico, e dal 2019 fanno parte dell’Iscap, la Provincia dell’Africa centrale dello Stato Islamico, insieme ad Ansar al-Sunna, i jihadisti attivi in Mozambico. Sono autori di gravissimi attentati, stragi, attacchi a chiese e strutture della Chiesa, quasi sempre messi a segno in Congo, ma anche in Uganda. 

Anche se non è ancora del tutto chiaro come si siano svolti i fatti, è alle Adf che si attribuisce il massacro dei cristiani uccisi nella chiesa del Nord Kivu. Si sa che nei giorni scorsi il gruppo ha attaccato diversi villaggi nel Lubero, un territorio densamente popolato, mettendone in fuga gli abitanti. Secondo una ricostruzione, il 12 febbraio alle prime ore del giorno hanno raggiunto Mayba, un villaggio della divisione amministrativa rurale di Baswagha, un’area prevalentemente cristiana, e hanno ordinato agli abitanti di uscire dalle loro abitazioni. Ne hanno catturati una ventina e li hanno portati vita. Poi però, nel tardo pomeriggio, sono ritornati, hanno circondato il villaggio e hanno preso altre 50 persone, in pratica gli abitanti che non erano riusciti a fuggire. Hanno portato tutti i prigionieri in una  chiesa della CECA 20 (Comunità evangelica del Centro Africa) di Kasanga, un villaggio vicino, li hanno legati e infine li hanno uccisi a martellate e a colpi di machete.

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Famiglie in fuga dalle violenze nella RD Congo si rifugiano in una scuola nella provincia di Cibitoke, nel nord-ovest del Burundi. Foto: UNHCR/Bernard Ntwari

Secondo un’altra versione dei fatti, ripresa da Open Doors, l’onlus internazionale che aiuta e sostiene i cristiani perseguitati nel mondo, è possibile invece – stando a quanto riportano alcuni siti web di  notizie locali – che le vittime siano state prigioniere delle Adf per diversi giorni prima di essere uccise e si tratterebbe degli abitanti di Kasanga e non del vicino villaggio di Mayba. Nei prossimi giorni forse si avranno informazioni più precise, o forse no, considerando la situazione di totale sbando della regione, soprattutto adesso che un altro gruppo armato, l’M23, ha conquistato il capoluogo del Nord Kivu, Goma.

Open Doors ha diffuso un comunicato di ferma condanna della strage e ha rivolto un appello alla società civile, ai governi e alle organizzazioni internazionali affinché diano priorità alla protezione dei civili nella Repubblica Democratica del Congo orientale. «Le violenze – ha commentato John Samuel, un legale dell’onlus – avvengono in un contesto di impunità, dove quasi nessuno è chiamato a risponderne. Questo massacro è un chiaro indicatore delle diffuse violazioni dei diritti umani contro i civili e le comunità vulnerabili, spesso contro i cristiani, perpetrate dalle Adf».

«Questi atti terroristici – spiegava monsignor Cyrile Kambale, vescovo della diocesi di Beni all’indomani di una delle stragi compiute dalle Adf lo scorso agosto – non sono soltanto una minaccia per la nostra sicurezza, ma continuano anche a impoverire la popolazione cristiana locale. Come cristiani viviamo nella paura ogni giorno, non possiamo continuare a vivere nel terrore che in qualsiasi momento potremmo essere attaccati dagli islamisti».

Invano il vescovo denunciava una situazione insostenibile a causa della frequenza e della ferocia degli attacchi jihadisti. La sua richiesta di interventi urgenti alle autorità governative è caduta nel vuoto. Neanche gli oltre 16 mila caschi blu della Monusco, la missione Onu di peacekeeping, che pure sono dispiegati in gran parte nel Nord e nel Sud Kivu, intervengono, se non occasionalmente, in difesa della popolazione che difatti più volte ne ha attaccato le sedi, furiosa di non esserne protetta.

