Mons. Luis Augusto Castro Quiroga, colombiano, missionario della Consolata, arcivescovo emerito della città di Tunja, è morto in una clinica di Chía, vicino a Bogotá, dove era ricoverato da venerdì scorso. Una figura nota in tutta la Colombia per il suo impegno sociale e la sua ferma leadership a favore della pace nel Paese. Con la sua narrazione ha fatto della missione, intesa in molti modi, un modo gentile e coinvolgente di essere in contatto con il mondo intero. Aveva 80 anni. "Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5,9).
Mons. Luis Augusto è stato prima di tutto un uomo con una profonda sensibilità umana che ha amato l'umanità e la Chiesa, lavorando sempre per adempiere al comando del Signore: "Andate in tutto il mondo e proclamate la Buona Novella a tutta la creazione" (Mc 16,15). Importanti e significativi sono stati i suoi contributi nel campo della missionologia, che come educatore ha saputo far conoscere con una serie di pubblicazioni e scritti, piacevoli e di facile lettura, che sono costantemente usciti dalla sua penna e nei quali traspariva il suo buon umore e la sua sagacia. Ricordando la sua nomina a vescovo ha scritto: "È un fatto assodato che se si chiede a un santo se vuole essere un vescovo, dice subito di no. Quando mi è stato chiesto se volevo diventare vescovo, ho risposto subito di sì".
Oltre a essere un prolifico narratore e autore di numerosi libri, ha promosso la musica, l'arte e i media: a Tunja ha fondato un giornale e un canale televisivo. Si è occupato molto dell'educazione dei leader laici, dei seminaristi e del clero e con il suo carisma ha promosso la fondazione di più di un centro di istruzione superiore.
Eppure, nelle chiese in cui ha prestato servizio, ma anche al di fuori di esse e in gran parte della società civile colombiana, Mons. Castro sarà ricordato come un artigiano della pace determinato, perseverante, insistente e caparbio. L'ha seminata, difesa, sostenuta aprendo continuamente spazi di dialogo e negoziazione.
Come vescovo di San Vicente del Caguán e Puerto Leguizamo, un territorio dove il conflitto e la violenza erano pane quotidiano, nel 1997 ha svolto un ruolo chiave nell'assicurare il rilascio di 60 soldati rapiti dai guerriglieri delle FARC.
Dal 2005 al 2016 è stato presidente della Commissione Nazionale di Riconciliazione e in questo periodo è stato per due volte presidente della Conferenza Episcopale: ha promosso tutte le occasioni di dialogo, ha mediato nella liberazione di vari ostaggi, ha presenziato ai colloqui dell'Avana tra il governo e le FARC senza smettere di incoraggiare e guidare le parti in dialogo, e si è fatto garante del rispetto degli impegni presi. Ha potuto vedere questa pace sbocciare e portare i primi frutti. Gran parte della sua eredità sarà ciò che la Colombia farà con questo immenso dono, frutto di una costruzione collettiva e comunitaria, in cui ha svolto un ruolo importante.
In un'intervista concessa a Telesantiago, in occasione del suo addio alla diocesi di Tunja, egli stesso, e come sempre a modo suo, ha fatto questa sintesi della sua vita e del suo ministero sacerdotale ed episcopale: "Oggi c'è un numero che mi gira in testa ed è l'85. Ottantacinque sono stati i sacerdoti ordinati a Tunja formati nel nostro seminario diocesano e altrettanti sono stati gli ostaggi che sono riuscito a liberare dalle mani dei guerriglieri, non a Tunja ma a San Vicente del Caguán. Due numeretti uguali che indicano due compiti molto diversi ma positivi. A questo punto della mia vita mi piace ricordarli entrambi".
Intervista di Paolo Moiola a porposito del conflitto in Colombia (2017)
Luis Augusto Castro è nato a Bogotá, la capitale della Colombia, l'8 aprile del 1942. Ha studiato presso il Collegio San Bernardo dei Fratelli Lasalliani e poi presso il seminario minore dei Missionari della Consolata.
