«Monsignore ma non troppo» (1)
È diventato vescovo della nuova diocesi di Maralal, nel Nord del Kenya, nel 2001. Ha lasciato il suo posto di servizio per raggiunti limiti di età nel 2022. Considerazioni, esperienze, gioie e dolori, condivisi in libertà.
Il mio primo contatto con il futuro monsignore, avviene a Torino, nel 1970. Ricordo che, entrando nel cortile della Casa Madre e dell’annesso seminario teologico, noto una vecchia moto con sidecar (del 1937, di fabbricazione inglese) parcheggiata in un angolo, una di quelle che si vedono nei classici film di guerra. Mi dicono che la usano alcuni degli studenti dell’ultimo anno di teologia per andare a scuola a oltre due chilometri di distanza nei locali del seminario del Cottolengo. Chi la guida è un certo chierico Virgilio Pante, matto per le moto. Una simpatica «pazzia» che non lo abbandonerà mai.
Quando dopo la Pasqua del 1989, arrivo nel Nord del Kenya, destinato alla cittadina di Maralal, la missione è ormai ben piantata. La prima cappellina è stata rimpiazzata da una chiesa spaziosa, c’è l’asilo, il dispensario, la casa delle suore, la scuola primaria con il boarding per quasi duecento bambine, il centro catechistico, il seminario della diocesi di Marsabit, il centro pastorale, il cimitero: un mondo nel quale si muovono oltre seicento persone, una vera e propria cittadella.
Mi guardo intorno incuriosito, faccio domande, cerco di capire. Ho già sentito tante storie sulla missione e i suoi missionari. Tra questi uno di cui si parla con ammirata simpatia è padre Virgilio Pante, che nel 1979 ha fondato il primo seminario della diocesi. Quando arrivo, lui è già stato trasferito tra i Luo, nella nuova missione di Chiga, vicino al Lago Vittoria, ma il suo ricordo persiste perché è impossibile dimenticare quel grande cacciatore che, grazie al suo fucile, aveva assicurato il cibo ai suoi primi seminaristi. E non solo. Quando qualche leone o altro animale diventava pericoloso per gli uomini, attaccando i pastori o avvicinandosi troppo ai villaggi o alle manyatte dei Samburu, gli stessi guardiacaccia lo chiamavano perché andasse con loro nella foresta ad aiutarli a risolvere il problema.
La sua era un’abilità innata, ereditata dai suoi nonni, come lui stesso mi ha confermato sorridendo, solo poco tempo fa. «Da noi, fin da piccoli si andava a caccia. I miei nonni, lassù sulle montagne del bellunese, sono sempre stati bracconieri per necessità. Mio papà ricorda che durante la guerra mangiavano “polenta e osei” e topi, perché c’era tanta fame». Dopo soli tre anni a Maralal, abbastanza per innamorarsi per sempre di quella terra, vengo mandato a Nairobi a lavorare nella rivista The Seed (Il seme) e lì, finalmente, comincio a vivere con padre Virgilio, perché nel 1996 viene nominato vice superiore regionale con residenza nella capitale keniana, nella mia stessa comunità.
Arriva il 2001, l’anno del centenario della fondazione dell’Istituto. È il 30 giugno, stiamo finendo il pranzo. Il superiore regionale, padre Francesco Viotto, si alza e dice: «Scusate se vi interrompo, ma ho una notizia importante da darvi. Il Santo Padre oggi ha costituito la nuova diocesi di Maralal, dividendola da Marsabit. Ha anche scelto il nuovo vescovo, il quale è un missionario della Consolata ed è qui presente tra noi». Ci guardiamo gli uni gli altri incuriositi e il superiore prosegue: «È padre Virgilio Pante». Siamo tutti contenti, ci scappa qualche battuta, siamo sorpresi sì, ma non troppo visti gli anni che il nostro confratello aveva speso con passione nel Nord del Kenya. Stappiamo una bottiglia e scatto un po’ di foto.
