Vivo da 15 anni in Polonia, nel Paese confinante con l'Ucraina. Quando è scoppiata la guerra, ricordiamo tutti molto bene le migliaia, milioni di persone che dall'Ucraina sono improvvisamente entrate in Polonia, mamme e bambini. Ci siamo impegnati molto nell'accoglienza di queste persone nella prima fase
"Questa è stata la prima fase di accoglienza, poi la nostra attenzione si è spostata maggiormente sull'Ucraina, dove purtroppo ancora il conflitto continua e quindi abbiamo iniziato a compiere viaggi in macchina. Solo nell'ultimo anno ci sono stato cinque volte. L'ultima volta un mese fa, a metà marzo, insieme a un altro sacerdote polacco, don Leszek Kryza, che è un profondo conoscitore dell'Ucraina. Lui ora lavora in Polonia, ma ha molti contatti in Ucraina. Insieme abbiamo iniziato a portare questi aiuti rispondendo alle necessità che sono davvero grandi in questo momento".
Ogni viaggio che ho fatto è stata un'occasione per incontrare le persone in tanti paesi, in tante città. Abbiamo visitato e portato aiuto, lo stiamo ancora portando in queste settimane in tutto il Paese: dalla zona più lontana dal fronte come, per esempio, la grande città Leopoli o altre città dove ci sono tantissimi profughi provenienti dalla zona est, ma siamo arrivati anche nelle zone del fronte: l'ultimo viaggio lo abbiamo fatto a Kherson, prima ancora a Kharkiv. Compiendo questi viaggi, incontriamo tantissime persone: sono persone stanche, stanche della guerra. Non dimentichiamo che dura da più di un anno, ma in alcune regioni del Paese da ben nove anni ininterrottamente. Non c'è giorno che da qualche parte in Ucraina non ci siano bombe, esplosioni. Questa da un senso costante di paura.
Allo stesso tempo c'è la speranza che questa guerra possa concludersi prima o poi e speriamo il prima possibile. Ed è anche la nostra speranza. È chiaro che al momento realisticamente non è facile vedere una fine perché la situazione è molto complessa, però non dimentichiamo che l'obiettivo da raggiungere è la pace.
Io ammiro grandemente le persone che ho incontrato – religiosi, sacerdoti, suore, vescovi – che per scelta sono rimasti tutti praticamente li dove già vivevano prima dello scoppio della guerra. Li ammiro perché non è facile. Hanno avuto e stanno dimostrando un grande coraggio e questa vicinanza alle persone è un qualcosa di impagabile, preziosa tanto quanto sono preziosi gli aiuti umanitari, forse ancora di più. Perché se le persone soffrono per mancanza di beni materiali, non dimentichiamo che la sofferenza più grande è la mancanza di umanità che queste persone vedono in pochi giorni, in pochi attimi, scomparire nella loro vita. La presenza della Chiesa, dei religiosi, delle persone che sono lì col popolo di Dio, è un segno anzitutto di presenza: “Ci sono, sono vicino a te nella sofferenza. Non scappo. Ti aiuto per quanto ti posso aiutare. Soffro con te, spero con te e condivido con te quello che ricevo”. Credo che sono un po’ gli atteggiamenti che in questo momento stanno distinguendo queste persone. Invito davvero tutti a continuare a pregare per loro perché sempre abbiano forza, abbiano coraggio e possano sempre indicare l'obiettivo che tutti speriamo, l'obiettivo della pace, che possa arrivare al più presto anche attraverso loro.
Credo che abbia cambiato anche me, nel senso che io mai, mai avrei immaginato di trovarmi in una situazione come questa, pur non vivendo in Ucraina, ma essendo a stretto contatto, tornandoci spesso e comunque vivendo quelle relazioni che si sono messe in moto a causa della guerra. La guerra è brutta, la guerra è tremenda, la guerra ti distrugge, porta morte, però vorrei anche essere portavoce non soltanto di questa tragedia, ma anche provare a far vedere che c'è un lato positivo: c'è una grande umanità che si sta muovendo nel corso della guerra, persone che comunque vogliono fare qualcosa, vogliono aiutare, vogliono essere vicino a queste persone. Ne ho conosciute tante. E questo per dire che di fronte a una tragedia come quella che si sta consumando in Ucraina in questo momento, la risposta del bene è forte, anche se è una risposta più silenziosa e molto meno appariscente del male. E io sono un po’ testimone anche di questo.
