Mons. Luis Augusto Castro Quiroga, colombiano, missionario della Consolata, arcivescovo emerito della città di Tunja, è morto in una clinica di Chía, vicino a Bogotá, dove era ricoverato da venerdì scorso. Una figura nota in tutta la Colombia per il suo impegno sociale e la sua ferma leadership a favore della pace nel Paese. Con la sua narrazione ha fatto della missione, intesa in molti modi, un modo gentile e coinvolgente di essere in contatto con il mondo intero. Aveva 80 anni. "Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5,9).
Mons. Luis Augusto è stato prima di tutto un uomo con una profonda sensibilità umana che ha amato l'umanità e la Chiesa, lavorando sempre per adempiere al comando del Signore: "Andate in tutto il mondo e proclamate la Buona Novella a tutta la creazione" (Mc 16,15). Importanti e significativi sono stati i suoi contributi nel campo della missionologia, che come educatore ha saputo far conoscere con una serie di pubblicazioni e scritti, piacevoli e di facile lettura, che sono costantemente usciti dalla sua penna e nei quali traspariva il suo buon umore e la sua sagacia. Ricordando la sua nomina a vescovo ha scritto: "È un fatto assodato che se si chiede a un santo se vuole essere un vescovo, dice subito di no. Quando mi è stato chiesto se volevo diventare vescovo, ho risposto subito di sì".
Oltre a essere un prolifico narratore e autore di numerosi libri, ha promosso la musica, l'arte e i media: a Tunja ha fondato un giornale e un canale televisivo. Si è occupato molto dell'educazione dei leader laici, dei seminaristi e del clero e con il suo carisma ha promosso la fondazione di più di un centro di istruzione superiore.
Eppure, nelle chiese in cui ha prestato servizio, ma anche al di fuori di esse e in gran parte della società civile colombiana, Mons. Castro sarà ricordato come un artigiano della pace determinato, perseverante, insistente e caparbio. L'ha seminata, difesa, sostenuta aprendo continuamente spazi di dialogo e negoziazione.
Come vescovo di San Vicente del Caguán e Puerto Leguizamo, un territorio dove il conflitto e la violenza erano pane quotidiano, nel 1997 ha svolto un ruolo chiave nell'assicurare il rilascio di 60 soldati rapiti dai guerriglieri delle FARC.
Dal 2005 al 2016 è stato presidente della Commissione Nazionale di Riconciliazione e in questo periodo è stato per due volte presidente della Conferenza Episcopale: ha promosso tutte le occasioni di dialogo, ha mediato nella liberazione di vari ostaggi, ha presenziato ai colloqui dell'Avana tra il governo e le FARC senza smettere di incoraggiare e guidare le parti in dialogo, e si è fatto garante del rispetto degli impegni presi. Ha potuto vedere questa pace sbocciare e portare i primi frutti. Gran parte della sua eredità sarà ciò che la Colombia farà con questo immenso dono, frutto di una costruzione collettiva e comunitaria, in cui ha svolto un ruolo importante.
In un'intervista concessa a Telesantiago, in occasione del suo addio alla diocesi di Tunja, egli stesso, e come sempre a modo suo, ha fatto questa sintesi della sua vita e del suo ministero sacerdotale ed episcopale: "Oggi c'è un numero che mi gira in testa ed è l'85. Ottantacinque sono stati i sacerdoti ordinati a Tunja formati nel nostro seminario diocesano e altrettanti sono stati gli ostaggi che sono riuscito a liberare dalle mani dei guerriglieri, non a Tunja ma a San Vicente del Caguán. Due numeretti uguali che indicano due compiti molto diversi ma positivi. A questo punto della mia vita mi piace ricordarli entrambi".
Intervista di Paolo Moiola a porposito del conflitto in Colombia (2017)
Luis Augusto Castro è nato a Bogotá, la capitale della Colombia, l'8 aprile del 1942. Ha studiato presso il Collegio San Bernardo dei Fratelli Lasalliani e poi presso il seminario minore dei Missionari della Consolata.
Nella sua formazione come Missionario della Consolata ha studiato filosofia presso la Pontificia Università Javeriana di Bogotá; fatto il noviziato a Bedizzole e gli studi di teologia presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma. Ha emesso i voti perpetui il 10 marzo 1967 ed è stato ordinato sacerdote a Roma il 24 dicembre dello stesso anno.
Già come sacerdote missionario si è specializzato in counselling all'Università di Pittsburgh e ha ottenuto il dottorato in teologia nella università Javeriana di Bogotá.
