“Facciamo pace”, il corso di formazione promosso dal Centro Missionario della Diocesi di Roma. L'intervento del professor Marco Massoni. Quando controllo delle materie prime e leva del debito si trasformano in armi di controllo. Il caso della Repubblica Democratica del Congo

"Signore, disarma la lingua e le mani, rinnova i cuori e le menti, perché la parola che ci fa incontrare sia sempre “fratello”, e lo stile della nostra vita diventi: shalom, pace, salam! Amen". Con la preghiera di Papa Francesco per la pace, datata 7 giugno 2024, padre Giulio Albanese, mccj, direttore dell’Ufficio per la Cooperazione missionaria della diocesi di Roma, ha inaugurato il terzo incontro del percorso formativo "Facciamo pace". Svoltasi sabato 15 marzo a Roma nell'Aula della Conciliazione del Palazzo Lateranense, la mattinata è stata dedicata al tema “Effetti del neocolonialismo sulla pace nelle periferie del mondo" e ha visto la partecipazione di Marco Massoni, docente all'Università Luiss Guido Carli di Roma.

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"Si vis pacem, para pacem"

L'appuntamento rientra all'interno del corso di formazione missionaria avviato in formato gratuito lo scorso 18 gennaio e articolato in sei incontri a cadenza mensile. L'obiettivo è approfondire le molteplici sfaccettature delle sfide internazionali che stanno caratterizzando il "cambiamento d'epoca" di cui ha spesso parlato Papa Francesco, rivolgendosi a tutti ma in particolare a chi cerca, quotidianamente, di annunciare la gioia del Vangelo, a chi ha il cuore illuminato e trasformato dalla Parola, così ardente da consumarsi d'amore per gli altri. Cioè, rivolgendosi ad animatori missionari, catechisti, insegnanti di religione, operatori pastorali. Che se, da un lato, si recano sul luogo per ascoltare, dialogare e affrontare problemi, dall'altro, hanno urgente bisogno di dotarsi di una bussola per comprendere ciò che avviene nel mondo e per portare ovunque la profezia evangelica indicata dall’indimenticabile don Tonino Bello: "Si vis pacem, para pacem!".

Dinamiche neocolonialiste

Un impegno quasi impossibile se si guarda al palcoscenico internazionale o alle difficoltà sociali che caratterizzano tanti Paesi in varie aree del mondo, eppure proprio per questo necessario. Dunque, dopo i primi due appuntamenti con il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, e con Fabrizio Battistelli, presidente dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo, il terzo incontro è stato dedicato al neocolonialismo. "Una dinamica di dominio economico, politico e culturale che le potenze capitalistiche esercitano sulle ex colonie e su altre aree strategiche del mondo - ha detto il professor Massoni -. Questo fenomeno si radica nel capitalismo finanziario, ovvero nel predominio della finanza globale, delle multinazionali e delle istituzioni economiche internazionali che subordinano i Paesi più deboli agli interessi delle economie avanzate".

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La competizione per le materie prime

Repubblica Democratica del Congo, Sudan, Sud Sudan, Myanmar, Nigeria sono conflitti emblematici: è qui che, dietro la produzione di conflitti e guerre che alimenta disuguaglianze, tensioni sociali e crisi politiche, s'annidano gli effetti di quello che Massoni definisce "neocolonialismo". Si combatte, prosegue il docente, per "il controllo delle risorse di cui il Sud del mondo è ricco - petrolio, gas, terre rare, minerali preziosi - e di cui i Paesi più ricchi hanno bisogno per compiere la fantomatica transizione energetica. Il risultato finale è che le élite locali, corrotte o cooptate, garantiscono l'accesso ai capitali stranieri, mentre le popolazioni restano impoverite e marginalizzate. Così la competizione per il controllo delle risorse si allinea con ribellioni e guerre civili".

Il caso di RD Congo

Il caso della Repubblica Democratica del Congo è, in questo senso, esemplare. Ad alimentare la guerra tra le Forze armate di Kinsasha e il gruppo di ribelli M23 sostenuto dal vicino Rwanda non sono solo le irrisolte questioni etniche o geografiche, spesso legate al colonialismo belga dello scorso secolo o al genocidio del 1994. Controllare la regione del Kivu significa controllare rame, coltan e cobalto, ossia materie sempre più strategiche da vendere alle grandi potenze, in primis Stati Uniti e Cina. Esse sono infatti necessarie per realizzare batterie elettriche, pale eoliche o pannelli solari, così come per alimentare gli schermi degli smartphone e dei computer. Non è un caso se, lo scorso 25 febbraio, in un'intervista al The New York Times il presidente congolese Félix Tshisekedi ha reso noto di aver inviato una lettera al dipartimento di Stato Usa in cui viene offerto al presidente Donald Trump l'accesso a tutte le materie prime del Paese in cambio del sostegno contro il gruppo di ribelli M23.