Nella sua formazione come Missionario della Consolata ha studiato filosofia presso la Pontificia Università Javeriana di Bogotá; fatto il noviziato a Bedizzole e gli studi di teologia presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma. Ha emesso i voti perpetui il 10 marzo 1967 ed è stato ordinato sacerdote a Roma il 24 dicembre dello stesso anno.
Già come sacerdote missionario si è specializzato in counselling all'Università di Pittsburgh e ha ottenuto il dottorato in teologia nella università Javeriana di Bogotá.
Come sacerdote ha ricoperto vari incarichi: viceparroco nella Cattedrale di Florencia (Caquetá, Colombia) e rettore dell'Università dell'Amazzonia nella stessa città (1973-1975); direttore del seminario maggiore di filosofia dei Missionari della Consolata a Bogotá e, allo stesso tempo, consigliere provinciale (1975-1978); superiore regionale della IMC in Colombia (1978-1981).
Dal 1981 al 1986 ha fatto parte del Consiglio Generale dei Missionari della Consolata a Roma.
Il 17 ottobre 1986, Papa Giovanni Paolo II lo ha nominato ordinario del Vicariato Apostolico di San Vicente-Puerto Leguízamo. La sua consacrazione episcopale ha avuto luogo nella Cattedrale Metropolitana di Bogotá il 29 novembre dello stesso anno ed è stata presieduta dai vescovi Angelo Acerbi, Nunzio Apostolico in Colombia; Mario Revollo Bravo, Arcivescovo di Bogotá; José Luis Serna Alzate, vescovo di Florencia e anch'egli Missionario della Consolata.
Mons. castro è stato alla guida del vicariato di san Vicente per dodici anni poi, il 2 febbraio 1998, è stato nominato alla sede metropolitana di Tunja dove è rimasto fino alle sue dimissioni per raggiunti limiti di età che sono state accolte da papa Francesco l’11 febbraio del 2020.
In questi anni è stato vicepresidente della Conferenza episcopale colombiana dal luglio 2002 al luglio 2005 e poi presidente fino al luglio 2008. In questa veste nel 2007 ha partecipato alla Quinta Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano celebrato in Aparecida (Brasile). Ha avuto un secondo mandato come presidente della conferenza Episcopale nel triennio 2014-2017
* Con informazioni provenienti da vari media.
Mons. Luis Augusto Castro durante la celebrazione della festa di Nostra Signora Consolata, il 20 giugno 2022, nella parrocchia del quartiere Vergel, a Bogotà. Foto: Archivio IMC Colombia
Lo scorso 28 giugno La "Commissione per la verità" ha presentato a tutta la società colombiana i risultati del suo lavoro. Questa commissione è una delle tre istituzioni che compongono il Sistema globale di verità, giustizia, riparazione e non ripetizione creato dall'accordo di pace del 2016. Da quando è diventata operativa nel 2018, la Commissione ha lavorato, a volte in circostanze difficili, per far luce su cinque decenni di atrocità e violazioni dei diritti umani commesse durante il conflitto armato del Paese. Alla fine della presentazione, che nei prossimi mesi sarà divulgata in modo capillare in tutto il paese, i membri della commissione si sono diretti al paese con un appello e un chiaro invito alla riconciliazione.
Vogliamo rivolgere un appello alla società, allo Stato e alla comunità internazionale. Poiché il riconoscimento della verità permette di curare le ferite delle vittime, di trasformare i responsabili e di aprire la strada per costruire insieme il futuro, la Commissione chiede che la verità venga riconosciuta:
1. Chiediamo ai colombiani, senza distinzioni, che accettino la verità della tragedia della distruzione della vita umana tra noi e si decidano a non uccidere più per nessun motivo. Ogni morte violenta deve essere rifiutata collettivamente e con chiarezza; la vita degli esseri umani e della natura deve essere messa al centro prima di ogni interesse particolare. Più nessun colombiano deve fuggire in esilio per proteggere la propria vita.