Così il 6 ottobre dello stesso anno mi trovo nel grande campo sportivo dell’oratorio della missione di Maralal, diventata sede della diocesi omonima. È il giorno della consacrazione del nuovo vescovo. La gioia è effervescente. Sono arrivati in tanti da tutte le missioni. Il grande prato dell’oratorio è strapieno e coloratissimo. Ci sono tutti: Samburu, Turkana e Pokot, i popoli pastori indigeni, e Kikuyu, Meru, Akamba, Luo e quanti altri vivono nella città o lavorano per il governo. Scatto foto a gogò, mentre con il cuore pieno di gioia accompagno il tutto con un’intensa preghiera. L’avventura che aspetta il nuovo vescovo, infatti è tutt’altro che facile.
La nuova diocesi nata dalla divisione di quella di Marsabit (creata nel 1964), è una realtà con tante bellezze ma anche un sacco di problemi. Estesa 21mila km2 e con circa 144mila abitanti (contro i 70 mila km2 e i 200mila abitanti di Marsabit, dati del 1999), la diocesi coincide con il distretto (oggi contea) Samburu ed è caratterizzata da montagne stupende e pianure aride e semidesertiche, da valli profonde e caldissime e rari fiumi, da mancanza di strade e infrastrutture e da poche terre adatte all’agricoltura, con villaggi sparsi a grandi distanze e gruppi etnici molto diversi tra loro che si contendono l’acqua e i pascoli.
In più, alcune delle terre più rigogliose e ricche di animali sono diventate parchi nazionali o riserve turistiche, e altre sono state date in uso esclusivo ad agricoltori industriali che fanno coltivazioni intensive (disboscando impattano sull’habitat e lasciano poi terreni aridi). Ci sono dodici missioni o parrocchie, attorno alle quali c’è una fitta rete di oltre cento piccole cappelle nei vari villaggi, le quali, durante la settimana, diventano asili per i bambini. In ogni missione ci sono scuole primarie e centri di salute e tante altre attività per aiutare la gente. A Maralal, nella periferia Sud Est della cittadina, c’è il centro di formazione dei catechisti, che sono la spina dorsale della vita di ogni comunità, il seminario (fondato a suo tempo dal nuovo vescovo), una scuola tecnica per ragazzi e una per ragazze. A Wamba, invece, la diocesi ha un fiorente ospedale, una scuola per infermieri, una casa per bimbi disabili e una scuola secondaria per ragazze.
Il lavoro certo non manca e le forze presenti, missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti fidei donum di Torino, missionari Yarumal e diverse comunità di suore, tra cui quelle di Madre Teresa, sono ben impegnate sul territorio. Ma le sfide sono tante.
Monsignor Virgilio è da sempre innamorato di quelle terre dove si può ancora vivere la missione vera, dove la Chiesa può davvero realizzare i sogni del Concilio Vaticano II. Il suo primo viaggio in quelle zone è stato nel 1972, una scappata in moto fino a Loyangallani sulle rive del Lago Turkana che gli ha meritato il «castigo» più bello della sua vita: essere mandato proprio in quella che allora era la diocesi di Marsabit, fondata nel 1964, con monsignor Carlo Cavallera (Imc) che ne era stato il primo vescovo.
Appena saputo della sua nomina, padre Virgilio riprende la sua amata moto e va a visitare a tappeto la sua futura «sposa», per farsi conoscere e soprattutto per prendere coscienza della realtà che lo aspetta.
Nel suo peregrinare arriva a Kawop, un villaggio di Tuum, ai piedi del Monte Nyro, giù nella Suguta Valley ai confini con la contea Turkana. E lì gli si spezza il cuore: vede morte e distruzione ovunque, il villaggio è stato depredato, la chiesetta distrutta, la gente fuggita. È la scintilla che accende in lui una decisione: sarà il vescovo della pace, cosciente che il titolo che porterà, «vescovo», nel suo significato etimologico vuol dire «colui che vigila», come un guardiano, una sentinella. Lui sarà il «guardiano della pace».
Tornato a Nairobi, viene da me. Sa che ho già fatto degli stemmi per altri vescovi. E allora insieme creiamo il suo stemma episcopale dal motto «With the ministry of reconciliation», con il servizio della riconciliazione, sotto l’immagine di un leone che giace con l’agnello (vedi Isaia 11,6-9 e 65,25). Sullo sfondo il monte Kenya, il tutto sotto l’influenza dello Spirito Santo, colomba della pace.
Una leonessa adotta una gazzellina di orice. gennaio 2002.