Il mio coinvolgimento è dovuto anche al fatto che tante persone mi hanno contattato in maniera del tutto spontanea dicendo: “Padre Luca, noi abbiamo questi beni, aiutaci a farli arrivare in sicurezza. Tanti aiuti li trovo in Italia, e anche, chiaramente, in Polonia: la mia Congregazione manda gli aiuti dalla Spagna, dal Canada, dal Sudafrica; da tutto il mondo sono venuti gli aiuti in diversi modi: chi si è fermato un mese, che si è fermato due, chi ha spedito dei container, chi una somma di denaro. Questo è un segno di come di fronte a una realtà così grande e tragica c'è, comunque, una risposta positiva che guai se venisse a mancare. Questa è una risposta positiva che occorre costruire, credere, sottolineare, ricordare perché a noi la guerra fa paura, fa impressione, giustamente, però il bene deve essere più forte, deve vincere questa guerra e crediamo fortemente in questo.
Io credo che il compito di ognuno di noi è porsi la domanda: “Cosa posso fare io?” Io non avrò mai la possibilità di cambiare i destini della guerra perché non ho questa responsabilità, però nel mio piccolo posso fare qualcosa. Ed è una domanda che se tutti quanti ci facciamo e alla quale cerchiamo di rispondere, troveremo davvero la forza e capiremo cosa concretamente possiamo fare. E qui dai bambini, agli adulti, agli anziani – tutti possiamo fare qualcosa di concreto.
Vi racconto questo piccolo episodio. Durante l’ultimo viaggio siamo stati a Kherson che è una città a sud dell’Ucraina. La regione di Kherson è divisa dal fiume Dnipro che in questo momento è proprio il confine della linea frontale. Ero accompagnato dal parroco locale. La zona è insicura, pericolosa e come sacerdoti non soltanto abbiamo portato gli aiuti in quel contesto, ma abbiamo pregato in quel momento lì, proprio sulla riva del fiume. Spontaneamente ha voluto benedire proprio quello che stava succedendo lì, dicendo: “Signore, aiutaci, perché siamo veramente deboli di fronte a questo”. Questo è un piccolo esempio, ma senza andare in queste situazioni così esposte, credo che ognuno di noi davvero può fare e dovrebbe fare qualcosa positivamente. San Paolo dice: “Vinci il male con il bene”. E quando il male è grande, non ti devi spaventare, non riuscirai a vincerlo completamente, però per lo meno quella piccola goccia di bene che puoi fare portala e tuvedrai che tante piccole gocce potranno veramente dare un grande effetto, contribuiranno ad un grande sollievo per tante persone.
Fonte: VATICAN NEWS
L'angelo disse alle donne: "Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto" (Mt 28,5-6). La risurrezione di Gesù è la ragion d'essere della fede cristiana. San Paolo afferma chiaramente: " Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati.” (1 Cor 15,14.17). Con queste parole, egli indica l'importanza decisiva che attribuisce alla risurrezione di Gesù, perché in questo evento si trova la soluzione al problema posto dal dramma della croce: la Pasqua consiste nel fatto che il Crocifisso "è risorto il terzo giorno secondo le Scritture" (1 Cor 15,4).
Diversi santi, beati e teologi hanno riflettuto sul significato della risurrezione di Gesù, perché è il fondamento della vita cristiana e la ragion d'essere della Chiesa nel mondo. Uno di loro è il beato Giuseppe Allamano, fondatore e padre dei Missionari e delle Missionarie della Consolata. Per Giuseppe Allamano, la Pasqua è:
Lui dice: "Noi dobbiamo risorgere al fervore; non solo dal peccato, ma da tutte le debolezze. Conserviamo sempre il fervore che sentiamo in questa festa" (Così vi voglio 71). Va notato che il fervore è il sentimento di intenso entusiasmo e ammirazione per qualcuno o qualcosa. Per il cristiano risorgere al fervore significa approfondire nella sequela di Gesù Cristo, essere migliori discepoli e missionari di Gesù. In questo senso Giuseppe Allamano dice: “Tutti dicano a se stessi: «Siamo risorti, non vogliamo più morire, vogliamo essere veri missionari, vere missionarie!»” (Così vi voglio 71).
Dopo la risurrezione, Gesù ha incontrato gli apostoli e li ha salutati con il saluto della pace: "Vi lascio la pace, vi do la mia pace" (Gv 14,27). Cristo è il Principe della pace (Isaia 9,6), è il prototipo per eccellenza della pace, perché "è la nostra pace" (Ef 2,14).