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Tragiche conseguenze

Il risultato di simili incastri geopolitici è che, come riportato dalla Banca Mondiale, la Repubblica Democratica del Congo è tra i cinque Paesi più poveri al mondo. Nel 2024 il 73% della popolazione viveva con meno di 2 dollari al giorno. Ulteriore fardello sono i fenomeni climatici estremi, come frane e inondazioni, alimentati dall’alta concentrazione di popolazione nei centri urbani (la capitale Kinshasa conta 17 milioni di abitanti) e da una crescita demografica superiore al 3 per cento. Perché, prosegue il professor Massoni, "l'imposizione di modelli economici neolibersti distrugge le economie tradizionali, costringendo milioni di persone a migrare".

Così, in RD Congo come in tanti altri casi, Massoni osserva come "il neocolonialismo si traduce in guerre per procura in cui le grandi potenze finanziano gruppi armati rivali per il controllo di territori strategici. Usa, Francia, Russia e cina si contendono Africa e Medio Oriente sostenendo governi o gruppi ribelli, come avvenuto in Libia, Siria, Yemen e Mali. Gli interventi militari diretti (Iraq 2003, Afghanistan 2001) dimostrano come il capitalismo finanziario non esiti a uasre la forza per garantire il dominio delle proprie multinazionali e del sistema bancario internazionale".

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Il padre Giulio Albanese e il fratel Alberto Parise

Scarica la scheda Piste di riflessione del 15 marzo 2025

Le parole di Papa Francesco

Nella Fratelli Tutti (2020) Papa Francesco ha denunciato le nuove forme di colonialismo economico e finanzario, sottolineando come "in vari Paesi poveri le peggiori conseguenze di alcune misure di austerità si registrano nell'abbandono scolastico, nel declino dei servizi sanitari e nel deterioramento delle infrastrutture. Chi lo paga?". Come in tante altre occasioni, il Pontefice ha invitato "la politica a non sottomettersi all'economia e questa non deve sottomettersi ai diktat e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi, pensando al bene comune, abbiamo assolutamente bisogno che la politica e l'economia, in dialogo, si mettano decisamente al servizio della vita".

Un auspicio che risuona ancora più attuale in queste ultime settimane e che si rivolge non solo ai decisori, ma anche a coloro che quotidianamente sono a contatto con la società civile nel mondo. Lo sforzo del Centro missionario diocesano va proprio entro questa direzione. Il prossimo appuntamento sarà il 12 aprile con Maria Grazia Galantino, coordinatrice dell’Area di ricerca di Archivio Disarmo, che spiegherà "Come essere costruttori di pace. L’impegno civile nel contrastare il ricordo alle armi". Il prossimo 17 maggio la giornalista Lucia Bellaspiga terrà una relazione su Guerra e pace nell’informazione giornalistica internazionale, mentre le conclusioni del percorso saranno affidate al comboniano Alberto Parise il prossimo 21 giugno. 

* Guglielmo Gallone - Città del Vaticano. Pubblicato originalmente in: www.vaticannews.va

Il conflitto nel Nord Kivu, Repubblica Democratica del Congo, ha raggiunto nuovi vertici di violenza, con oltre 3mila morti e 500mila sfollati. Sul numero di marzo della rivista Confronti ne parla Enzo Nucci, giornalista, già corrispondente della Rai per l’Africa subsahariana.

Due istantanee dell’orrore per fotografare la violenza degli scontri nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc) e la colpevole incapacità della comunità internazionale di fermarla. «I container refrigerati e gli obitori sono pieni, saremo impegnati per diversi giorni in sepolture di massa» ha dichiarato al quotidiano francese Le Monde la responsabile della Croce Rossa internazionale a Goma, capoluogo della provincia del Nord Kivu. Tra i cadaveri anche quelli di centinaia di donne violentate e bruciate vive nella sezione femminile di un carcere durante un’evasione di massa. Impossibile stabilire le responsabilità dell’eccidio perché ai peacekeeper della missione dell’Onu (Monusco) è stato impedito di effettuare i sopralluoghi.