Davvero nella nuova diocesi la sfida più grande è la pace. Da sempre le varie tribù (scusate, ma allora si diceva così, oggi ci preferisce dire gruppi etnici o popoli indigeni, nda) sono in lotta tra loro per il controllo delle magre risorse (acqua e pascoli), per garantirsi la sopravvivenza. Tre i gruppi principali in competizione, tutti pastori: i Samburu (probabilmente una sezione dei Masai stabilitisi in queste zone montuose); poi i Turkana, di origine nilotica e non circoncisi, molto presenti e attivi nell’Ovest della contea; e i Pokot, nilotici anche loro, stanziati a Sud Ovest.
Quello che padre Virgilio capisce subito, però, è che gli scontri tra le tribù non avvengono più nel modo tradizionale, con lance, razzie e scaramucce che coinvolgevano piccole realtà locali. Oggi i conflitti sono aggravati dalla diffusione capillare delle armi da fuoco che arrivano molto facilmente dalla Somalia; dalle manipolazioni messe in opera da politicanti senza scrupoli, soprattutto in tempi di elezioni; da interessi economici legati al traffico di bestiame; dalle appropriazioni di terre da parte di chi le sfrutta per l’agricoltura intensiva o per la creazione di aree riservate a resort turistici.
Quando padre Virgilio diventa vescovo di quelle terre, però succede un avvenimento eccezionale che diventa quasi un segno divino a conferma del suo impegno e della sua missione davanti a tutta la comunità.
Poco tempo dopo la sua consacrazione episcopale, infatti, nel Parco Samburu, situato nella zona Est della diocesi, una leonessa adotta un cucciolo di orice, un’antilope, permette alla mamma vera di allattarla, la cura e la difende dagli altri predatori (questo purtroppo dura solo due settimane, perché poi un leone si mangia il cucciolo, nda). La notizia è sulla bocca di tutti. La meraviglia è grande. L’avvenimento è considerato un segno del cielo che conferma il motto e lo stemma del nuovo vescovo.
Visita alla chiesa di Kawap distrutta per lotte tribali. Chiesa costruita da padre Cornelio Dalzocchio
L’impegno per la pace è capillare, intenso e mai finito. Tre le aree di intervento: l’educazione, il commercio e la religione.
Il vescovo Pante, che dall’ottobre 2022 è ormai emerito per raggiunti limiti di età, si spiega. «I bambini non sono tribalisti. Per questo è importante offrire loro occasioni di convivenza e formazione insieme. Da qui la costruzione dei dormitori e delle scuole per la pace, dove bambini Samburu, Turkana e Pokot possono vivere, giocare e studiare insieme, diventando amici e superando gli stereotipi e i pregiudizi».
Poi i mercati. «Può sembrare una stranezza, ma come dice un proverbio swahili biashara haigombani, “il mercato non crea nemici”, anzi diventa luogo di incontro e scambio dove ciascuno può contribuire con il meglio che ha e trovare quello di cui ha bisogno. Con il mercato la gente si incontra, fa affari, si conosce, crea relazioni alla pari, scoprendo che è bello aver bisogno gli uni degli altri».
E la religione. «Riunire i diversi gruppi a pregare insieme aiuta, fa crescere, aumenta la conoscenza reciproca, fa vincere i pregiudizi.
Ricordo una volta che abbiamo invitato i tre gruppi a un incontro di preghiera vicino a Barsaloi. I Samburu e i Turkana, che venivano a piedi da villaggi relativamente vicini, erano già presenti. Poi da lontano è arrivato un camion carico di Pokot. Prima sono scesi i giovanotti nelle loro tenute da guerrieri e poi donne e bambini. È stato un momento di panico. C’è voluto tutto il mio sangue freddo e il mio prestigio per evitare un fuggi fuggi. Poi hanno iniziato a pregare insieme e a cantare, e il canto è diventato danza. Bellissimo. Allora sì, è stata davvero una bella festa, senza più paure e tutti uniti come figli dello stesso Padre».
Villaggio abbandonato per guerre tribali
«I risultati del lavoro fatto dalla diocesi sono tanti e belli, anche se non si è mai finito, perché c’è sempre qualcuno che ha interesse a fomentare le divisioni per il proprio vantaggio, sia per il traffico di armi che per quello del bestiame rubato, che spesso e volentieri finisce poi venduto a Nairobi o addirittura spedito a Mombasa per il mercato dei paesi arabi».