2. Chiediamo a tutto il popolo colombiano di riconoscere le vittime del conflitto armato nel loro dolore, nella loro dignità e nella loro resistenza. È necessario riconoscere l'ingiustizia di ciò che abbiamo vissuto; il trauma collettivo che condividiamo come società; l'esigenza della riparazione integrale e trasformativa per gli oltre 9 milioni di vittime del conflitto armato interno.
Foto Museo Casa de la Memoria
3. Chiediamo di guardare criticamente la storia in una prospettiva che dia spazio alla presenza costante della memoria necessaria alla costruzione della pace e all'impegno per la non ripetizione. Lo Stato e la società nel suo complesso dovranno contrinuire al rafforzamento dei valori democratici.
4. Chiediamo ai giovani di affrontate la verità delle cause e degli orrori del conflitto armato per costruite la nuova nazione che è nelle loro mani, perché loro sono il futuro. A voi giovani chiediamo di non collaborare mai a nulla che aggravi la morte, l'odio e la disperazione e di essere leader nel realizzare le raccomandazioni di questa commissione.
5. Chiediamo alla società e allo Stato di portare a pieno compimento l'Accordo di pace firmato (con la guerriglia delle Forza Armate Rivoluzionare della Colombia, FARC); di avanzare verso il consenso sulle trasformazioni necessarie per superare i fattori che hanno facilitato la riproduzione dei cicli di violenza; di rafforzare la convivenza nelle diverse regioni del paese per mezzo della ricostruzione della fiducia dei cittadini tra loro e con le istituzioni, e sempre nella prospettiva nazionale di una grande pace.
Foto SozziJA
6. Chiediamo allo Stato di partire dalla verità che ogni giorno di guerra allontana la possibilità di coesistenza e governabilità; prendere l'iniziativa per la pace con l'Esercito di Liberazione Nazionale (ELN) e gli altri gruppi armati e cercare il dialogo con gli altri gruppi illegali per negoziare o sottomettersi alla giustizia.
7. Chiediamo alle organizzazioni che non accettano la legittimità dello Stato, così come all'ELN, ai dissidenti e agli altri gruppi insurrezionali che continuano a fare la guerra, di ascoltate il grido del popolo che chiede di "fermare subito la guerra da tutte le parti" e di intraprendere la strada del dialogo fino al raggiungimento della pace, nella diversità delle metodologie e delle situazioni regionali.
8. Chiediamo a tutti gli strati sociali e politici di approfondire la democrazia attraverso la definitiva esclusione delle armi dall'arena pubblica e per attuare una riforma che apra spazi per i settori e i gruppi esclusi, in una democrazia rappresentativa che rifletta la pluralità territoriale ed etnica del Paese e che abbia al centro il dialogo, la partecipazione diretta dei cittadini e la mobilitazione come strumenti fondamentali per garantire i diritti, il ripristino del tessuto sociale, la costruzione della fiducia istituzionale e il definitivo rifiuto della violenza contro chi la pensa diversamente.
9. Al sistema giudiziario, per porre fine all'impunità, ricostruire la fiducia nello Stato e garantire l'imparzialità e l'indipendenza degli organi investigativi e giudiziari; per proteggere i funzionari giudiziari, le vittime e coloro che partecipano ai processi, e per far luce sulla criminalità organizzata e punire i responsabili.
10. Chiediamo al Governo, alle forze di sicurezza, ai partiti politici, agli uomini d'affari, alle chiese, agli educatori e agli altri responsabili delle decisioni in Colombia, di riconoscere la penetrazione del narcotraffico nella cultura, nello Stato, nella politica e nell'economia e il modo in cui la guerra alla droga è uno dei principali fattori di persistenza del conflitto. Chiediamo loro di sviluppare meccanismi investigativi che permettano di affrontare con reale efficacia sia il sistema di alleanze e interessi coinvolti nel narcotraffico; di sottomettere alla giustizia gli apparati politici, finanziari e armati che lo rendono possibile; di cambiare la politica nei confronti dei contadini e degli anelli più deboli della catena per superare i problemi strutturali di povertà, esclusione e stigmatizzazione. Tutto ciò dovrebbe basarsi su un approccio basato sui diritti umani e sulla salute pubblica, al fine di intraprendere un dialogo approfondito verso soluzioni etiche, educative, legali, politiche ed economiche, sia a livello nazionale che internazionale, che consentano di compiere progressi nella regolamentazione del mercato delle droghe e nel superamento del proibizionismo.