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Tutte le iniziative di pace stanno naufragando e il conflitto rischia di espandersi in altre Regioni. Foto: Mondo e Missione

500mila sfollati, 3mila morti, almeno 6mila i feriti tra la popolazione civile sono il parziale bilancio dell’offensiva militare del Movimento 23 marzo (M23) sfociata nell’occupazione di Goma dello scorso 27 gennaio. Ennesima puntata di un radicato conflitto che solo tra il 1997 e il 2003 provocò più di 5 milioni di morti e che ha smesso di essere uno scontro tra eserciti e gruppi armati per trasformarsi in una guerra atipica combattuta da una miriade di bande armate contro inermi civili.

La narrazione degli interessi in gioco è intricata quanto la savana per la molteplicità degli attori impegnati, della competizione interna alle stesse alleanze, degli equilibri geopolitici dell’area, delle ricchezze in ballo: è la cartina di tornasole di quell’Africa complessa e multipolare con cui il mondo si deve confrontare perché distogliere lo sguardo dagli avvenimenti in corso in nome di una convenienza a breve termine potrebbe tra non molto rischiare di aprire il vaso di Pandora.

L’M23 nasce nel 2009 per la mancata integrazione di una precedente milizia nell’esercito governativo congolese: è l’ultimo di una serie di gruppi sostenuti dal Ruanda che affermano di difendere gli interessi delle comunità tutsi che vivono nel Nord-Est del Congo.

Dopo 10 anni di inattività, nel 2021 ha lanciato un’offensiva (appoggiata dall’esercito ruandese) culminata a gennaio con la conquista di Goma, in precedenza occupata solo per alcuni giorni nel 2012. Un successo militare che ha avuto contraccolpi a Kinshasa, capitale della Rdc, dove migliaia di manifestanti (sostenuti da esponenti di governo e dal partito di maggioranza del presidente Tshisekedi) hanno espresso solidarietà ai soldati governativi, assaltato varie ambasciate, accusando inoltre l’Unione europea di finanziare l’esercito di Kigali con 20 milioni di euro per la sua determinante azione nella provincia di Cabo Delgado, nel Nord-Est del Mozambico, per difendere le società energetiche che vi operano (tra cui Eni e Total) dagli agguati dei terroristi islamisti.

Secondo i Rapporti dell’Onu, sono 4mila i militari dell’esercito ruandese che nell’Est del Congo procedono alla sistematica pulizia etnica ricorrendo allo stupro di massa come arma di guerra senza che il Consiglio di Sicurezza e la comunità internazionale adottino provvedimenti concreti contro i soldati del presidente Paul Kagame, al di là di generiche condanne e scontati inviti al ritiro.

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Foto: Flickr/AndrŽ Thiel

Il Ruanda è infatti considerato come uno dei pochi partner affidabili per la sicurezza dell’Occidente, poiché è la Nazione che contribuisce maggiormente e con grande efficienza alla costituzione delle forze di peacekeeping, una reputazione rafforzata dal profilo di Kagame e dai risultati conseguiti nella rinascita del Paese dopo il genocidio del 1994. E dalle sue indubbie capacità diplomatiche che gli garantiscono relazioni amichevoli con Stati Uniti, Inghilterra, Francia che non a caso sono 3 dei 5 membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Senza dimenticare l’Unione europea che ha sottoscritto con il presidente ruandese un protocollo di intesa (del valore di 900 milioni di euro) per la promozione di «catene di valori sostenibili e resilienti nei minerali critici», tra cui il tantalio. Un accordo che ha scatenato le accuse del Congo contro il Ruanda per il saccheggio delle sue risorse, a partire dal coltan, perpetrato proprio nel Nord Kivu con la complicità dell’ M23: non a caso – sottolinea l’Onu – c’è stato un incremento delle esportazioni di coltan da parte del Ruanda dopo l’occupazione nell’aprile 2024 della zona di Rubaya (nella Rdc) da parte dell’M23.

Tutte le iniziative di pace stanno naufragando e il conflitto rischia di espandersi in altre Regioni. Contro l’espansionismo di Kagame sono schierati i confinanti Burundi e Uganda che hanno sottoscritto con il Congo accordi di cooperazione economica e militare. Kagame intanto accusa il Sudafrica di avere interessi minerari in Congo, spiegando così l’intervento militare di Pretoria nella missione della Sadc (Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale). Intanto l’M23 ha anche risvegliato conflitti tra popolazioni locali coagulando anche una parte dell’opposizione al presidente congolese. Insomma bisogna fare presto.