Il vescovo ricorda quando un giorno è stato chiamato a Nairobi per una riunione di una commissione governativa impegnata a capire come implementare la pace nel territorio. Dopo averli ascoltati, ha detto loro parole chiare. «Voi mandate l’esercito per farvi consegnare le armi, spaventate la gente con atteggiamenti minacciosi, e vi ritenete soddisfatti quando riuscite a farvi consegnare un centinaio di fucili, dimenticando che ne rimangono almeno altri 20mila in giro. E che poi, chi ve li consegna, ne acquista degli altri più moderni. Signori non serve disarmare le mani, occorre disarmare la testa e il cuore. Per questo dovete costruire strade, potenziare le scuole, offrire servizi sanitari, migliorare il livello della vita della gente. Questa è la via della pace, quella che costruisce davvero una nuova società».
L’impegno di monsignor Pante in questi 21 anni di episcopato, dal 2001 al 2022, non è stato solo per la pace. Una delle sue priorità è stata quella di far crescere la Chiesa locale nella sua completezza.
All’inizio del suo mandato, la maggioranza delle parrocchie era nelle mani dei missionari, di cui tanti ancora europei. Oggi sono quasi tutte gestite dai sacerdoti locali. I Missionari della Consolata hanno ancora tre missioni, ma solo una guidata da un europeo, padre Aldo Giuliani, un trentino sempre arzillo e appassionato nonostante gli anni. I sacerdoti locali sono ora 26, anzi 25 perché purtroppo uno è morto all’inizio di maggio per malattia. Di questi, monsignore ne ha ordinati ben 21. Un bel risultato, anche se il cammino per avere una Chiesa davvero inculturata, partecipativa (o sinodale, come si ama dire oggi) e corresponsabile, che non dipenda troppo dagli aiuti esterni e con la mentalità di «la Chiesa siamo noi», è ancora tutto aperto.
Il cammino è impervio, anche perché ci sono delle situazioni oggettive da affrontare. Una di queste è la povertà aggravata anche dal cambiamento climatico. Negli ultimi tre anni c’è stata una grande siccità, che ha causato la morte di persone e di quasi l’80% delle vacche. Finita la siccità, quest’anno sono arrivate le piogge torrenziali che stanno creando disastri e causando oltre 200 morti soprattutto a Nairobi e sulla costa. Ma anche nel Samburu hanno distrutto ponti, allagato villaggi, travolto viaggiatori. La rete stradale, già malridotta, non ci ha certo guadagnato e i poveri si sono ulteriormente impoveriti.
Benedizione del Dormitorio della Pace per le ragazze. 19/5/2012
Ci sono poi altre due aree di impegno della Chiesa che le hanno permesso di entrare in un territorio che un tempo, fino ai primi anni Cinquanta, era totalmente off limits per i missionari e trascurato dal governo (coloniale e non): la scuola e la sanità.
Arrivando in un villaggio, i missionari per prima cosa hanno costruito una capanna polivalente: asilo o scuola per i bambini durante la settimana, cappella la domenica attorno al catechista, e periodicamente centro di salute e spesso anche scuola di maendeleo (che include sviluppo, cucito, igiene) per le donne.
Con il tempo hanno costruito vere e proprie scuole con relativi dormitori per i ragazzi che non potevano tornare ogni sera alle loro capanne spesso distanti decine di chilometri.
I centri di salute sono diventati capillari, mentre a Wamba fioriva la «Rosa del deserto», il favoloso ospedale con annessa scuola per infermieri e casa per bimbi disabili, che tanto bene ha fatto al territorio.
Le due aree di impegno rimangono importanti tutt’oggi, perché la scuola, conferma il vescovo, è essenziale per la formazione delle persone e per renderle protagoniste della loro storia di lotta alla povertà e a certe tradizioni, come la mutilazione genitale femminile (Fgm, female genital mutilation), che non aiutano a costruire un mondo libero e pacifico.
Una delle soddisfazioni più grandi di monsignor Pante è vedere i ragazzi e ragazze che hanno studiato nelle scuole della missione diventare insegnanti, infermieri, medici, operai, tecnici, anche politici e pure missionari, come l’attuale superiore generale dei Missionari della Consolata, un samburu nato sull’auto mentre la mamma veniva portata all’ospedale di Wamba.