Come sacerdote ha ricoperto vari incarichi: viceparroco nella Cattedrale di Florencia (Caquetá, Colombia) e rettore dell'Università dell'Amazzonia nella stessa città (1973-1975); direttore del seminario maggiore di filosofia dei Missionari della Consolata a Bogotá e, allo stesso tempo, consigliere provinciale (1975-1978); superiore regionale della IMC in Colombia (1978-1981).
Dal 1981 al 1986 ha fatto parte del Consiglio Generale dei Missionari della Consolata a Roma.
Il 17 ottobre 1986, Papa Giovanni Paolo II lo ha nominato ordinario del Vicariato Apostolico di San Vicente-Puerto Leguízamo. La sua consacrazione episcopale ha avuto luogo nella Cattedrale Metropolitana di Bogotá il 29 novembre dello stesso anno ed è stata presieduta dai vescovi Angelo Acerbi, Nunzio Apostolico in Colombia; Mario Revollo Bravo, Arcivescovo di Bogotá; José Luis Serna Alzate, vescovo di Florencia e anch'egli Missionario della Consolata.
Mons. castro è stato alla guida del vicariato di san Vicente per dodici anni poi, il 2 febbraio 1998, è stato nominato alla sede metropolitana di Tunja dove è rimasto fino alle sue dimissioni per raggiunti limiti di età che sono state accolte da papa Francesco l’11 febbraio del 2020.
In questi anni è stato vicepresidente della Conferenza episcopale colombiana dal luglio 2002 al luglio 2005 e poi presidente fino al luglio 2008. In questa veste nel 2007 ha partecipato alla Quinta Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano celebrato in Aparecida (Brasile). Ha avuto un secondo mandato come presidente della conferenza Episcopale nel triennio 2014-2017
* Con informazioni provenienti da vari media.
Mons. Luis Augusto Castro durante la celebrazione della festa di Nostra Signora Consolata, il 20 giugno 2022, nella parrocchia del quartiere Vergel, a Bogotà. Foto: Archivio IMC Colombia
Dal Mozambico, dove si trova in missione, il padre Edegard Silva, salettiano di origine brasiliana, risponde ad alcune domande sulla situazione della guerra nella Provincia di Cabo Delgado. "Non parlerò di numeri e statistiche. Dalla missione di Mieze, voglio solo raccontare come abbiamo vissuto questi ultimi tempi in questa conflittiva regione".
Sì, continua. Di solito dico che qui viviamo in una sorta di "scatola delle sorprese". In ogni "capitolo" di questa guerra, veniamo colti da un fatto inaspettato, che cambia l'agenda e lascia l'intera popolazione sbalordita. Per la comunità attaccata, l'azione terroristica è qualcosa di inaspettato. Per i terroristi si trattava probabilmente di un'azione pianificata.
Il giorno in cui verrà dichiarata "ufficialmente" la fine di questa guerra, i postumi del "dopoguerra" diventeranno una sfida e un lento processo di ricostruzione (umana e fisica) delle comunità. E in questo processo entra in gioco la nostra presenza come Chiesa in queste terre. Sarebbe esagerato dire che "ricominceremo da zero", ma la ripresa del processo di evangelizzazione in questa regione sarà impegnativa.
In tutto questo tempo, abbiamo visto che questa guerra è stata caratterizzata da azioni differenziate. Inizialmente, l'uso di machete per decapitare le persone; poi, attacchi a mezzi di trasporto, incendio di case, rapimenti, fino ad arrivare all'uso di armi pesanti e di grosso calibro. Queste azioni non sono improvvisate. Al contrario, si tratta di attacchi pianificati, probabilmente con indicazioni preventive sulle tattiche e i mezzi da utilizzare.
L'espressione "abituarsi alla guerra" è molto crudele. Chi è mosso da compassione e umanità non può accettare questa posizione di passività. Questa espressione non può far parte del nostro vocabolario. Tuttavia, questa guerra va avanti da cinque anni, il primo attacco è avvenuto nell'ottobre 2017. Il fatto che si svolga nel continente africano non sembra suscitare alcun interesse da parte di molte persone, né dei media tradizionali; per questo motivo, rischia di cadere nel dimenticatoio.
Questo mi ricorda il testo di Marina Colasanti, scrittrice italo brasiliana, che si intitola "So ma non devo", che dice: "Ci si abitua ad aprire il giornale e a leggere della guerra. Quando accettiamo la guerra, accettiamo i morti e che ci possono essere e, accettando i numeri, si accetta di non credere ai negoziati di pace, si accetta di leggere ogni giorno della guerra, dei numeri, della lunga durata". Non possiamo abituarci alla guerra, né alle barbarie che l'umanità e la creazione possono subire!
A Cabo Delgado "respiriamo" ogni giorno questo clima di guerra, gli sfollati sono ovunque. Che ci piaccia o no, accompagniamo con ansia questa via crucis che sembra non avere fine.