11. Chiediamo allo Stato e alla società di stabilire una nuova visione della sicurezza per la costruzione della pace come bene pubblico incentrato sulle persone, in cui la protezione di tutti gli esseri umani e della natura viene prima di tutto. Questa visione di sicurezza non può centrarsi sulle forze armate ma si deve costruire sulla fiducia collettiva, con il sostegno di tutti gli organi statali, delle comunità e dei gruppi etnici, sulla base del dialogo tra cittadini e istituzioni, al fine di operare le necessarie trasformazioni nello Stato, nelle forze armate, nella polizia e nelle organizzazioni della società civile, come elemento fondamentale per la pace.
12. Chiediamo alla burocrazia statale e agli amministratori pubblici e privati di rifiutare e porre fine alla corruzione a diversi livelli, rompendo abitudini e complicità e agendo con determinazione nel controllo dei cittadini e nell'effettiva sanzione delle leggi per fermarla.
13. Chiediamo allo Stato, alla società e, in particolare, al settore imprenditoriale impegnato in grandi progetti industriali e finanziari, di dare la priorità alla garanzia di condizioni di benessere e di vita dignitosa per le persone e le comunità, senza esclusioni, sulla base di una visione condivisa del futuro per superare le disuguaglianze strutturali che rendono questo Paese uno dei più iniqui al mondo in termini di concentrazione di reddito, ricchezza e territorio. È necessario che gli investimenti statali, imprenditoriali e finanziari siano incorporati nella creatività e nella passione della gioventù popolare e rurale, che chiede di partecipare alla produzione della vita che è cara a tutti i colombiani.
Foto SozziJA
14. Chiediamo a tutti i colombiani di dare ai contadini l'immenso riconoscimento che è loro dovuto per la vita di tutto il paese. Dobbiamo garantire un'equa ridistribuzione della terra; la prevenzione e l'inversione dell'esproprio; le condizioni per una produzione sostenibile; l'accesso a beni e servizi pubblici tra i quali sicurezza, giustizia e istruzione di qualità. Sarà necessario assicurare anche le condizioni necessarie per la cura degli ecosistemi, dell'acqua, della terra e delle specie native.
15. Chiediamo a tutta la nazione di superare il razzismo strutturale, il colonialismo e l'ingiusta e maldestra esclusione che è stata inflitta ai molti popoli che compongono la nazione colombiana colpiti in modo sproporzionato dalla guerra. Rendere le loro culture e tradizioni un'indispensabile parte sostanziale dell'identità di tutti noi come colombiani è una condizione "sine qua non" per vivere in tranquillità, giustizia e pace.
16. Chiediamo a tutti di rispettare le differenze di pari dignità delle donne, delle persone LGBTIQ+, dei bambini, degli adolescenti, dei giovani, delle persone con disabilità o diversità funzionali e degli anziani, che sono stati particolarmente colpiti dal conflitto armato.
17. Chiediamo alle nazioni amiche della Colombia -che riconosciamo e ringraziamo per l'accompagnamento delle vittime nei territori, per l'aiuto umanitario e ai diritti umani e per il contributo alla pace- di fare questo passo: aiutare la Colombia a essere un esempio di riconciliazione nel mondo; smettere di vederci come un Paese che sopravvive solo in "modo guerra" e che ha bisogno di un sostegno militare che perpetua il conflitto. Abbiamo subito 60 anni di violente vittimizzazioni e vi chiediamo di non darci nulla per la guerra, non lo vogliamo. Non vogliamo la guerra in nessuna parte del mondo. Sosteneteci in tutto ciò che fa fiorire la vita e la natura, la fiducia civica e l'economia, in armonia con la ricchezza naturale di questa terra; sosteneteci nell'amicizia che rispetta le differenze in una comunità internazionale che condivide la casa comune del pianeta.