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Il vescovo della diocesi di Butembo-Beni in visita ai malati mentali dell'ospedale cittadino. Foto: Vatican Media

Quanto all’esercito governativo, le FARDC (Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo), la gente quasi lo teme quanto i gruppi armati, tante sono le prepotenze, le violenze e gli abusi operati dai militari e che restano impuniti. Il 20 febbraio ha fatto esperienza della loro brutalità persino il vescovo di Uvira, monsignor Sébastien Joseph Muyengo Mulombe. La città potrebbe presto cadere nelle mani dell’M23 che da Goma si è spinto verso sud, ha già conquistato Bukavu e sta marciando verso Uvira. Per questo in città si è concentrato l’esercito governativo o quel che ne resta, dopo che i suoi soldati, a migliaia, hanno disertato e dopo che i suoi generali si sono messi al sicuro nella capitale Kinshasa, a 2.600 chilometri di distanza.

Il 20 febbraio alcuni soldati sono entrati nel complesso della diocesi di Uvira e hanno aggredito il vescovo e altri sacerdoti. Ecco che cosa è successo, raccontato da uno dei sacerdoti in un comunicato: «Noi, Sua Eccellenza Monsignor Sébastien Joseph Muyengo Mulombe, Vescovo di Uvira, e i sacerdoti don Ricardo Mukuninwa e don Bernard Kalolero, siamo appena scampati alla morte questa mattina alle 8:30 presso la sede vescovile di Uvira.

Tre soldati delle FARDC in uniforme sono entrati nel complesso della diocesi, minacciando prima il guardiano, il signor Mwamba, e il cuoco, il signor Jean. Sono uscito per incontrarli e chiedere informazioni sulla situazione, ma hanno puntato le armi da fuoco contro tutti noi e ci hanno buttati a terra insieme al Vescovo. Ci hanno rapinato prendendo soldi, telefoni e altri beni. Ci hanno chiuso poi nelle nostre stanze minacciando di ucciderci al minimo gesto, per potere perquisire tutta la casa». «Gloria a Dio, se ne sono andati – conclude il comunicato rivolto ai fedeli –. Se ci cercate sui nostri cellulari, non siamo raggiungibili».

* Anna Bono è sociologa e scrittrice specializzata in Africa. Originalmente pubblicato in: www.lanuovabq.it

L’avanzata delle milizie armate filo-ruandesi nell’Est del Congo, penetrate da Goma a Bukavu il 14 febbraio scorso, getta le comunità locali nel panico.

I ribelli del Movimento armato M23 non hanno ancora ufficializzato la loro presenza a Bukavu, sebbene alcuni civili, accusati di collaborare con i militari e con il governo, siano stati uccisi dentro e fuori la città.

«C’è molta paura, molta incertezza e confusione» in tutto il Sud Kivu. Bukavu è sotto choc. Questo ci racconta al telefono da Bukavu un testimone oculare che descrive il clima surreale di una città “congelata” e sotto assedio militare.

«Siamo prigionieri nel nostro stesso Paese», dice. «Tutto è fermo, tutto è sospeso – racconta -: le scuole sono chiuse, anche i negozi, le banche, le attività.

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A gennaio, a Bukavu, si sono tenute manifestazioni contro l'ingerenza straniera nel settore minerario. Foto: UN Radio Okapi

Siamo qui, in attesa, e proviamo molta angoscia». Spiega che «nella mattinata di sabato a Kadutu, uno dei quartieri più popolari della città, la gente affamata ha iniziato a saccheggiare i negozi».

Nessuno sa cosa succederà nel breve periodo nel capoluogo del Sud Kivu. Ma tutti sperano che i ribelli non proseguano oltre, verso la capitale.

«L’M23 è dentro la città di Bukavu ma non ha preso una posizione ufficiale e questa incertezza ci lascia molto perplessi», dice il cittadino congolese. «Nelle zone vicine ad un campo militare si sente sparare, ci sono colpi d’arma da fuoco… Si sentono ogni tanto colpi di proiettile», aggiunge.

La proxy war (una guerra per ‘procura’ che vede coinvolto il Ruanda nella conquista dell’Est del Congo ricco di minerali), rischia di allargarsi e di diventare un conflitto regionale che coinvolge anche il Burundi.