La Pasqua è un tempo per vivere in pace e per chiedere la pace per coloro che non ce l'hanno. È un tempo per imparare da Gesù la pedagogia della pace che aiuta a superare conflitti, contrattempi e guerre; che produce benessere, tranquillità e stabilità. Egli ci insegna la riconciliazione interpersonale anche nei momenti in cui sperimentiamo la violenza degli altri: "A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l'altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica" (Lc 6,29). Così, la risurrezione di Gesù Cristo è la fonte inesauribile di pace, perdono e riconciliazione per tutta l'umanità.
Giuseppe Allamano afferma che “bisogna quindi che ci sia la pace con Dio, compiendo la sua volontà; con noi stessi, evitando le distrazioni, regolando le passioni e liberandoci dai desideri inutili; e con il prossimo, soprattutto accettandone i limiti e trattando tutti bene” (Così vi voglio 72).
Il beato Giuseppe Allamano diceva che “lo spirito della Chiesa in questo tempo è di allegrezza. Chi sentisse di non partecipare a questa festa, chi non godesse in cuor suo, non ha né cuore, né spirito” (Così vi voglio 73).
La Sacra Scrittura testimonia la risurrezione del Signore come fonte fondamentale della gioia: le donne tornarono dalla tomba vuota piene di paura e di gioia (Mt 28,8) e i discepoli gioirono quando videro il Signore risorto (Gv 20,20). L'incontro di Cristo con i discepoli nello spezzare il pane (At 2,46) comunica loro gioia. La Chiesa è piena di fede gioiosa in Cristo (1Pt 1,8). Il fondamento della gioia dei cristiani è il Signore risorto.
La gioia evangelica è una virtù che accompagna sempre i seguaci di Gesù Cristo e in modo particolare i missionari della Consolata. Dice Giuseppe Allamano: "Siamo allegri sempre, tutti i giorni e tutto l’anno. (...) Siamo allegri anche per riguardo al prossimo, di modo che non debba sopportarci, ma possa dire: «Questi missionari e missionarie hanno lasciato casa, parenti, tutto, eppure hanno sempre il cuore allegro!»" (Così vi voglio 73).
La gioia contribuisce al bene degli individui e dei popoli e aiuta molto il missionario nella sua opera di evangelizzazione. Il beato Giuseppe Allamano sottolinea a questo proposito: “Se si vuole fare del bene, bisogna essere allegri: il prossimo ne resta edificato ed è attratto alla virtù. Uno può essere santo; ma se è tutto concentrato in se stesso, chiuso, fa paura e nessuno vuole avvicinarlo” (Così vi voglio 73).
“Bisogna stare bene di anima e di corpo. Io desidero che si conservi e sì accresca sempre più lo spirito di tranquillità, di scioltezza, di serenità. Questo è lo spirito che io voglio: sempre gioia, sempre facce allegre!” (Così vi voglio 74).
La risurrezione di Gesù è il più grande mistero della nostra salvezza e il fondamento della nostra fede cristiana. Per questo, come credenti e discepoli-missionari di Gesù Cristo, dobbiamo vivere la festa della risurrezione con gioia, pace, perdono e riconciliazione con noi stessi e con il nostro prossimo.
Alcuni stralci di due interventi di Papa Francesco nella visita ecumenica nel Sud Sudan. L’impegno della chiesa per rinnovare la speranza
Cari fratelli e sorelle, buon pomeriggio!
Joseph, hai posto una domanda decisiva: «Perché stiamo a soffrire nel campo per sfollati?». Perché… Perché tanti bambini e giovani come te stanno lì, anziché a scuola a studiare o in un bel posto all’aperto a giocare? Tu stesso ci hai dato la risposta, dicendo che è «a causa dei conflitti in corso nel Paese». È proprio a motivo delle devastazioni prodotte dalla violenza umana, oltre che per quelle causate dalle inondazioni, che milioni di nostri fratelli e sorelle come voi, tra cui tantissime mamme con i bambini, hanno dovuto lasciare le loro terre e abbandonare i loro villaggi, le loro case. Purtroppo in questo martoriato Paese essere sfollato o rifugiato è diventata un’esperienza consueta e collettiva.
Rinnovo perciò con tutte le forze il più accorato appello a far cessare ogni conflitto, a riprendere seriamente il processo di pace perché abbiano fine le violenze e la gente possa tornare a vivere in modo degno. Solo con la pace, la stabilità e la giustizia potranno esserci sviluppo e reintegrazione sociale. Ma non si può più attendere! Un numero enorme di bambini nati in questi anni ha conosciuto soltanto la realtà dei campi per sfollati, dimenticando l’aria di casa, perdendo il legame con la propria terra di origine, con le radici, con le tradizioni.