Fonte: Confronti. Pubblicato in: www.tracieloeterra.blog

l Centro Missionario della Diocesi di Roma promuove, presso la Sala della Conciliazione nel Palazzo Lateranense, un corso di formazione che prevede sei incontri a frequenza mensile, da gennaio a giugno, pensato in particolare per animatori missionari, catechisti, insegnanti di religione e operatori pastorali.

“Il commercio delle armi nell’attuale congiuntura internazionale. Una minaccia alla pace” è stato il tema di studio della seconda conferenza tenutasi il 22 febbraio 2025, e guidata dal prof. Fabrizio Battistelli, docente emerito dell'Università di Roma la Sapienza e presidente dell'Ente Olivieri, Biblioteca e Musei Oliveriani di Pesaro.

Pubblichiamo di seguito una sintesi della conferenza del professor Battistelli a cura di fratel Alberto Parise, missionario comboniano.

Il commercio delle armi nell’attuale congiuntura internazionale. Una minaccia alla pace.

Ma quali sono i fondamenti della dimensione economica nel condizionamento dei conflitti?

L’aspetto ideologico, di propaganda, è il cavallo di battaglia per la spesa militare e per gli armamenti, sostenendo che in questo modo si promuove l’innovazione tecnologica, si sostiene il reddito, l’occupazione e l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Ma questi non sono che miti da decostruire e c’è già un’ampia letteratura scientifica al proposito.

Per mostrare i limiti della spesa militare non si può trascurare il volano keynesiano delle armi nel settore produttivo. Una riconversione dell’industria militare richiede valutazioni di spostamento verso altri settori ad alta tecnologia e valore aggiunto, come potrebbe essere la transizione ecologica e la sanità (sviluppando apparecchiature sofisticate). Per essere analogo in vista di una riconversione dell’industria bellica, un settore deve essere tecnologicamente avanzato e non essere in competizione con il settore privato, per cui serve una spesa pubblica in settori nuovi, come ad esempio quello spaziale, che, come quello militare, non è un settore di consumo. La sanità e l’ambiente sono settori dove è possibile fare investimenti che facciano da volano all’economia, con un analogo livello di valore aggiunto.

Leggi anche: “Facciamo Pace”. Corso di Formazione Missionaria

Se guardiamo i volumi totali di esportazione delle armi negli ultimi 50 anni, ci accorgiamo che la curva è uno specchio dell’andamento delle relazioni internazionali. Ad esempio. Vediamo un picco della spesa all’acme della guerra fredda (1979-1983), con la crisi degli euromissili – ricordiamo in Italia la questione dei Pershing II e dei Cruise a Comiso – in opposizione agli SS20 sovietici. Poi ci fu la distensione, con l’avvento di Gorbachev, che portò al decennio del disarmo (1987 – 1997), grazie agli accordi bilaterali USA - URSS/Federazione russa. Il picco più basso si è verificato tra il 2004 e il 2008, quindi c’è stata una risalita delle spese militari con la politica di abbandono del controllo degli armamenti da parte di George W. Bush.

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Il padre Giulio Albanese e il fratel Alberto Parise

I primi 5 Paesi del mondo per esportazioni di grandi sistemi d’arma (USA, Germania, Cina, Francia e Italia) sono responsabili per il 70% dell’export totale di armi. Nel 2023, l’Italia ha esportato grandi sistemi d’arma per un valore complessivo di 1.5 miliardi di dollari.

Nei primi 15 anni dall’applicazione della legge 185/190 (1991-2005), l’export annuale medio di materiale d’armamento è stato di circa 1 miliardo di euro. Gli anni successivi (2006-2023) hanno visto l’export di materiale d’armamento quintuplicare, con una media di circa 5 miliardi di euro all’anno.

Le prime 20 società di armamenti a livello mondiale vedono: ai primi 5 posti aziende statunitensi, poi una britannica, una russa e tre cinesi. Leonardo, la maggiore azienda italiana del settore, è al 13° posto.

20250316ArmiNel caso italiano bisogna distinguere tra armi che fanno del male (che, cioè, vanno in teatri di guerra e colpiscono i civili) dalla gestione legittima e formale degli armamenti, per esempio armi che vanno alla NATO.
I Paesi maggiori importatori di sistemi d’arma sono l’Ucraina (14% del mercato), il Pakistan (7%). il Qatar (6,2 %), l’India (4,9%), la Polonia (4,7%), l’Arabia Saudita (4,5%), L’Egitto (3,9%), il Giappone (4%), seguiti da Turchia e EU.