Questo, almeno, è il timore di chi ci vive. «Noi siamo molto preoccupati per i nostri amici e per la sorte di chi ha deciso di restare a Bukavu», ci spiega al telefono da Imola Lia Guglielmi, volontaria del gruppo Missioni Imola-Bukavu dell’Oratorio di San Giacomo.

L’associazione lavora da oltre 20 anni al fianco della Repubblica Democratica del Congo: «sono nostri fratelli – dice Lia – condividiamo con loro la fede cristiana, la preghiera e diversi progetti».

«Quello che facciamo da decenni è ricostruire il tessuto sociale distrutto dalle violenze, offrendo aiuti e possibilità di sviluppo che accrescono la dignità delle comunità», dice.

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Foto: Istituto di microcredito IMF Kitumaini a Bukavu nella RD Congo

Ad esempio, è stata avviata un’attività di microcredito con l’IMF Kitumaini, un istituto di microcredito in Congo, grazie alla partnership tra l’Oratorio imolese di San Giacomo e la comunità Les amis de Don Beppe di Bukavu.

L’obiettivo in questo caso è consentire alle donne vittime di violenza sessuale, allontanate dalle famiglie e dai mariti, di avviare delle piccole attività economiche in proprio che restituiscano loro dignità e vita.

Ma i progetti sono tanti e spaziano dalla scuola primaria di Kavumu, nelle campagne a 30 km da Bukavu, (la cui costruzione è iniziata nel 2016 e da sei anni permette a 300 bambini di studiare), all’aiuto concreto fornito agli agricoltori locali, con invio di attrezzature provenienti dalle aziende agricole del territorio di Imola.

«Lo facciamo senza interferire – spiega Lia Guglielmi – tutti i nostri progetti sono realizzati direttamente dai congolesi; noi ci rechiamo a Bukavu periodicamente e seguiamo le attività senza imporci».

Lia spiega che a preoccupare di più i volontari dell’Associazione Imola-Bukavu non è tanto il «fatto che i ribelli possano distruggere le nostre infrastrutture o chiudere le scuole, perché tutto si può ricostruire…

La nostra paura è che possano far del male alle persone. Sono i nostri amici, i nostri fratelli di Bukavu e in questo momento sono in pericolo. Pensiamo che parlare di loro e riportare l’attenzione su questo gemellaggio possa aiutare a non dimenticarci del Sud Kivu».

Da mesi la sorte di tutto l’Est del Paese è nelle mani dei militari congolesi da una parte (i quali non hanno opposto grande resistenza al momento dell’invasione dei ribelli), e dell’M23 finanziato e armato dal vicino Ruanda.

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In uno dei filmati che l’associazione ha ricevuto «si vedono i soldati delle opposte fazioni che entrano a Bukavu alla spicciolata, per preparare l’offensiva sulla città – spiega ancora la volontaria – le immagini sono registrate dai cittadini nascosti dietro alle finestre, e poi le diffondono agli amici e conoscenti per tenerci aggiornati sullo stato dei movimenti delle truppe».

Le istituzioni comunitarie, sebbene solo a livello di Parlamento europeo, iniziano a muoversi per mettere un freno all’impunità del Ruanda nel sostenere i ribelli dell’M23 in Congo.

Parlamento di Strasburgo chiede sospensione memorandum UE-Ruanda

La plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo il 13 febbraio scorso ha chiesto «alla Commissione europea e al Consiglio di sospendere il memorandum Ue-Ruanda sulle catene di valore sostenibili relative alle materie prime, finché il Ruanda non proverà di aver posto fine alla sua ingerenza e di aver smesso di esportare minerali estratti in zone della Rdc controllate dall’M23».

Gli eurodeputati chiedono anche «alla Commissione, agli Stati membri dell’Ue e alle istituzioni finanziarie internazionali di congelare il sostegno diretto al bilancio per il Ruanda fino a quando non consentirà l’accesso umanitario all’area di crisi e romperà tutti i legami con l’M23».