C’è bisogno di crescere come società aperta, mischiandosi, formando un unico popolo attraverso le sfide dell’integrazione. C’è bisogno di abbracciare il rischio stupendo di conoscere e accogliere chi è diverso, per ritrovare la bellezza di una fraternità riconciliata e sperimentare l’avventura impagabile di costruire liberamente il proprio avvenire insieme a quello dell’intera comunità. E c’è assoluto bisogno di evitare la marginalizzazione dei gruppi e la ghettizzazione degli esseri umani. Ma per tutti questi bisogni c’è bisogno di pace. E c’è bisogno dell’aiuto di tanti, dell’aiuto di tutti.
Perciò vorrei ringraziare la Vice Rappresentante speciale Sara Beysolow Nyanti per averci detto che oggi è l’occasione per tutti di vedere quello che da anni sta accadendo in questo Paese. Qui infatti perdura la più grande crisi di rifugiati del Continente, con almeno quattro milioni di figli di questa terra sfollati, con l’insicurezza alimentare e la malnutrizione che colpiscono i due terzi della popolazione e con le previsioni che parlano di una tragedia umanitaria che può peggiorare ulteriormente nel corso dell’anno. Ma vorrei ringraziarla soprattutto perché lei e molti altri non sono rimasti fermi a studiare la situazione, ma si sono dati da fare. Lei, Signora, ha percorso il Paese, ha guardato negli occhi le madri assistendo al dolore che provano per la situazione dei figli; mi ha colpito quando ha affermato che, nonostante tutto quello che soffrono, non si sono mai spenti sui loro volti il sorriso e la speranza.
E condivido quanto ha detto su di loro: le madri, le donne sono la chiave per trasformare il Paese: se riceveranno le giuste opportunità, attraverso la loro laboriosità e la loro attitudine a custodire la vita, avranno la capacità di cambiare il volto del Sud Sudan, di dargli uno sviluppo sereno e coeso! Ma, vi prego, prego tutti gli abitanti di queste terre: la donna sia protetta, rispettata, valorizzata e onorata. Per favore: proteggere, rispettare, valorizzare e onorare ogni donna, bambina, ragazza, giovane, adulta, madre, nonna. Senza questo non ci sarà futuro.
E ora, fratelli e sorelle, guardo ancora a voi, ai vostri occhi stanchi ma luminosi che non hanno smarrito la speranza, alle vostre labbra che non hanno perso la forza di pregare e di cantare.
Siete voi il seme di un nuovo Sud Sudan, il seme per una crescita fertile e rigogliosa del Paese. Siete voi, di tutte le diverse etnie, voi che avete patito e state soffrendo, ma che non volete rispondere al male con altro male. Voi, che fin d’ora scegliete la fraternità e il perdono, state coltivando un domani migliore. Un domani che nasce oggi, lì dove siete, dalla capacità di collaborare, di tessere trame di comunione e percorsi di riconciliazione con chi, diverso da voi per etnia e provenienza, vi vive accanto. Fratelli e sorelle, siate semi di speranza, nei quali già s’intravede l’albero che un giorno, speriamo vicino, porterà frutto. Sì, sarete voi gli alberi che assorbiranno l’inquinamento di anni di violenze e restituiranno l’ossigeno della fraternità.
Cari fratelli Vescovi, presbiteri e diaconi, secondo una prospettiva biblica vorrei guardare alle acque del Nilo che scorre come una spina dorsale nel mezzo del vostro paese. Da una parte, nel letto di questo corso d’acqua si riversano le lacrime di un popolo immerso nella sofferenza e nel dolore, martoriato dalla violenza; un popolo che può pregare come il salmista: «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo» (Sal 137,1).
Le acque del grande fiume, infatti, raccolgono i gemiti sofferenti delle vostre comunità ma allo stesso tempo le acque del grande fiume ci riportano alla storia di Mosè e, perciò, sono segno di liberazione e di salvezza: da quelle acque, infatti, Mosè è stato salvato e, conducendo i suoi in mezzo al Mar Rosso, è diventato strumento di liberazione, icona del soccorso di Dio che vede l’afflizione dei suoi figli, ascolta il loro grido e scende a liberarli (cfr Es 3,7). Guardando alla storia di Mosè, che ha guidato il Popolo di Dio attraverso il deserto, chiediamoci che cosa significa essere ministri di Dio in una storia attraversata dalla guerra, dall’odio, dalla violenza, dalla povertà. Come esercitare il ministero in questa terra, lungo le sponde di un fiume bagnato da tanto sangue innocente, mentre i volti delle persone a noi affidate sono solcati dalle lacrime del dolore?