Nei conflitti e nelle guerre contemporanee la tendenza è quella di vittimizzare i non combattenti che non possono reagire agli attacchi. La guerra si fa sempre più tecnologica, con l’impiego anche dell’intelligenza artificiale (IA). Per esempio, nel conflitto israelo-palestinese, dopo il 7 ottobre 2023 l’IA viene utilizzata nella profilazione dei possibili bersagli, attraverso l’algoritmo Lavender che identifica possibili miliziani da eliminare lasciando all’operatore umano 30 secondi per decidere se sparare o meno. L’algoritmo calcola anche la percentuale di danni collaterali, con limitazioni oltre le 20 vittime collaterali per colpire un miliziano, che nel caso dei capi di Hamas sale fino a 100 vittime collaterali per miliziano.

Il caso Rheinmetall: malgrado le normative che vietano la vendita di armamenti a Paesi in guerra o dittature, Rheinmetall ha attività parallele al di fuori delle leggi tedesche sulle esportazioni. Emblematico è il caso di RWM ITALIA S.p.A. che per la società tedesca ha fabbricato gli ordigni forniti all’aviazione saudita e impiegati nei bombardamenti di obiettivi civili in Yemen. Sui tratta di filiere in deroga per bypassare le leggi tedesche, eludendo la certificazione di chi userà le armi. In questo caso, i pacifisti sono riusciti a fermare questa esportazione di armi verso lo Arabia Saudita e Yemen.

Non è facile arginare le derive economiche dell’esportazione delle armi. Nell’opinione pubblica in Italia, il 46% è per il divieto assoluto di export perché mette a rischio la pace, mentre il 48% è favorevole a vendere solo a Paesi che rispettano i diritti umani. L’opinione pubblica ha un peso nelle democrazie rappresentative, specie nei casi di decisioni impopolari.

Per l’attuale governo, la legge 185/90 è eccessivamente severa e persecutoria. Ma nella realtà il commercio c’è già anche in regime di trasparenza e controllo e vale 5 miliardi di Euro. In questi giorni il Parlamento vuole ampliare la legalità della vendita di armi, introdurre il silenzio assenso per l’approvazione dell’esportazione delle armi e ridurre l’accessibilità alle informazioni su questo commercio all’opinione pubblica.

Sulla questione del commercio delle armi c’è bisogno di suscitare e promuovere maggiore sensibilità, ma c’è una barriera all’informazione, una cortina del silenzio e un privilegio del mondo politico: non vogliono che si disturbi la coscienza dell’opinione pubblica, che deve continuare a credere che tutto va bene, vedere che il PIL cresce, ecc.

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Le notizie sul commercio delle armi vengono tenute rigorosamente nascoste… ignorandole, mentre nel momento pubblico del dibattito vengono selezionate apposta persone non competenti, così da non far emergere informazioni. Oramai ogni giornalista è un opinionista, parla di qualunque argomento. Ci vuole competenza, la capacità di entrare nei problemi, una serena pacatezza basata sui fatti, ma tutto questo risulta inadatto per le dinamiche delle trasmissioni televisive. Si fanno sondaggi basati sulle emozioni anziché sulle informazioni, il posizionamento prescinde dai dati di fatto.

Come possiamo coltivare la speranza?

1. L’opinione pubblica è potenzialmente sensibile. La guerra in Italia si vende a fatica perché c’è ancora una componente culturale che viene dalla storia (soggezione a potenze straniere, fascismo, guerra devastante) e che nutre un senso di inutilità delle soluzioni belliche, a partire dall’esperienza del passato (noi come la Germania abbiamo perso la II Guerra Mondiale, abbiamo avuto il fascismo, ecc.). Molte persone sono contrarie all’invio di armi come forma di solidarietà.

2. Tenere sotto controllo gli armamenti, bisogna parlarne, esaminarne i pro e i contro, puntare su obiettivi intermedi, raggiungibili.

Il 15 marzo 2025 il corso ha affrontato il tema: “Effetti del neocolonialismo sulla pace nelle periferie del mondo” presentato da Marco Massoni.

* Ufficio per la Comunicazione

I cadaveri di almeno 70 cristiani decapitati sono stati ritrovati il 14 febbraio in una chiesa protestante del Nord Kivu: un massacro attribuito ai jihadisti delle Adf. Anche l’esercito governativo è allo sbando e terrorizza la popolazione: due sacerdoti e il vescovo di Uvira rapinati da tre soldati con le armi puntate. E l'M23 avanza. L'appello di Open Doors.