In realtà gli attacchi non si sono mai fermati. Quelli di maggiore intensità o impatto rimangono nella memoria della stragrande maggioranza delle persone: il giorno dell'attacco, la fuga nella boscaglia, la distruzione del villaggio, tutto questo è registrato nella storia della vita di ogni persona. In molte di questi villaggi che sono stati attaccati non resta più nulla da distruggere. Inoltre, alcuni villaggi del nord, che non erano stati attaccati, sono stati successivamente conquistati dai terroristi.
La "novità" di questi ultimi giorni sono gli attacchi nella regione meridionale della Provincia, precisamente nel distretto di Ancuabe, dove sono stati distrutti alcuni villaggi: questo ha innescato un nuovo ciclo di fuga, la popolazione locale è stata colta dal panico che ha scombussolato l'intera regione.
Anche se quasi nessuno ha accesso alla radio, alla televisione o ai social, la notizia si è diffusa in modo fulmineo. La popolazione, in generale, dispone di telefoni cellulari, molto semplici, ma ricaricabili con piccole piastre solari; possiamo comunicare in modo veloce attraverso questi dispositivi, si stabilisce una sorta di "rete di comunicazione" molto efficiente perché ogni famiglia ha parenti o conoscenti distribuiti in geografie molto ampie, uno avverte l'altro a grande velocità. Evidentemente non si può controllare quali informazioni siano vere e quali no, e le fake news si verificano in modo incontrollato in questo contesto di guerra.
Quando si viene a sapere di un attacco, cerchiamo di entrare in contatto con diverse fonti (le équipe missionarie, gli animatori delle comunità o qualche organizzazione), persone che possano garantire la veridicità di queste informazioni.
Ad ogni modo c'è la sensazione che i villaggi siano totalmente abbandonati e la paura si impossessa della gente.
Non abbiamo lasciato molto spesso l'area in cui svolgiamo la nostra missione. Migliaia di famiglie continuano a vivere in case di parenti, o in insediamenti con condizioni precarie. Come missionari cerchiamo di promuovere azioni che siano alla nostra portata. Abbiamo progetti piccoli e puntuali, soprattutto con i nostri animatori che sono in queste aree ma è una realtà impegnativa e troppo grande per le nostre risorse umane e finanziarie. Anche le organizzazioni umanitarie sono presenti.
Ho trovato interessante un articolo di un responsabile dell'Unione Europea presente in Mozambico che è stato pubblicato di recente. Parla delle tante iniziative intraprese, ma dice che "ci vorrà ancora molto tempo prima che la situazione sia completamente sotto controllo".
È in corso un'azione congiunta tra le Forze armate del Mozambico, le Forze armate della Ruanda e la Missione della Comunità di sviluppo dell'Africa australe. Sono stati compiuti passi significativi. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che anche gli insorti hanno le loro tattiche, e stanno dimostrando un addestramento molto consolidato e probabilmente anche sufficienti finanziamenti.
Noi Missionari salettiani, su richiesta dello stesso Vescovo della Diocesi di Pemba, Mons. Antonio Juliasse, continuiamo ad essere un "punto di riferimento" per le comunità di Muidumbe. Non sono in grado di parlare di quel che succede in ogni distretto dove sono pur presenti altre comunità. A Muidumbe la gente ci cerca, ci chiama e molti animatori sono vicini.
Abbiamo informazioni che in molti distretti hanno iniziato a ripulire l'area, con la riconquista di alcune località e questo ha scatenato nella popolazione un grande desiderio di ritorno. Comprendiamo, umanamente parlando, la nostalgia della casa e della comunità. Ci sono molti fattori ma credo che il più forte sia il desiderio di fare ritorno a casa.
Una volta un animatore mi ha detto: " Se devo soffrire nel mio villaggio o soffrire dove mi sono rifugiato... prefersico soffrire nel mio villaggio". Non è una decisione comune fra tutti gli sfollati. In alcuni casi il padre di famiglia fa un sopralluogo per vedere come stanno le cose lasciando indietro inizialmente moglie e figli. Altri preferiscono aspettare un po' anche a causa di continue notizie di nuovi attacchi o addirittura presenza di terroristi. Per dare una idea nel il distretto di Muidumbe ci sono 26 villaggi. In 13 di loro alcune persone, non la totalità della popolazione del villaggio, sono tornate alle loro case.
Noi stiamo anche organizzando, insieme alla diocesi di Pemba, l'invio di materiale agli animatori per realizzare la Celebrazione della Parola. Anche quello un piccolo segno di ritorno alla normalità.
I missionari sono esseri umani e ognuno vive in modo diverso questa emergenza. Non siamo né superuomini, né superdonne!