Per provare a rispondere, vorrei soffermarmi su due atteggiamenti di Mosè: la docilità e l’intercessione. La prima cosa che colpisce della storia di Mosè è la sua docilità all’iniziativa di Dio.
Non dobbiamo pensare, però, che sia sempre stato così: un giorno aveva deciso di fare giustizia da solo, colpendo a morte un egiziano che maltrattava un ebreo. A seguito di questo episodio, però, era dovuto scappare e restare per lunghi anni nel deserto. Lì sperimentò una sorta di deserto interiore: aveva pensato di affrontare l’ingiustizia con le sue sole forze e adesso, come conseguenza, si ritrovava ad essere un fuggitivo, a doversi nascondere, a vivere nella solitudine, a sperimentare il senso amaro del fallimento. Mi domando: qual era stato l’errore di Mosè? Pensare di essere lui il centro, contando solo sulle sue forze.
A volte qualcosa di simile può capitare anche nella nostra vita di sacerdoti, diaconi, religiosi, seminaristi, consacrate, consacrati, tutti: sotto sotto pensiamo di essere noi il centro, di poterci affidare, se non in teoria almeno in pratica, quasi esclusivamente alla nostra bravura; o, come Chiesa, di trovare la risposta alle sofferenze e ai bisogni del popolo attraverso strumenti umani.
Invece, la nostra opera viene da Dio. Mosè apprende questo quando, un giorno, Dio gli viene incontro, apparendogli «in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto» (Es 3,2). Mosè si lascia attrarre, fa spazio allo stupore, si mette nell’atteggiamento della docilità.
Ecco la docilità che serve al nostro ministero: avvicinarci a Dio con stupore e umiltà. Sorelle e fratelli, non perdete lo stupore dell’incontro con Dio! Non perdete lo stupore del contatto con la Parola di Dio. Mosè si è lasciato attrarre e orientare da Dio. Il primato non è a noi, il primato è a Dio: affidarci alla sua Parola prima di servirci delle nostre parole, accogliere docilmente la sua iniziativa prima di puntare sui nostri progetti personali ed ecclesiali.
È questo lasciarci plasmare docilmente che ci fa vivere in modo rinnovato il ministero. Davanti al Buon Pastore, comprendiamo che non siamo capi tribù, ma Pastori compassionevoli e misericordiosi; non padroni del popolo, ma servi che si chinano a lavare i piedi dei fratelli e delle sorelle; non siamo un’organizzazione mondana che amministra beni terreni, ma siamo la comunità dei figli di Dio.
Purificato e illuminato dal fuoco divino, Mosè diventa strumento di salvezza per i suoi che soffrono; la docilità verso Dio lo rende capace di intercedere per i fratelli. Ecco il secondo atteggiamento di cui vorrei parlarvi oggi: l’intercessione. Mosè ha fatto esperienza di un Dio compassionevole, che non resta indifferente davanti al grido del suo popolo e scende a liberarlo. È bello questo: scendere.
Così fa Mosè, che “scende” in mezzo ai suoi: lo farà più volte durante la traversata nel deserto. Egli, infatti, nei momenti più importanti e difficili, sale e scende dal monte della presenza di Dio al fine di intercedere per il popolo, cioè di mettersi dentro alla sua storia per avvicinarlo a Dio. Fratelli e sorelle, intercedere «non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo. Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione».
Ai Pastori è richiesto di sviluppare proprio quest’arte di “camminare in mezzo”. Dev’essere la specialità dei pastori, camminare in messo: in mezzo alle sofferenze, in mezzo alle lacrime, in mezzo alla fame di Dio e alla sete di amore dei fratelli e delle sorelle. Il nostro primo dovere non è quello di essere una Chiesa perfettamente organizzata – questo lo può fare qualsiasi ditta –, ma una Chiesa che, in nome di Cristo, sta in mezzo alla vita sofferta del popolo e si sporca le mani per la gente. Mai dobbiamo esercitare il ministero inseguendo il prestigio religioso e sociale – quel brutto “fare carriera” –, ma camminando in mezzo e insieme, imparando ad ascoltare e a dialogare, collaborando tra noi ministri e con i laici. Ecco, vorrei ripetere questa parola importante: insieme. Non dimentichiamola: insieme; cerchiamo di vincere tra di noi la tentazione dell’individualismo, degli interessi di parte.