18. Chiediamo alla società nel suo insieme di impegnarsi a cambiare profondamente gli elementi culturali che hanno portato alla nostra incapacità di riconoscere l'altro come essere umano di pari dignità. È necessario costruire un futuro nel dialogo, a partire dalle diverse concezioni della vita e tradizioni spirituali, con un'etica pubblica in cui ci riconosciamo semplicemente come persone e cittadini, disposti a intraprendere trasformazioni a livello istituzionale, normativo, personale e quotidiano. È urgente cancellare le narrazioni di odio, discriminazione e stigmatizzazione, per costruire invece la fiducia e la passione per un futuro di speranza condivisa e di vita appagata che dobbiamo alle future generazioni colombiane.
19. Chiediamo ai leader religiosi di riflettere sul vuoto spirituale che si è prodotto in un popolo con solide tradizioni di fede che è vissuto per anni invischiato nelle vie della guerra e impantanato in una crisi umanitaria marcata dall'odio, la sfiducia e la morte. Chiediamo di intraprendere con coraggio la missione di riconciliazione della Chiesa cattolica con le altre Chiese e con i saggi e gli anziani, Uomini e donne della tradizione indigena e afrocolombiana.
Foto SozziJA
La maggior parte delle commissioni per la verità nel mondo sono state istituite alla fine di una dittatura violenta o alla fine di un conflitto. In questi casi, la verità dà luogo alla costruzione dello Stato di diritto che era assente. Il caso della Colombia è particolare perché non c'è stata una dittatura di questo tipo; al contrario, c'è una Costituzione che garantisce una democrazia continua e i diritti in essa sanciti. Sebbene il confronto tra lo Stato e la guerriglia delle FARC sia terminato, la violenza legata alla politica e al denaro continua in varie forme, perché i problemi non sono stati risolti: la pace fatta dagli eserciti ha lasciato la frattura che continua nella società. Per risolverli, dobbiamo essere una società che fa proprio il dolore delle vittime, che dice "basta", che assume la giustizia della transizione. Una società che, senza voltare la pagina dell'oblio, abbia il coraggio di costruire sulle differenze, incorporando coloro che si sono odiati, per consentire un dialogo nel rispetto che fa la vera democrazia.
Noi ci siamo abituati a vivere in "modalità guerra" anche se la stragrande maggioranza di noi non ha un fucile. Per questo abbiamo ricevuto un messaggio che le altre commissioni del mondo non hanno avuto, un messaggio richiesto dai firmatari dell'accordo del Teatro Colón, dai garanti dell'accordo, dalle Nazioni Unite, dalla comunità internazionale, dalla Corte Costituzionale, dalla Chiesa cattolica e dalle altre Chiese cristiane, dai saggi indigeni e afrodiscendenti e, soprattutto, dalle vittime sopraffatte dalla disperazione: "che la cruda verità che ci consegnate ci porti alla riconciliazione". Questa è la richiesta, formulata in molti modi diversi, ma sempre la stessa.
Riconciliazione significa accettare la verità come condizione per la costruzione collettiva e superare il negazionismo e l'impunità. Significa prendere la decisione di non uccidersi più a vicenda e di togliere le armi dalla politica. Significa accettare che molti di noi - in varia misura, per azione o omissione - sono responsabili della tragedia. Significa rispettare l'altro, l'altra, al di là dei retaggi culturali e della rabbia accumulata. Significa prendere in considerazione la ferita dell'altro, le sue preoccupazioni e i suoi interessi. Significa costruire in modo che lo Stato, la giustizia, la politica, l'economia e la sicurezza siano al servizio della pari e sacra dignità umana dei colombiani.
Riconciliazione significa che lo Stato attuale si trasformi in uno Stato per il popolo; che i politici abbandonino la corruzione; che gli imprenditori non escludano dalla partecipazione alla produzione una moltitudine di persone che reclama il diritto di farne parte; che coloro che monopolizzano la terra la cedano; che tutti coloro che collaborano con il narcotraffico, con la guerra, con l'esclusione, con la distruzione della natura siano disposti a cambiare.