Sono almeno 70 i cristiani decapitati rinvenuti il 14 febbraio in una chiesa protestante del Nord Kivu, una delle tre provincie orientali della Repubblica Democratica del Congo nelle quali decine di gruppi armati agiscono quasi incontrastati ormai da decenni. Sono gruppi che combattono per il controllo di territori sempre più estesi e infieriscono sulla popolazione, motivati da divisioni etniche e dall’obiettivo di accedere alle preziose risorse minerarie della regione. Ma uno di questi gruppi, le Allied democratic forces (Adf, Forze democratiche alleate), è spinto anche da un’altra motivazione, con il tempo diventata la principale, quella di combattere in nome di Allah il jihad, la “guerra santa”.

Le Adf si erano formate tra il 1995 e il 1996 in Uganda, sotto la guida di un leader islamista, Jamil Mukulu, per combattere contro il governo. Da oltre 20 anni però hanno trasferito le loro basi nell’est del Congo. Nel 2016 hanno giurato fedeltà all’Isis, lo Stato Islamico, e dal 2019 fanno parte dell’Iscap, la Provincia dell’Africa centrale dello Stato Islamico, insieme ad Ansar al-Sunna, i jihadisti attivi in Mozambico. Sono autori di gravissimi attentati, stragi, attacchi a chiese e strutture della Chiesa, quasi sempre messi a segno in Congo, ma anche in Uganda. 

Anche se non è ancora del tutto chiaro come si siano svolti i fatti, è alle Adf che si attribuisce il massacro dei cristiani uccisi nella chiesa del Nord Kivu. Si sa che nei giorni scorsi il gruppo ha attaccato diversi villaggi nel Lubero, un territorio densamente popolato, mettendone in fuga gli abitanti. Secondo una ricostruzione, il 12 febbraio alle prime ore del giorno hanno raggiunto Mayba, un villaggio della divisione amministrativa rurale di Baswagha, un’area prevalentemente cristiana, e hanno ordinato agli abitanti di uscire dalle loro abitazioni. Ne hanno catturati una ventina e li hanno portati vita. Poi però, nel tardo pomeriggio, sono ritornati, hanno circondato il villaggio e hanno preso altre 50 persone, in pratica gli abitanti che non erano riusciti a fuggire. Hanno portato tutti i prigionieri in una  chiesa della CECA 20 (Comunità evangelica del Centro Africa) di Kasanga, un villaggio vicino, li hanno legati e infine li hanno uccisi a martellate e a colpi di machete.

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Famiglie in fuga dalle violenze nella RD Congo si rifugiano in una scuola nella provincia di Cibitoke, nel nord-ovest del Burundi. Foto: UNHCR/Bernard Ntwari

Secondo un’altra versione dei fatti, ripresa da Open Doors, l’onlus internazionale che aiuta e sostiene i cristiani perseguitati nel mondo, è possibile invece – stando a quanto riportano alcuni siti web di  notizie locali – che le vittime siano state prigioniere delle Adf per diversi giorni prima di essere uccise e si tratterebbe degli abitanti di Kasanga e non del vicino villaggio di Mayba. Nei prossimi giorni forse si avranno informazioni più precise, o forse no, considerando la situazione di totale sbando della regione, soprattutto adesso che un altro gruppo armato, l’M23, ha conquistato il capoluogo del Nord Kivu, Goma.

Open Doors ha diffuso un comunicato di ferma condanna della strage e ha rivolto un appello alla società civile, ai governi e alle organizzazioni internazionali affinché diano priorità alla protezione dei civili nella Repubblica Democratica del Congo orientale. «Le violenze – ha commentato John Samuel, un legale dell’onlus – avvengono in un contesto di impunità, dove quasi nessuno è chiamato a risponderne. Questo massacro è un chiaro indicatore delle diffuse violazioni dei diritti umani contro i civili e le comunità vulnerabili, spesso contro i cristiani, perpetrate dalle Adf».

«Questi atti terroristici – spiegava monsignor Cyrile Kambale, vescovo della diocesi di Beni all’indomani di una delle stragi compiute dalle Adf lo scorso agosto – non sono soltanto una minaccia per la nostra sicurezza, ma continuano anche a impoverire la popolazione cristiana locale. Come cristiani viviamo nella paura ogni giorno, non possiamo continuare a vivere nel terrore che in qualsiasi momento potremmo essere attaccati dagli islamisti».