Presentiamo la sintesi di una attività giovanile promossa dall’équipe di Animazione Missionaria e Vocazionale della Colombia: il "Congresso giovanile Consolazione e Missione". 75 giovani si sono confrontati con il rapporto finale della Commissione per la Verità che in questi anni ha lavorato per ricucire le ferite di quasi 60 anni di guerra che ha insanguinato il paese.
Sono stati tre giorni intensi di attività guidate da dinamiche pedagogiche, esperienze di spiritualità missionaria e di consolazione-liberazione. I nostri giovani hanno approfondito la verità della Colombia ferita e mutilata, superando il muro del lamento e riconoscendo la verità di una guerra indagata in tutte le sue ferite. Come discepoli missionari del Crocifisso Risorto, si sono impegnati a offrire un cuore compassionevole e misericordioso perché la sofferenza, conseguenza della verità mai riconosciuta, sia liberata e trasformata in consolazione-liberazione.
Ricardo Semillas, inviato dal Grande Tutto, seminò il territorio colombiano, chiamato Macondo. Dopo aver compiuto la sua missione di diffondere i semi in modo armonioso, con generosità e varietà esuberanti, Ricardo Semillas ha consegnato questa terra a delle persone perché la curassero e la coltivassero. Tutti vivevano dei suoi prodotti abbondanti, li scambiavano fra di loro con la moneta chiamata "equità", in modo che a nessuno mancasse il necessario per un "buon vivere" e ce ne fosse anche per gli altri.
La cultura fiorì nella musica e nella danza, nella letteratura e nella scultura, nell'architettura e nell'ingegneria, nella scienza e nella tecnologia. La spiritualità si espanse, riempiendo le generazioni successive di valori etici, umani e divini. Le relazioni umane, pur senza molti abbracci, erano intrise di servizio, rispetto, disciplina e apprezzamento. L'orgoglio di essere di Macondo cresceva mentre la moneta locale, l’equità, si rafforzava. La vita ha cantato e ballato nelle giungle, nelle coste, nelle pianure, nelle valli e nelle montagne. Il morbido odore del caffè permeava l'atmosfera all'alba, mentre mais e grano, con platano e yuca, venivano mescolati nello stufato di carne o di pesce, accanto al focolare familiare.
Questa era la situazione quando alcuni attori violenti, che si spacciavano per saggi, arringarono il popolo e si offrirono come benefattori: posero recinti e confini; regolarono i rapporti con nuove norme; raccolsero la moneta equa e inondarono i mercati di banconote. Così che un bel giorno, mentre tutti dormivano e non si accorgevano di quel che stava succedendo, tutti quelli che volevano negoziare dovevano farlo con queste persone e Macondo perse la sua grazia e la sua armonia. Cristhian, il più giovane della popolazione, guardando ciò che non riusciva a capire disse: "temo che alla fine succederà qualcosa di brutto”.
Gli attori violenti seminarono questo territorio pieno di vita con paura, mine e morte. I deserti si moltiplicano quando i fiumi e i torrenti si inquinano o si prosciugano. Le montagne, ferite e sfruttate, si sgretolano inondando di fango fiumi e mari. Le piante della coca e la marijuana abbandonarono il campo sacro della salute ancestrale e Macondo, condannata a "100 anni di solitudine", restò vittima del traffico internazionale di narcotici. Poco a poco, i contadini persero la loro terra, i grandi latifondi si espansero e le città si riempiono di senzatetto.
Ricardo Semillas, che continuava ad accompagnare il processo della vita nella sua lotta contro la morte, mentre rifletteva a voce alta sulla distruzione che vedeva, disse: "hanno danneggiato Macondo; questo non è ciò che è stato dato dal Grande Tutto; gli attori violenti lo hanno imbavagliato e legato; il popolo se ne sta silenzioso, indignato, arrabbiato e impotente. Abbiamo sentito i gemiti della terra maltrattata e i lamenti dei morti, degli scomparsi e degli sfollati”.
In mezzo al territorio devastato e al corpo sociale sconsolato, improvvisamente una luce brilla in Oriente: "per la tenera misericordia del nostro Dio, il sole nascente viene a visitarci", lo stesso sole, che è stretto fra le braccia della Consolata, divenuto Parola dice: "Macondo non è morto, ma sta dormendo”. Prendendolo per mano, lo solleva e grida: "Non tutto è perduto, oggi vengo a offrirti il mio cuore. Le persone che hanno sperimentato le più grandi sofferenze, conoscono ciò che significa sentirsi desolati, scoraggiati e abbandonati e per questo sono pronte anche loro a offrire il cuore e tutto il loro essere per confortare e aiutare a liberare gli afflitti che la storia di Macondo ha generato”.