Uno dei risultati più belli è stato raggiunto con le donne. Quante ragazze, uscite dalla scuola secondaria di Santa Teresa a Wamba, sono diventate insegnanti, infermiere, suore, catechiste, attiviste contro la Fgm e anche donne impegnate nella politica, chief locali e attiviste per la pace. (1 – continua)
* Padre Gigi Anataloni, IMC, rivista Missioni Consolata. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it
Mercato Pokot e Samburu, luogo di incontro, dialogo e collaborazione
Le proteste dei giovani continuano
Da dieci giorni, il Kenya è attraversato da incessanti proteste contro l’aumento delle tasse previsto dalla nuova legge finanziaria e, dopo il ritiro del provvedimento, contro il presidente William Ruto. A protestare sono soprattutto i giovani, tra i quali la disoccupazione è estremamente diffusa (67% nella fascia 15-34 anni).
L’intensità delle manifestazioni è cresciuta il 25 giugno. Dopo l’approvazione della legge in Parlamento, i manifestanti hanno forzato il cordone della polizia e attaccato la struttura. Mentre i parlamentari venivano evacuati, un’ala dell’edificio andava in fiamme. Così come sono stati incendiati gli uffici del governatore di Nairobi e la sede del partito di Ruto.
La reazione della polizia – affiancata poi dall’esercito – è stata violenta. Secondo la Kenya national commission on human rights (organizzazione autonoma per il monitoraggio dei diritti umani) almeno 23 persone sono state uccise. Amnensty international invece ha segnalato più di cinquanta arresti e decine di persone «rapite o scomparse per mano di agenti in uniforme e non». Soprattutto giovani attivisti e influencer che sui social media si erano schierati a favore dei manifestanti.
I social – soprattutto X e TikTok – sono stati il principale mezzo di mobilitazione. Tanto che, con l’intensificarsi delle manifestazioni, l’accesso alla rete è diventato sempre più difficile, nonostante pochi giorni prima le autorità avessero detto che non avrebbero limitato la libertà di navigazione sul web in caso di proteste.
Mentre il Paese era sempre più in subbuglio, Ruto ha annunciato l’intenzione di non firmare la legge e rinviarla al Parlamento. «Le persone hanno parlato», ha detto il presidente in conferenza stampa la sera del 26 giugno, dopo ventiquattr’ore di proteste incessanti. Un dietrofront inaspettato, soprattutto dopo che il capo dello Stato aveva definito i manifestanti dei «sovversivi che tentano di minare sicurezza e stabilità del Paese».
Ma a rischio era l’immagine del presidente come leader democratico in Africa orientale e alleato dell’Occidente (soprattutto degli Stati Uniti che recentemente hanno attribuito al Kenya il titolo di “major non-Nato ally”). Oltre al timore di attirare nuovamente l’attenzione internazionale sulle violenze della polizia keniana, proprio mentre i suoi primi contingenti sbarcavano ad Haiti nell’ambito di una missione internazionale per ristabilire l’ordine nel Paese.
La controversa disposizione prevedeva l’incremento di diverse tasse già esistenti e l’introduzione di nuove. Alcune in particolare – particolarmente gravose – hanno acceso la rabbia della popolazione.
Come quelle sul settore digitale, sempre più cruciale per la vita quotidiana. Il governo infatti aveva previsto una nuova imposta sulla creazione di contenuti digitali monetizzati e aumentato del 5% la tassa sui pagamenti digitali. Soprattutto quest’ultima era stata particolarmente criticata dato che buona parte dell’economia del Paese si basa su trasferimenti digitali di denaro.
Ma ciò che più aveva scatenato il malcontento popolare era stata l’introduzione di tasse sul pane (pari al 16% del suo valore) e sull’olio vegetale da cucina (25%). Entrambe erano poi state eliminate dal testo definitivo della legge, ma ormai le proteste si erano accese, arrivando a chiedere il ritiro totale del provvedimento.
Nel chiedere il ritiro della legge, i manifestanti hanno denunciato il tentativo del governo di compensare la cancellazione di alcune tasse con l’aumento di altre (come il rialzo del 50% dell’imposta sul carburante). Disposizioni particolarmente gravose in un Paese con un’inflazione annua del 5,1%.
