La vocazione Missionaria

Padre Sergio Tesio, Missionario della Consolata piemontese, nato a Moretta (Cuneo) nel 1947, fra pochi giorni celebrerà 50 anni di ordinazione sacerdotale. Era il 9 settembre del 1973 quando venne ordinato da Mons. Carlo Re e ricevette la prima destinazione missionaria per il Venezuela dove giunse nel 1978. Oggi, dopo essere passato anche dalla Colombia e dalla Spagna è in Italia, nella comunità dei Missionari della Consolata di Olbia. Pensando a questi cinquant’anni, ci lascia queste semplici riflessioni.

Mi sono sentito  felice e realizzato nelle missioni del Venezuela e della Colombia dove ho lavorato: gli agricoltori delle Ande (La Puerta), gli Afroamericani di Barlovento e di Cartagena, gli indigeni della Guajira sono stati i miei compagni di viaggio. Ho lasciato tra queste popolazioni un pezzo del mio cuore. 

Queste persone sempre mi hanno considerato come parte della loro comunità e della loro famiglia. Io mi sono sentito come un figlio e sono sempre stato bene fra di loro... tra queste persone umili e semplici ho sperimentato un incredibile ambiente di solidarietà, ospitalità e semplicità: condividono il poco che hanno e non manca mai un sorriso, una parola o un aiuto. Mi è costato di più il viaggio di ritorno in Europa che quello di andata in Venezuela. 

Vivere la missione significa vivere la fraternità tra noi e con la gente del luogo, condividere il dono della fede e della vita; nel nostro impegno mai dobbiamo lasciare fuori la comunità e i poveri che sono sempre i protagonisti.

Io sono riconoscente al Signore per il dono della vocazione missionaria e per tutte le esperienze vissute fino ad oggi: è un qualcosa che fa star bene e rende felice la tua vita. certamente non sono mancate delle difficoltà e queste sono un po’ un prezzo da pagare, ma anche quelle ti mantengono sveglio, ti fanno riflettere, rompono l’abitudine del “si è sempre fatto così”. In questo modo continui a sperimentare come Dio continua a seminare germi di speranza e di consolazione.

Oggi sto vivendo la mia consacrazione missionaria in Italia. Il missionario che ritorna lo fa per ricordare alla Chiesa che non è chiesa se non sente e vive la scintilla della missione; per invitare tutti, credenti e non credenti, a fare del mondo la casa dell’umanità, la casa comune, la famiglia universale dei figli di Dio; per  raccontare, in modo particolare ai giovani che vale la pena spendersi per gli altri. È un programma stupendo.

Cinque consigli

Voglio offrire cinque semplici consigli a colui che desidera vivere la vita cristiana in stile missionario:

1. Cerca di avere un cuore grande, come quello di Gesù: un cuore che abbraccia chi viene da fuori, il diverso, il migrante, il lontano; un cuore che valorizza chi è avanti negli anni e ha speso le sue forze per il bene comune e adesso magari ha bisogno del tuo aiuto.

2. Mantieniti informato su ciò che capita vicino e lontano da te. Leggi e sostieni la stampa missionaria, le riviste che ti offrono notizie di prima mano da un mondo solo apparentemente lontano. Dobbiamo vincere l’indifferenza e mai applicare il proverbio “occhio che non vede, cuore che non sente”.

3. Fai tuo uno stile di vita fuori serie, austero e sobrio, rispettando il creato, la casa comune, la nostra terra, perché sprecare è rubare.

4. Fai parte e sostieni quelle organizzazioni, come Caritas e Medici senza frontiere, che promuovono la dignità delle persone e il bene comune. Ricorda che l’unione fa la forza.

5. Interrogati sul tu futuro. Tante donne e uomini si sentono felici e realizzati nella vita cristiana e nell’impegno missionario... non puoi esserlo anche tu?