Invano il vescovo denunciava una situazione insostenibile a causa della frequenza e della ferocia degli attacchi jihadisti. La sua richiesta di interventi urgenti alle autorità governative è caduta nel vuoto. Neanche gli oltre 16 mila caschi blu della Monusco, la missione Onu di peacekeeping, che pure sono dispiegati in gran parte nel Nord e nel Sud Kivu, intervengono, se non occasionalmente, in difesa della popolazione che difatti più volte ne ha attaccato le sedi, furiosa di non esserne protetta.

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Il vescovo della diocesi di Butembo-Beni in visita ai malati mentali dell'ospedale cittadino. Foto: Vatican Media

Quanto all’esercito governativo, le FARDC (Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo), la gente quasi lo teme quanto i gruppi armati, tante sono le prepotenze, le violenze e gli abusi operati dai militari e che restano impuniti. Il 20 febbraio ha fatto esperienza della loro brutalità persino il vescovo di Uvira, monsignor Sébastien Joseph Muyengo Mulombe. La città potrebbe presto cadere nelle mani dell’M23 che da Goma si è spinto verso sud, ha già conquistato Bukavu e sta marciando verso Uvira. Per questo in città si è concentrato l’esercito governativo o quel che ne resta, dopo che i suoi soldati, a migliaia, hanno disertato e dopo che i suoi generali si sono messi al sicuro nella capitale Kinshasa, a 2.600 chilometri di distanza.

Il 20 febbraio alcuni soldati sono entrati nel complesso della diocesi di Uvira e hanno aggredito il vescovo e altri sacerdoti. Ecco che cosa è successo, raccontato da uno dei sacerdoti in un comunicato: «Noi, Sua Eccellenza Monsignor Sébastien Joseph Muyengo Mulombe, Vescovo di Uvira, e i sacerdoti don Ricardo Mukuninwa e don Bernard Kalolero, siamo appena scampati alla morte questa mattina alle 8:30 presso la sede vescovile di Uvira.

Tre soldati delle FARDC in uniforme sono entrati nel complesso della diocesi, minacciando prima il guardiano, il signor Mwamba, e il cuoco, il signor Jean. Sono uscito per incontrarli e chiedere informazioni sulla situazione, ma hanno puntato le armi da fuoco contro tutti noi e ci hanno buttati a terra insieme al Vescovo. Ci hanno rapinato prendendo soldi, telefoni e altri beni. Ci hanno chiuso poi nelle nostre stanze minacciando di ucciderci al minimo gesto, per potere perquisire tutta la casa». «Gloria a Dio, se ne sono andati – conclude il comunicato rivolto ai fedeli –. Se ci cercate sui nostri cellulari, non siamo raggiungibili».

* Anna Bono è sociologa e scrittrice specializzata in Africa. Originalmente pubblicato in: www.lanuovabq.it

L’avanzata delle milizie armate filo-ruandesi nell’Est del Congo, penetrate da Goma a Bukavu il 14 febbraio scorso, getta le comunità locali nel panico.

I ribelli del Movimento armato M23 non hanno ancora ufficializzato la loro presenza a Bukavu, sebbene alcuni civili, accusati di collaborare con i militari e con il governo, siano stati uccisi dentro e fuori la città.

«C’è molta paura, molta incertezza e confusione» in tutto il Sud Kivu. Bukavu è sotto choc. Questo ci racconta al telefono da Bukavu un testimone oculare che descrive il clima surreale di una città “congelata” e sotto assedio militare.

«Siamo prigionieri nel nostro stesso Paese», dice. «Tutto è fermo, tutto è sospeso – racconta -: le scuole sono chiuse, anche i negozi, le banche, le attività.

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A gennaio, a Bukavu, si sono tenute manifestazioni contro l'ingerenza straniera nel settore minerario. Foto: UN Radio Okapi

Siamo qui, in attesa, e proviamo molta angoscia». Spiega che «nella mattinata di sabato a Kadutu, uno dei quartieri più popolari della città, la gente affamata ha iniziato a saccheggiare i negozi».

Nessuno sa cosa succederà nel breve periodo nel capoluogo del Sud Kivu. Ma tutti sperano che i ribelli non proseguano oltre, verso la capitale.

«L’M23 è dentro la città di Bukavu ma non ha preso una posizione ufficiale e questa incertezza ci lascia molto perplessi», dice il cittadino congolese. «Nelle zone vicine ad un campo militare si sente sparare, ci sono colpi d’arma da fuoco… Si sentono ogni tanto colpi di proiettile», aggiunge.