La piazza inoltre ha accusato Ruto di corruzione: a fronte delle crescenti tasse ha denunciato il mancato miglioramento dei servizi pubblici e l’aumento del benessere della cerchia presidenziale. Il presidente ha invece risposto che le imposte erano necessarie per pagare il debito pubblico del Paese (82 miliardi di dollari), dovuto soprattutto alla Cina per la costruzione di diverse infrastrutture (come la linea ferroviaria tra Nairobi e il porto di Mombasa).
A rifiutare la legge è stata anche la coalizione di opposizione One Kenya. Nel ritirare i 13 emendamenti proposti, il suo leader in Parlamento, Opiyo Wandayi, ha detto che «emendare una “cattiva” legge era futile» e ne ha chiesto la cancellazione. Mentre la Conferenza episcopale ha invocato il dialogo e criticato la disposizione in quanto insostenibile per molti cittadini keniani.
In effetti, la legge è tornata in Parlamento. Ma, nel frattempo, le proteste non si sono fermate. Anzi, ora l’obiettivo dei manifestanti sono le dimissioni del presidente. I giovani keniani – che alle scorse elezioni non hanno in buona parte votato – ora sono scesi in strada e sembrano volersi riappropriare del loro Paese. E del loro futuro.
* Aurora Guainazzi. Pubblicato originalmente in: www.rivistamissioniconsolata.it
In un mondo segnato dall'individualità, la tavola si pone come luogo d'incontro dove si creano legami di appartenenza e di gratitudine.
Basta osservare i bambini intorno a un tavolo, che condividono e spezzano il pane, per comprendere il profondo insegnamento di Gesù: una pagnotta intera non ha lo stesso significato di una pagnotta spezzata. Il pane, per essere pane, deve essere condiviso, distribuito e gustato in comunità. Questo atto, più che una semplice azione, diventa un comportamento di vita cristiana: vivere con cuore aperto, generosità e in comunione con gli altri.
Sedendo a tavola con gli altri, riaffermiamo la nostra appartenenza a qualcosa di più grande di noi, la famiglia, la città, il Paese, il pianeta terra. La tavola diventa un luogo di incontro dove si creano legami di appartenenza e di comunità. In un mondo sempre più segnato dall'individualità e dall'isolamento, la tavola ci offre, ancora una volta, la salvezza.
Ogni volta che ci sediamo a tavola, siamo invitati a partecipare a un esercizio di gratitudine e generosità. Condividere il cibo è un modo per riconoscere e ringraziare per i doni ricevuti. Ci insegna a dare valore a ciò che abbiamo e ad essere disposti a condividerlo con gli altri. Questo atto di condivisione va oltre il semplice scambio, è un gesto di ospitalità e di pura generosità. La tavola ci ricorda che il cibo è un dono della “Madre Terra” e che dobbiamo riceverlo non come un diritto, ma come un dono che merita di essere condiviso con tutti gli altri esseri umani.
Sacramento, segno e strumento di comunione
Non basta mangiare, è essenziale imparare a gustare. Non abbiamo solo denti per masticare, ma anche papille gustative per assaporare i sapori e apprezzare la bontà degli alimenti. Assaggiare con attenzione ci permette di renderci conto della qualità del cibo e ci mette in contatto con la “bontà della vita” e in comunione con il presente e il passato. È un invito a vivere con maggiore consapevolezza, gratitudine e saggezza.
L'antico sogno di Gesù era che tutti i popoli e le culture si riunissero intorno a un tavolo per spezzare il pane. Oggi questo sogno sta diventando realtà in molte case e ambienti di lavoro, dove la multiculturalità arricchisce le nostre tavole e ci apre a nuove esperienze di sapori e sensi. La tavola diventa un luogo di incontro e di apprendimento, dove possiamo apprezzare le differenze e trovare un terreno comune. Gesù ci ha insegnato ad amare il prossimo, indipendentemente dalle sue origini o dal suo credo. Condividendo la nostra tavola con persone di culture diverse, abbracciamo la comunione universale.