Il silenzio è stato rotto e l'atmosfera, intorno alla "tulpa", il focolare ancestrale composto da tre pietre come la Trinità, si è riempita della parola di rigenerazione depositata nella pentola comunitaria. Nel fuoco ancestrale si prepara l’alimento che restituisce salute e genera liberazione integrale. Tutti siamo consapevoli che quando il dolore è condiviso e compreso cessa di essere sofferto.
La verità, quando è nascosta, diventa sofferenza; invece quando viene svelata, anche se fa male, libera. Se questa viene accettata con coraggio e umiltà da tutti, promuove la giustizia, permette il perdono e la riconciliazione, libera le vittime che vengono risarcite e i colpevoli che si pentono e non ripetono i loro delitti. Con la verità tutti possono partecipare alla costruzione sociale e politica della pace, con giustizia sociale e ambientale.
La verità è impegnativa, rilascia adrenalina, una forza interiore che trasforma e da vita ad azioni, programmi, progetti di misericordia, politiche di pace sociale e ambientale. Dobbiamo dare voce e tempo alla verità, per ridurre le disuguaglianze, la corruzione e superare l'inimicizia sociale. Solo così lasceremo questa triste identità di "figli della guerra" per vivere in "amicizia sociale"; abbandoneremo questa "valle di lacrime" per trasferirci sulla collina del "buon vivere", in questa amata "madre terra", paradiso terrestre.
La verità è un dono per chi è aperto alla vita. Come dice il galileo Gesù di Nazareth: "Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi". Egli, presentato dall'evangelista Giovanni come "la via, la verità e la vita", si propone come nostro manuale di vita di fronte alle ideologie e alle correnti mondane che, quasi sempre, ci allontanano dal senso e le mete della vita.
Con la verità e con Gesù, vogliamo ricreare la nostra realtà e quell'altro “mondo possibile” in cui siamo impegnati e che serviamo. Lo facciamo riconoscendo e valorizzando tutti senza fobie o discriminazioni, ascoltando e dialogando, camminando insieme, in compagnia, andando oltre le nostre diverse frontiere.
Chiediamo al Dio della vita la luce e la forza del suo Spirito per trasformare i nostri sogni e le nostre parole in vita e azione; offriamo i nostri cuori di giovani studenti, universitari, professionisti e industriali, per stare al fianco degli afflitti e degli stanchi. Coerenti con il discorso dell'ecologia e della cura della "casa comune" accompagniamo e consoliamo chi è nel bisogno.
* Équipe di animazione giovanile e vocazionale dei missionari della Consolata nella regione della Colombia.
Mons. Luis Augusto Castro Quiroga, colombiano, missionario della Consolata, arcivescovo emerito della città di Tunja, è morto in una clinica di Chía, vicino a Bogotá, dove era ricoverato da venerdì scorso. Una figura nota in tutta la Colombia per il suo impegno sociale e la sua ferma leadership a favore della pace nel Paese. Con la sua narrazione ha fatto della missione, intesa in molti modi, un modo gentile e coinvolgente di essere in contatto con il mondo intero. Aveva 80 anni. "Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5,9).
Mons. Luis Augusto è stato prima di tutto un uomo con una profonda sensibilità umana che ha amato l'umanità e la Chiesa, lavorando sempre per adempiere al comando del Signore: "Andate in tutto il mondo e proclamate la Buona Novella a tutta la creazione" (Mc 16,15). Importanti e significativi sono stati i suoi contributi nel campo della missionologia, che come educatore ha saputo far conoscere con una serie di pubblicazioni e scritti, piacevoli e di facile lettura, che sono costantemente usciti dalla sua penna e nei quali traspariva il suo buon umore e la sua sagacia. Ricordando la sua nomina a vescovo ha scritto: "È un fatto assodato che se si chiede a un santo se vuole essere un vescovo, dice subito di no. Quando mi è stato chiesto se volevo diventare vescovo, ho risposto subito di sì".
Oltre a essere un prolifico narratore e autore di numerosi libri, ha promosso la musica, l'arte e i media: a Tunja ha fondato un giornale e un canale televisivo. Si è occupato molto dell'educazione dei leader laici, dei seminaristi e del clero e con il suo carisma ha promosso la fondazione di più di un centro di istruzione superiore.
Eppure, nelle chiese in cui ha prestato servizio, ma anche al di fuori di esse e in gran parte della società civile colombiana, Mons. Castro sarà ricordato come un artigiano della pace determinato, perseverante, insistente e caparbio. L'ha seminata, difesa, sostenuta aprendo continuamente spazi di dialogo e negoziazione.