Una scuola nella scuola

Ci siamo riuniti a Bucaramanga, provenienti da diverse parti della Colombia e anche del Paraguay. Eravamo 74 giovani che dal 23 giugno al 2 luglio 2023 abbiamo partecipato alla Scuola per Leaders Giovanili Missionari: alcuni di noi erano in vacanza, altri disoccupati e altri ancora molto occupati. 

Come Giovanni ai suoi discepoli, qualcuno ci ha detto: “Guardate! ecco l'Agnello di Dio!”: noi la notizia l’abbiamo ricevuta da un amico, un'amica, un parente, un conoscente o addirittura l’abbiamo saputo per mezzo dei social network ma, come i discepoli di Giovanni che dopo averlo udito seguirono Gesù, lo stesso facemmo anche noi. Gesù si guardò intorno e vide che lo seguivano. «Cosa volete?» chiese loro. Risposero: «Maestro, dove abiti?». «Venite e vedete», disse loro (cfr Gv 1,35-41).

Siamo stati dieci giorni con lui

E così abbiamo scoperto che non eravamo stati noi a cercare il Maestro, ma che in modo sorprendente era stato Lui ad invitarci a seguirlo: per ascoltarlo, per imparare,  per allenarci ad andare oltre i nostri confini, per condividere la vera Consolazione con gli umani desolati e la madre terra devastata (cfr Mc 3, 14).

Nell’ultimo giorno, dopo corsi, seminari, laboratori, esperienze spirituali individuali, comunitarie e sociali, con metodologie e dinamiche ludiche e pedagogiche... abbiamo tirato le somme e siamo stati sfidati a immaginare quell'altro mondo possibile che cerchiamo. L’abbiamo fatto a partire dalla nostra diversità e l’abbiamo fatto come artisti, acrobati, ballerini, musicisti, cantanti e clown.

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Le nostre conclusioni si sono rivelate solo l'inizio di un percorso, in cui ci siamo ascoltati con rispetto, ammirazione e gratitudine. Molte riflessioni e osservazioni sono state una vera scuola dentro la scuola.

“Io sono arrivato alla conclusione - è Johan che parla, uno studente all’ultimo anno delle  superiori -  che durante questi 10 giorni di scuola abbiamo imparato molte cose che ci aiuteranno ad essere leader migliori e migliori discepoli. Saremo in grado di testimoniare ad altre persone che insieme, come famiglia, possiamo essere la migliore chiesa in uscita.  Porteremo nel cuore quella gioia che saprà illuminare quei luoghi che sono nell'oscurità e così creare quel mondo migliore che sappiamo possibile”.

Manuel, studente di Ingegneria Elettrica all'Università Nazionale, confessa che alla Scuola per Animatori Giovanili Missionari “ho ricevuto strumenti di spiritualità e formazione pastorale, per mezzo dei quali il Dio della vita ci accompagnerà nella nostra quotidianità. Con Lui sarà possibile goderci ogni passo verso l'altro mondo possibile che vogliamo»

Alejandro, studente di giurisprudenza all'Università Nazionale, ci ricorda che “essere leaders non è semplicemente comandare gli altri o dirigere le masse. Si tratta invece di essere una guida e un missionario che, per mezzo del lavoro di équipe, impara a servire la comunità, in una Chiesa in uscita, con fervore, umiltà e formazione spirituale. Vedo che, se sei in pace con te stesso e con Gesù, puoi facilitare il cammino a più persone che non sono alla ricerca di emozioni forti, effimere e fugaci, ma di quella piccola luce che non si spegne mai: la luce di Cristo".

«Questa scuola – parla Carlos, studente di contabilità pubblica del Paraguay – mi ha aiutato a riconoscere qual è la mia vera vocazione, e a guardare oltre i confini che ci intrappolano e ci fanno perdere la speranza che esista un altro mondo possibile». 

Per Claudia, anche lei studentessa all’ultimo anno della scuola superiore, “il discepolo missionario è un albero: espande le sue radici per riconoscere le realtà; forgia un grosso tronco che fa andare avanti la costruzione della chiesa; dà conforto sotto forma di ombra; stendete le braccia verso il cielo, come tralci, per accogliere le proposte di Gesù e costruire l’altro mondo possibile”.