Non possiamo negare che proviamo paura, che la struttura fisica delle case in cui viviamo spesso ci preoccupa, che dobbiamo fare i conti con una possibile fuga. Sono situazioni che ci riguardano. Il processo di discernimento di fronte alla decisione "partire/restare" è molto difficile.
Ma in tutto questo continuiamo ad essere pastori delle comunità che ci sono state affidate, abbiamo una responsabilità e un impegno, il si aspetta una parola di fiducia e di speranza.
È di estrema importanza sapere cosa dire ed essere prudenti con le informazioni che vengono trasmesse. La testimonianza e la presenza amorevole tra la gente in questo momento sono molto importanti.
Poi ci è sempre stato chiesto di non stancarci di pregare e chiedere la pace e, visto come vanno le cose nel mondo, non solo in Mozambico. Come seguaci e missionari di Gesù dobbiamo poter entrare ovunque per dire "Pace a questa casa" (Lc 10,5)... venite, unitevi a noi, siamo sognatori, esecutori e costruttori di pace!
* Padre Edegard Silva Júnior, missionario salettiano di origine brasiliana è in missione nella parrocchia di Nostra Signora del Monte Carmelo, Mieze, diocesi di Pemba.
Un incontro dei patriarchi e dei leader cristiani dell'Oriente si è tenuto ieri a Bkerke, sede del patriarcato libanese per affrontare la situazione dei cristiani in Medio oriente e domandare alla comunità araba e internazionale di non appoggiare il terrorismo, aiutando nell'emergenza dei profughi e lavorando per il loro ritorno in patria. E' necessario anche un impegno per trovare una soluzione alla crisi israelo-palestinese.
Il patriarca Beshara Rai ha detto che l'obbiettivo del raduno era di conoscere più fa vicino la situazione dei rifugiati cristiani e quella dei fedeli che hanno deciso di rimanere nel loro Paese, nonostante la guerra e le difficoltà. Per essi, ha aggiunto, è urgente aiutarli a garantire un lavoro, scuole, alloggi perché "possano restare nei loro rispettivi Paesi e preservare così la loro tradizione e missione cristiane".
L'altro obbiettivo è un appello "alle due comunità araba e internazionale" perché vengano in aiuto ai rifugiati, aiutando il loro rimpatrio e aiutandoli a costruire le abitazioni. Questo può essere fatto "mettendo fine alla guerra in Siria e in Iraq con mezzi pacifici, mediante negoziati politici e un dialogo serio fra i belligeranti, neutralizzando le organizzazioni terroriste". Ciò può essere ottenuto se le comunità araba e internazionale "cessano di sostenere [i terroristi] dal punto di vista finanziario e militare, chiudendo le frontiere dove è necessario per impedire la circolazione dei mercenari".
"I disegni politici ed economici - ha aggiunto - non giustificano tali aggressioni terribili contro l'umanità".
Per i patriarchi e i leader cristiani, è necessario anche lavorare per risolvere la crisi israelo-palestinese, sulla base della formula "due popoli, due Stati", permettendo il ritorno dei rifugiati alle loro case. "E' evidente - ha affermato il patriarca Rai - che i due conflitti israelo palestinese e israelo-arabo sono all'origine delle disgrazie che noi viviamo oggi in Medio Oriente".
I leader cristiani domandano uno sforzo maggiore dei governi e delle organizzazioni non governative a favore dei rifugiati e chiedono un impegno maggiore per ottenere la liberazione di tutte le persone rapite, o detenute, siano esse civili, militari o personalità religiose. Fra queste vi sono i due vescovi, il greco-ortodosso di Aleppo, Boulos Yazigi, e il siriaco ortodosso, Youhanna Ibrahim, nelle mani di gruppi fondamentalisti in Siria da quasi due anni.
Un pensiero è stato rivolto alla situazione del Libano, dal maggio scorso senza presidente e con i gruppi politici cristiani e musulmani che ne boicottano l'elezione.
All'incontro hanno partecipato Youhanna Yazigi, patriarca greco-ortodosso; Mar Aghnatios Afram II, patriarca siro-ortodosso; Gregorio III Laham, patriarca greco-cattolico; Mar Aghnatios Youssef III Younane, patriarca siro-cattolico; Joseph Arnaout, rappresentante del Catholicos armeno di Cilicia, Nercès Bedros IX; Michel Kassargi, vescovo caldeo in Libano; il pastore Sélim Sahyoun, presidente del Consiglio superiore della comunità evangelica in Libano e Siria; il nunzio apostolico Gabriele Caccia; diversi rappresentanti di organismi caritativi cattolici, ortodossi e protestanti.