Riconciliazione significa la fine dell'impunità e che coloro che continuano a fare la guerra capiscano che non c'è alcun diritto di continuare a farla, perché non permette la democrazia o la giustizia e porta solo alla sofferenza.
Malgrado le differenze, ma contando con la speranza e la fiducia collettiva, possiamo costruire un paese che sia possibile per oggi e per le generazioni di domani.
Negli ultimi mesi in Colombia è continuato lo stillicidio di uccisioni di civili ma soprattutto di leader sociali vittime di un conflitto decennale che stenta a risolversi, malgrado la conclusione dei dialoghi di pace. Negli ultimi due anni la situazione sembra decisamente peggiorata: secondo l'Instituto di Studi sullo Sviluppo e la Pace INDEPAZ, In Colombia nei primi mesi del 2022 ci sono già state 94 vittime e nei due anni precedenti gli omicidi sono stati 338 (2021) e 381 (2020).
A tutto questo contribuiscono i fallimenti e le lentezze delle riforme sociali concordate alla fine dei dialoghi di pace ma realmente mai attuate in modo opportuno e sufficiente; il tentativo di controllare militarmente ampie porzioni di territorio da parte di gruppi al margine della legge e dediti al lucrativo negozio del narcotraffico; una campagna presidenziale come in altre occasioni estremamente polarizzata ma con la novità di un candidato di sinistra in vantaggio nei sondaggi e con serie possibilità di essere il prossimo presidente della repubblica.
Come sempre il maggior numero di vittime le mettono i più poveri, spesso appartenenti a minoranze etniche che si sono organizzate e stanno ottenendo un margine sempre maggiore di consenso e finisco per opporsi ai poteri fattici di sempre.
È accaduto alla fine di marzo l’ultimo triste episodio. Siamo nella zona amazzonica, sulla frontiera con il Perú e l’Ecuador, nella regione del Putumayo dove ormai da decenni lavorano i Missionari della Consolata. Undici morti per adesso accertate (con ancora un numero incerto di dispersi) caduti in uno scontro a fuoco con l’esercito che, secondo il ministro della difesa, erano parte di un gruppo narcoguerrigliero e invece per le autorità indigena che hanno esposto varie denunce, si trattava semplicemente di abitanti di vari villaggi fluviali che si erano riuniti per celebrare una festa e un torneo di calcio.
Fra di loro anche Pablo Panduro che era governatore (la massima autorità locale nel mondo indigena) oltre che catechista della comunità cristiana del suo villaggio.
A Puerto Leguízamo un nutrito gruppo di persone si sono strette attorno alla sua famiglia in occasione del funerale, Pablo per il suo impegno era abbastanza conosciuto anche dalle autorità locali. Assieme a lui è stato sepolto anche Brayan Santiago Pama, di appena 16 anni e studente in una delle scuole superiori della cittadina. Anche lui vittima di questa oscura vicenda è stato accompagnato dai suoi compagni di scuola che si sono fatti sentire a chiare lettere nella breve manifestazione posteriore alla messa funebre.
Presieduta da Mons. Joaquín Pinzón, Missionario della Consolata e Vicario Apostolico di quel vasto territorio amazzonico, hanno partecipato anche tutti i missionari che lavorano in quel centro urbano sperduto nell'Amazzonia colombiana.
Le foto che accompagnano questa notizia sono state pubblicate nella pagina Facebook del Vicariato.
I compagni di scuola di Brayan Santiago
Mons. Joaquín Pinzón presiede la messa
La presenza delle autorità indigene che hanno esposto varie denunce
Comunidade Apostólica Formativa do Teológico (CAFT Cali)
Sair não é uma experiência fácil. Sair Implica mudanças interiores. Sair nos conduz a acolher novas formas de navegar. Nós, seres culturais, acostumados a viver de acordo com hábitos agregados ao nosso perfil ao longo dos anos. Sair significa abrir os olhos para outras praias, pois em nosso coração habita a sede de outras águas. Somos parte de uma cultura e a cultura é parte do que somos; melhor dizendo é parte daquilo que vamos sendo no mundo. Sair significa reconhecer que esta cultura também é parte de um mar maior, cuja grandeza descobrimos quando estamos dispostos a deixar nossas terras, nossas maneiras de conceber a vida, nossos jeitos de estar no mundo. Sair é ter adiante uma incerteza grande, por isso nosso instinto tem medo de sair, tem medo de experimentar o novo que nos chama. Entretanto estou cada vez mais convencido, vencer o medo de sair nos faz crescer como seres humanos.