La proxy war (una guerra per ‘procura’ che vede coinvolto il Ruanda nella conquista dell’Est del Congo ricco di minerali), rischia di allargarsi e di diventare un conflitto regionale che coinvolge anche il Burundi.

Questo, almeno, è il timore di chi ci vive. «Noi siamo molto preoccupati per i nostri amici e per la sorte di chi ha deciso di restare a Bukavu», ci spiega al telefono da Imola Lia Guglielmi, volontaria del gruppo Missioni Imola-Bukavu dell’Oratorio di San Giacomo.

L’associazione lavora da oltre 20 anni al fianco della Repubblica Democratica del Congo: «sono nostri fratelli – dice Lia – condividiamo con loro la fede cristiana, la preghiera e diversi progetti».

«Quello che facciamo da decenni è ricostruire il tessuto sociale distrutto dalle violenze, offrendo aiuti e possibilità di sviluppo che accrescono la dignità delle comunità», dice.

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Foto: Istituto di microcredito IMF Kitumaini a Bukavu nella RD Congo

Ad esempio, è stata avviata un’attività di microcredito con l’IMF Kitumaini, un istituto di microcredito in Congo, grazie alla partnership tra l’Oratorio imolese di San Giacomo e la comunità Les amis de Don Beppe di Bukavu.

L’obiettivo in questo caso è consentire alle donne vittime di violenza sessuale, allontanate dalle famiglie e dai mariti, di avviare delle piccole attività economiche in proprio che restituiscano loro dignità e vita.

Ma i progetti sono tanti e spaziano dalla scuola primaria di Kavumu, nelle campagne a 30 km da Bukavu, (la cui costruzione è iniziata nel 2016 e da sei anni permette a 300 bambini di studiare), all’aiuto concreto fornito agli agricoltori locali, con invio di attrezzature provenienti dalle aziende agricole del territorio di Imola.

«Lo facciamo senza interferire – spiega Lia Guglielmi – tutti i nostri progetti sono realizzati direttamente dai congolesi; noi ci rechiamo a Bukavu periodicamente e seguiamo le attività senza imporci».

Lia spiega che a preoccupare di più i volontari dell’Associazione Imola-Bukavu non è tanto il «fatto che i ribelli possano distruggere le nostre infrastrutture o chiudere le scuole, perché tutto si può ricostruire…

La nostra paura è che possano far del male alle persone. Sono i nostri amici, i nostri fratelli di Bukavu e in questo momento sono in pericolo. Pensiamo che parlare di loro e riportare l’attenzione su questo gemellaggio possa aiutare a non dimenticarci del Sud Kivu».

Da mesi la sorte di tutto l’Est del Paese è nelle mani dei militari congolesi da una parte (i quali non hanno opposto grande resistenza al momento dell’invasione dei ribelli), e dell’M23 finanziato e armato dal vicino Ruanda.

20250219Congo

In uno dei filmati che l’associazione ha ricevuto «si vedono i soldati delle opposte fazioni che entrano a Bukavu alla spicciolata, per preparare l’offensiva sulla città – spiega ancora la volontaria – le immagini sono registrate dai cittadini nascosti dietro alle finestre, e poi le diffondono agli amici e conoscenti per tenerci aggiornati sullo stato dei movimenti delle truppe».

Le istituzioni comunitarie, sebbene solo a livello di Parlamento europeo, iniziano a muoversi per mettere un freno all’impunità del Ruanda nel sostenere i ribelli dell’M23 in Congo.

Parlamento di Strasburgo chiede sospensione memorandum UE-Ruanda

La plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo il 13 febbraio scorso ha chiesto «alla Commissione europea e al Consiglio di sospendere il memorandum Ue-Ruanda sulle catene di valore sostenibili relative alle materie prime, finché il Ruanda non proverà di aver posto fine alla sua ingerenza e di aver smesso di esportare minerali estratti in zone della Rdc controllate dall’M23».

Gli eurodeputati chiedono anche «alla Commissione, agli Stati membri dell’Ue e alle istituzioni finanziarie internazionali di congelare il sostegno diretto al bilancio per il Ruanda fino a quando non consentirà l’accesso umanitario all’area di crisi e romperà tutti i legami con l’M23».

Caos nel capoluogo del Sud Kivu dopo l'ingresso del gruppo M23. Oltre 10.000 gli sfollati fuggiti attraverso il fiume Ruzisi verso il Burundi. Le vittime tra i civili, in tutto l’Est ammonterebbero già a circa 3mila persone.

Fonte: www.popoliemissione.it

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