Caos nel capoluogo del Sud Kivu dopo l'ingresso del gruppo M23. Oltre 10.000 gli sfollati fuggiti attraverso il fiume Ruzisi verso il Burundi. Le vittime tra i civili, in tutto l’Est ammonterebbero già a circa 3mila persone.

Fonte: www.popoliemissione.it

Nella notte del 26 gennaio 2025, il cielo si è oscurato nella capitale della provincia del Nord Kivu, Repubblica Democratica del Congo, con la conquista della città di Goma da parte dei ribelli dell'M23 sostenuti dall'esercito ruandese, secondo gli esperti delle Nazioni Unite. Da allora, la situazione nella regione  è diventata caotica. Si parla di oltre 3.000 morti e diverse migliaia di feriti.

La situazione è ancora molto confusa. Con questo scenario, due giorni dopo l’inizio delle ostilità, Papa Francesco ha lanciato un appello per la salvaguardia delle vite umane. Il Papa ha parlato dell'urgente necessità di agire per proteggere la vita delle persone e per ripristinare la sicurezza. Ha inoltre invitato la comunità internazionale a intensificare gli sforzi per una soluzione pacifica del conflitto, sottolineando la responsabilità collettiva in questi conflitti.

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Padre Jacques Kuziala in una formazione nella Cattedrale Notre-Dame nella diocesi di Kisantu

Diffondiamo il video di John MPaliza, attivista per i diritti umani che vive in Italia

Oggi la situazione rimane insostenibile. L'instabilità è evidente e l'insicurezza comincia ad affiorare nella vita quotidiana delle persone. Attualmente mi trovo nel Congo centrale, nella diocesi di Kisantu, a 120 km da Kinshasa, la capitale del Paese.

Nell'ambito della nostra missione di assistenza pastorale liturgica, percepiamo che le cose non vanno bene. C'è una psicosi senza precedenti. La possibile presenza di più di 400 elementi militari nella regione sta disturbando la pace della gente. Sulla via Nazionale n.1 abbiamo incontrato diversi autobus pieni di giovani. Alcuni stanno tornando dai campi di addestramento e per essere inviati al fronte per combattere, secondo le parole del presidente, Félix Tshisekedi.

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Padre Jacques e il vescovo della diocesi di Kisantu, Mons. Crispin Kimbeni

Tutti i segnali indicano che il Paese è davvero in guerra. Si sente il fragore delle armi e gli uomini in uniforme dettano legge. Viviamo nella paura di tutto e di niente.

Cosa ci può dire della situazione attuale a Goma?

Secondo l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, alla fine di gennaio gli sfollati erano più di mezzo milione di persone. La situazione umanitaria a Goma è “estremamente preoccupante”. I ribelli hanno creato le loro istituzioni senza legge né fede. Là è una vera e propria giungla. La popolazione povera viene trattata come un panino pronto per essere mangiato. Chi ci libererà da questa situazione? Nulla sembra chiaro neanche la fine del tunnel. Ma i nostri occhi, pieni di speranza, si rivolgono a Colui che è la nostra pace, per cantare: Maranatha, vieni Signore Gesù (cfr. 1 Cor 16,22).

* Padre Jacques Kuziala, IMC, missionario nella diocesi di Kisantu, RD Congo.

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 Casa bombardate dai ribelli M23 a Ihusi, nel territorio di Kalehe nel Sud-Kivu. Foto: Don Mechak, parroco di Ihusi

“A Bukavu la situazione è al momento calma ma i giovani si stanno recando in massa nei centri di reclutamento dei gruppi di autodifesa, quelli che vengono chiamati Wazelando”, dicono all’Agenzia vaticana Fides fonti locali dal capoluogo del Sud Kivu, minacciato ora dall’avanzata dell’M23 dopo aver preso Goma (capoluogo del Nord Kivu).