A vida missionária é uma constante saída, é através desta que aquela vai tecendo seus próprios arranjos, como fazem as bordadeiras em Minas Gerais, quando a cada linha o agasalho torna-se um pouco mais forte. A imagem sempre me pareceu linda, o ato de costurar a vida missionária, o ato de tecer a nós mesmos, pois a vida missionária não é somente uma entrega a Deus e aos outros, mas também uma maneira de nos construímos como seres humanos. É um convite a não instalar-nos apenas em um ponto de visto, seja ele pessoal, social, político, cultural, eclesial, mas a aprender olhar o mesmo horizonte sem perder a singularidade de cada um. Esse ano Deus me convidou a seguir costurando a vida missionária em Colômbia.
No começo uma nuvem tomou conta do meu coração; tive medo, a barca parecia andar demasiado longe para eu poder embarcar. Quando embarquei descobri que não podia levar muita bagagem, pois a tripulação era maior, nãoapenas os colombianos navegariam comigo, mas toda a comunidade religiosa na qual estou, sendo essa formada por pessoas de distintos países: Brasil, Colômbia, Kenia, México, Moçambique, Tanzânia, Uganda. Em cada um dos meus irmãos há uma costura cuja tecedura se vai aos poucos entrelaçando com a minha, formando assim a comunidade dos Missionários da Consolata em Cali. Os primeiros contatos com o idioma, a música, as celebrações, a dança, os cheiros e sabores desta cultura, tudo acompanhado pela certeza de estar aqui por uma razão: Jesus Cristo e o propósito de configurar a minha vida com ele dentro do carisma pertencente ao IMC.
Aqui fui presenteado com uma nova maneira de viver a formação, as pequenas comunidades formativas apostólicas, também com a pastoral afro, na qual pude aprofundar a minha própria identidade como Afro latino-americano. Também estive com os indígenas, celebrando com eles a semana santa, aprendendo outra forma de ser cristão-católico, descobrindo novas maneiras de viver, desde a simplicidade, colocando os passos e o coração em terras sagradas. Entretanto, o maior presente nestes dois meses é o de estar crescendo nesse itinerário de saída, a certeza de estar navegando com a alegria de quem pode olhar o horizonte com olhos alargados. Essa alteridade, esse descalçar as sandálias para entrar em território alheio, esse viver como uma busca por abrir-se cada vez mais a pluralidade. Por enquanto minha experiência tem sido aquela de olhar e acolher, de estar e buscar. O mais difícil de sair não é embarcar o corpo, mas o coração e os olhos, esses são tentados a ficar onde estávamos antes, de certa forma sempre fica um pouco deles, nos apegamos demasiado aos lugares onde estivemos. A experiência de trazê-los para dentro do espaço onde estamos nos permite descobrir a beleza de ser tão diferente, ainda assim, todos humanos.
El pasado 6 de octubre de 2015, nuestra comunidad de la Casa Regional IMC de Colombia-Ecuador, celebró con mucha alegría los 50 años de Profesión Religiosa y los 75 años de vida del P. Luis (Luigi) Duravía, nacido en Treviso (Italia) y naturalizado colombiano, con sus 46 años de vida misionera dedicada al trabajo en Colombia, en diversas actividades.
Actualmente el P. Luis Duravia es rector del Colegio Bilingüe José Allamano, en Bogotá. Pedimos a Jesús que por intercesión de nuestra Madre Consolata y el Beato José Allamano, nuestro padre fundador, que siga bendiciendo su vida y consagración misionera, religiosa y sacerdotal...
Felicidades P. Luis Duravía... y gracias por su ejemplo de vida y misión...