Come vescovo di San Vicente del Caguán e Puerto Leguizamo, un territorio dove il conflitto e la violenza erano pane quotidiano, nel 1997 ha svolto un ruolo chiave nell'assicurare il rilascio di 60 soldati rapiti dai guerriglieri delle FARC.
Dal 2005 al 2016 è stato presidente della Commissione Nazionale di Riconciliazione e in questo periodo è stato per due volte presidente della Conferenza Episcopale: ha promosso tutte le occasioni di dialogo, ha mediato nella liberazione di vari ostaggi, ha presenziato ai colloqui dell'Avana tra il governo e le FARC senza smettere di incoraggiare e guidare le parti in dialogo, e si è fatto garante del rispetto degli impegni presi. Ha potuto vedere questa pace sbocciare e portare i primi frutti. Gran parte della sua eredità sarà ciò che la Colombia farà con questo immenso dono, frutto di una costruzione collettiva e comunitaria, in cui ha svolto un ruolo importante.
In un'intervista concessa a Telesantiago, in occasione del suo addio alla diocesi di Tunja, egli stesso, e come sempre a modo suo, ha fatto questa sintesi della sua vita e del suo ministero sacerdotale ed episcopale: "Oggi c'è un numero che mi gira in testa ed è l'85. Ottantacinque sono stati i sacerdoti ordinati a Tunja formati nel nostro seminario diocesano e altrettanti sono stati gli ostaggi che sono riuscito a liberare dalle mani dei guerriglieri, non a Tunja ma a San Vicente del Caguán. Due numeretti uguali che indicano due compiti molto diversi ma positivi. A questo punto della mia vita mi piace ricordarli entrambi".
Intervista di Paolo Moiola a porposito del conflitto in Colombia (2017)
Luis Augusto Castro è nato a Bogotá, la capitale della Colombia, l'8 aprile del 1942. Ha studiato presso il Collegio San Bernardo dei Fratelli Lasalliani e poi presso il seminario minore dei Missionari della Consolata.
Nella sua formazione come Missionario della Consolata ha studiato filosofia presso la Pontificia Università Javeriana di Bogotá; fatto il noviziato a Bedizzole e gli studi di teologia presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma. Ha emesso i voti perpetui il 10 marzo 1967 ed è stato ordinato sacerdote a Roma il 24 dicembre dello stesso anno.
Già come sacerdote missionario si è specializzato in counselling all'Università di Pittsburgh e ha ottenuto il dottorato in teologia nella università Javeriana di Bogotá.
Come sacerdote ha ricoperto vari incarichi: viceparroco nella Cattedrale di Florencia (Caquetá, Colombia) e rettore dell'Università dell'Amazzonia nella stessa città (1973-1975); direttore del seminario maggiore di filosofia dei Missionari della Consolata a Bogotá e, allo stesso tempo, consigliere provinciale (1975-1978); superiore regionale della IMC in Colombia (1978-1981).
Dal 1981 al 1986 ha fatto parte del Consiglio Generale dei Missionari della Consolata a Roma.
Il 17 ottobre 1986, Papa Giovanni Paolo II lo ha nominato ordinario del Vicariato Apostolico di San Vicente-Puerto Leguízamo. La sua consacrazione episcopale ha avuto luogo nella Cattedrale Metropolitana di Bogotá il 29 novembre dello stesso anno ed è stata presieduta dai vescovi Angelo Acerbi, Nunzio Apostolico in Colombia; Mario Revollo Bravo, Arcivescovo di Bogotá; José Luis Serna Alzate, vescovo di Florencia e anch'egli Missionario della Consolata.
Mons. castro è stato alla guida del vicariato di san Vicente per dodici anni poi, il 2 febbraio 1998, è stato nominato alla sede metropolitana di Tunja dove è rimasto fino alle sue dimissioni per raggiunti limiti di età che sono state accolte da papa Francesco l’11 febbraio del 2020.
In questi anni è stato vicepresidente della Conferenza episcopale colombiana dal luglio 2002 al luglio 2005 e poi presidente fino al luglio 2008. In questa veste nel 2007 ha partecipato alla Quinta Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano celebrato in Aparecida (Brasile). Ha avuto un secondo mandato come presidente della conferenza Episcopale nel triennio 2014-2017
* Con informazioni provenienti da vari media.
Mons. Luis Augusto Castro durante la celebrazione della festa di Nostra Signora Consolata, il 20 giugno 2022, nella parrocchia del quartiere Vergel, a Bogotà. Foto: Archivio IMC Colombia