Quando il pavimento diventa una tavola di consolazione
Festeggiare, nel suo senso più completo, significa riconoscere e ringraziare per i doni che abbiamo ricevuto e condividerli con gli altri. Ci ricorda che le nostre vite sono interconnesse e che la vera felicità si trova nella comunione e nella generosità. Gesù ci invita a vivere ogni giorno come una celebrazione della vita e dei doni che abbiamo ricevuto, condividendoli con chi ci circonda. La tavola ci apre alla celebrazione comunitaria e all'Eucaristia che illumina la nostra vita quotidiana. La celebrazione del sacramento ci iscrive in un'esistenza segnata dalla benedizione e dalla tenerezza di Dio, portandoci a scegliere un altro mondo possibile e a riaffermarlo alle nostre tavole quotidiane.
Spezzando e condividendo il pane, viviamo il messaggio di Gesù e troviamo il vero senso della nostra vita. La tavola diventa così un simbolo potente che ci invita alla comunità, alla gratitudine, alla generosità, all'apprendimento e alla festa. Che la nostra vita sia come la tavola di Gesù: un luogo di incontro, uno spazio per contribuire, un luogo per ritirarsi e ricevere, dove celebriamo e accogliamo la proposta di Gesù di riconoscere un padre e gli altri come miei fratelli e sorelle.
* Francisco Martínez è un laico missionario colombiano della Consolata in Kenya - Africa.
“Dio che mi ha chiamato mi darà le grazie necessarie per svolgere la sua missione”
Il missionario della Consolata, Mons. Peter Makau, nominato dal Papa Francesco vescovo coadiutore della diocesi di Isiolo nel Kenya il 4 maggio 2024, condivide i suoi sentimenti pochi giorni dopo aver ricevuto la notizia del suo nuovo ministero pastorale.
L'ex superiore della Regione Kenya/Uganda, racconta che questa è stata la notizia più sorprendente che abbia mai ricevuto. “Quando ti dicono che è il Santo Padre a chiederti (un servizio) diventa difficile rifiutare. Si tratta di obbedire e basta", afferma Mos. Makau, che ha vissuto la missione in Venezuela per 14 anni, la chiamata a lavorare a Isiolo è perfettamente in linea con il carisma ad gentes dell’Istituto dei Missionari della Consolata.
L'ordinazione episcopale di Mons. Peter Makau avrà luogo il 27 luglio 2024 nella cattedrale di Sant'Eusebio nella Diocesi di Isiolo.
Guardando al futuro, esprime sentimenti di fiducia e di fede. È confidente che "se Dio mi ha chiamato, mi darà le grazie necessarie per svolgere la Sua missione". Con la sua nomina alla età di 49 anni, Mons. Makau diventa il secondo vescovo più giovane della Conferenza episcopale del Kenya.
Vedi qui il video realizzato da padre Daniel Onyango Mkado e Fr. Adolphe Mulengezi
Elevata a Diocesi il 15 febbraio 2023, Isiolo ha come vescovo Mons. Anthony Ireri Mukobo, IMC. La Diocesi è situata nella parte centrale del Kenya e i suoi confini corrispondono a quelli dell’omonima contea civile. Ha una superficie di 25.700 kmq e una popolazione di 268.000 di abitanti, di cui 66.000 sono cattolici. Ci sono 13 parrocchie, 74 Istituzioni educative ed 11 di carità, tra cui 5 dispensari ed 1 ospedale materno. Vi lavorano 19 sacerdoti diocesani, 2 sacerdoti Fidei donum, 3 sacerdoti religiosi, assieme a 66 religiosi/e.
* Padre Daniel Mukado, IMC, Comunicazione Regione Kenia/Uganda.
L'ordinazione episcopale di Mons. Peter Makau avrà luogo il 27 luglio 2024 nella cattedrale di Sant'Eusebio a Isiolo.
«Si parla di un popolo tollerante, e posso giurare che ce ne sono pochi, se non rari! La tolleranza è un dono piuttosto speciale e scarso. In realtà, è una virtù vitale, che ci aiuta a sopportare individui con modi e opinioni diverse nella vita».
Se c'è una persona tollerante che ho conosciuto, è stato padre Giovanni Bonanomi, deceduto il 03 aprile 2024, alla età di 92 anni.