“L’M23 sembra aver interrotto la sua avanzata verso Bukavu”, dicono le fonti. “Quindi stiamo vivendo la giornata non sapendo bene cosa attenderci. L’esercito ha avviato una campagna di reclutamento dei civili per inserirli nei gruppi di autodifesa. Molti giovani hanno risposto all’appello delle autorità ed ora stanno ingrossando le file dei cosiddetti Wazalendo”.

Le fonti riferiscono che “a Goma la vita sta lentamente riprendendo. In alcuni quartieri è tornata l’elettricità e ieri sera sono stati ripristinati i collegamenti Internet. Oggi le scuole sono state riaperte, per lo meno quello che non sono state destinate all’accoglienza degli sfollati. Per quanto riguarda questi ultimi i vari campi profughi nei dintorni della città sono stati smantellati; chi può è rientrato nei propri luoghi di origine; gli altri sono stati costretti ad accomodarsi in scuole ed altri edifici pubblici”.

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Secondo i dati raccolti dal Ministero della Sanità congolese insieme all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la situazione sanitaria nella città è molto pesante. “Diverse strutture sanitarie stanno operando oltre la loro capacità: scarseggiano posti letto, medicinali, kit medici, kit per traumi, emoderivati, carburante, materiali e attrezzature chirurgiche” afferma un rapporto del 30 gennaio. “Gli obitori sono saturi (oltre 770 corpi senza vita sono già stati raccolti e altri ancora disseminati lungo le strade dei quartieri non ancora sicuri in avanzato stato di decomposizione)”.

Sul piano politico al termine del loro Summit straordinario tenutosi il 31 gennaio ad Harare (Zimbabwe), i capi di Stato dei Paesi aderenti alla Southern African Development Community (SADC), hanno affermato il loro "incrollabile impegno a continuare a sostenere la Repubblica Democratica del Congo nella sua azione per salvaguardare la sua indipendenza, sovranità e integrità territoriale". Si teme quindi che il conflitto degeneri in uno scontro che vada oltre la regione dei Grandi Laghi come affermato dal Presidente del Burundi in un video postato sul suo canale YouTube.: “Se non c'è pace nel Congo orientale, non c'è pace nella regione. Il conflitto non riguarda solo il Burundi, la Tanzania, l'Uganda, il Kenya, ma l'intera regione”.

RdC appetiti e ipocrisia

Il commento di don Tonio Dell'Olio, presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi, da Mosaico di Pace

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"Ce la fanno passare come una guerra tutta africana che si combatte alla periferia del mondo e, pur essendo in atto oramai da 30 anni con un carico impressionante di vittime e distruzioni, sembra non interessare a nessuno. Al contrario invece tutti gli occhi degli interessi delle industrie hi-tech sono concentrate sul Nord-Kivu e sulle ricchezze che suonano come una condanna per gli abitanti di quelle terre.

Infatti la Repubblica Democratica del Congo non soffre per la miseria ma piuttosto a causa della sua enorme ricchezza che muove gli appetiti di molte potenze. Sono questi interessi ad armare le mani dei combattenti dell'M23 (Mouvement du 23 mars), dell'Afc (Alliance du Fleuve Congo) e delle Rwande Defence Force che seminano terrore e morte.

La guerra di fatto non si è mai fermata e di tanto in tanto si inasprisce ancora di più, come è accaduto in questi giorni a Goma e dintorni, e conquista qualche titolo sui nostri giornali e telegiornali. Ma non più di tanto! Che non faccia troppo rumore! Non sia mai che a restarne ammaccata sia la nostra tecnoeconomia!

Appetito e ipocrisia di Unione europea, Cina, Russia, Usa che sanno bene che da quelle parti si gioca la partita fondamentale per mettere le mani su coltan, cobalto, tungsteno e non solo. La coerenza suggerirebbe quantomeno di imporre al Ruanda le stesse sanzioni cui è sottoposta la Russia. Al contrario proprio un anno fa (19 febbraio 2024) l'Unione europea ha firmato con quella nazione un protocollo per l'esportazione di minerali che non possiede e saccheggia in Congo".

Fonte: Agenzia Fides e Mosaico di Pace

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