Sono stata sua allieva nella fase propedeutica della formazione nel 2002-2003 e posso testimoniare che non solo ci ha accolte e introdotte nella vita religiosa, ma ha anche calmato le nostre paure in quello che era un periodo turbolento. Come assistente di padre Giancarlo Rossi, il Rettore, padre Bonanomi ha dato il miglior esempio di collaborazione e umiltà. Come parte dell'équipe formativa, ha lavorato a stretto contatto con il duro Rettore, trovando tuttavia il modo di non essere prepotente con noi. Il suo dono della tolleranza gli ha fatto capire che molti di noi erano nuovi nell'ambiente religioso e che, quindi, avevamo bisogno di tempo e di incoraggiamento per recuperare il ritardo rispetto a coloro che avevano frequentato i seminari minori. Come padre (padre Bon, lo chiamavamo), era eccellente in questo. Non dava mai per scontato nulla. Era pronto a ripetere più volte qualcosa, finché una persona non capiva. Per lui, tutti potevano essere trasformati in qualcosa di buono. Sembrava credere che chiunque potesse brillare in ciò per cui Dio lo aveva creato, se gli si dava tempo, aiuto e qualche incoraggiamento.
Essendo stati suoi studenti anche in filosofia, molti di noi possono verificare che, se qualcuno era stato licenziato dal seminario da padre Bonanomi, quella persona non era veramente chiamata ad essere un sacerdote, tanto meno un missionario della Consolata.
Bonanomi aveva un cuore d'oro e non ha mai imposto la sua volontà alle persone; eppure non è mai diventato il loro burattino. Il suo dono della tolleranza gli permetteva di essere allo stesso tempo fermo nei principi formativi, eppure abbastanza paterno da far capire, anche allo studente più ostinato, il suo errore. Questa è la complessità del dono della tolleranza; non significa chiudere gli occhi davanti agli errori, ignorandoli, o fingere di non vedere le correzioni necessarie.
Padre Giovanni Bonanomi e padre Jonah M. Makau a Nairobi, Kenya. Foto: Archivio personale
La tolleranza non è l'accettazione di una situazione, in nome della pace, ma è, invece, ricordare che tutti noi siamo creati in modo diverso e che è necessario collaborare e coesistere in pace e armonia. La tolleranza è la capacità di dare a una persona una seconda, una terza e persino una quarta possibilità; la capacità di vedere un futuro promettente in un giovane turbolento che fa del suo meglio per schivare le sfide della gioventù. A padre Bonanomi è capitato di avere questo raro dono.
Questo non significa che non si sia mai arrabbiato per i nostri comportamenti, ma che sapeva come gestire le frustrazioni della convivenza con giovani in crescita, bisognosi di una costante direzione e correzione. Era veramente degno del titolo di "anziano": anche quando era irritato, sapeva controllare le sue emozioni ed evitare gli sfoghi.
L'opportunità di essere suoi studenti di teologia ci ha fatto capire che stavamo vivendo con un uomo santo. Molti di noi lo ricordano come una persona che insegnava attraverso l’esempio. Anche se può essere vero che «risparmiare la verga rovina il bambino» (Pr 13, 24), padre Bonanomi aveva scelto una saggezza più alta: la tolleranza. Probabilmente era solito meditare molto su Sal 135, 3-5, dove si legge: «Signore, se tu contassi le nostre trasgressioni, chi resterebbe in piedi?»; e sembra che, probabilmente, questo versetto abbia dato peso alle sue decisioni. Aveva capito che Dio tollera il suo popolo, lo perdona e gli dà una nuova possibilità di vivere come suoi figli, con l’aiuto della sua grazia. Questo forse spiega perché padre Bonanomi fosse come un magnete per gli studenti: sembrava irradiare pace e unità, anche in situazioni che avrebbero potuto far crollare la comunità a causa delle tensioni.
Nel ricordare padre John Bonanomi, grande missionario che ha trascorso più di 40 anni in Kenya, dovremmo cercare di essere tolleranti come lui. Che le parole di San Paolo, «tutti hanno peccato e sono venuti meno alla gloria di Dio» (Rm 3, 23-24), ci sveglino dall'ipocrita moralismo, ogni volta che siamo tentati di giudicare duramente gli altri; e che il Signore renda anche noi partecipi del dono della tolleranza.
* Padre Jonah M. Makau, IMC, frequenta il corso in Cause dei Santi, a Roma.