Oscar, sacerdote missionario della Consolata, conclude dicendo che questa Scuola è una proposta formativa, evangelizzatrice e consolatrice per i giovane e per chiunque voglia farne parte. Apre a una nuova speranza per la Chiesa e anche per la società. “Ciascuno dei giovani qui presenti sarà il seme del Regno nelle loro realtà particolari alle quali torneranno con gioia e impegno”.

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Testimoni di ciò che viviamo

Non trascriviamo altri interventi che abbiamo ascoltato. Solo ricordiamo l’abbraccio finale con il quale abbiamo lasciato la città di Bucaramanga, famosa per i suoi parchi. Abbiamo fatto ritorno alle diverse regioni della Colombia e, i più lontani da casa, al nativo Paraguay. Come il discepolo Andrea continuiamo il cammino della vita: dopo l'esperienza vissuta con il Maestro, andò a cercare suo fratello Simone e gli disse: "Abbiamo trovato il Messia" (cfr Jn 1,41).

* P. Salvador Medina è Missionario della Consolata in Colombia.

Alcuni messaggi di cordoglio, giunti al WhatsApp del Superiore Generale, forse più di tante parole tratteggiano la figura del padre Rino Dellaidotti, recentemente scomparso. Quasi tutta la vita passata in Colombia, ha partecipato recentemente alla formazione continua dei missionari con 50 anni di professione o sacerdozio. Da quei missionari arrivano la quasi totalità dei messaggi che riportiamo.

Rino è deceduto il giorno 1 giugno 2023 a Trento. Aveva 78 anni di età, di cui 55 di Professione Religiosa e 50 anni di Sacerdozio. Sarà sepolto sabato 3 giugno nella chiesa parrocchiale di San Lorenzo in Banale, suo paese natale. 

Carissimi amici, Purtroppo una triste notizia. Il p. Rino non ce l’ha fatta. Preghiamo ora per il suo eterno riposo, premio della sua vita semplice, generosa, e del suo amore per la chiesa, l’Istituto, la missione. Rino riposa in pace. P. Claudio. (Rivoli -TO)

Che fortuna ho avuto. Senza il corso G50 non ti avrei mai conosciuto e ammirato. Uomo buono, umile, generoso. Ci ritroveremo! So che ci sarai sempre vicino, come lo sei stato con i tuoi cari in varie parti del mondo. Evviva padre Rino!

Abbiamo perso un fratello. Con la fortuna di aver passato con lui un mese ed apprezzarlo come persona e missionario. Che dal cielo continui ad accompagnarci.

P. Rino rimane sempre nel nostro cuore come esempio di bontà e di fedeltà al Signore. La fede nella risurrezione ci riassicura che Lui è col Signore più vivo che mai. Sarà  il nostro intercessore e il conforto della sua famiglia, dei suoi amici e della gente che ha servito ed amato.

Con la sua bontà e  vicinanza ci ha fatto tanto  bene. Rino ti ricordo. Una preghiera fraterna. Padre Giacomo (Tanzania)

É una notizia che ci lascia sgomenti. Prego il Signore della Gloria che dia al carissimo padre Rino il premio riservato ai suoi missionari 

Padre Rino, grazie di tutto. È stato un piacere essere stato con te. Riposa in pace e intercedi presso Dio per tutti noi. Grazie di cuore per la tua testimonianza di vita consacrata a Dio e alla Missione.

Padre Rino, grazie di tutto. È stato un piacere essere stato con te. Riposa in pace e intercedi presso Dio per tutti noi. Grazie di cuore per la tua testimonianza di vita consacrata a Dio e alla Missione.

Oltre ai giorni trascorsi insieme a Roma, ha organizzato la celebrazione del 50° anniversario di vita sacerdotale di don Franzoi, dove lo abbiamo accompagnato. Che bella figura di missionario: semplice, generoso, impegnato, sempre vicino alla gente. Che il Dio della vita lo abbia nella sua gloria, godendo della ricompensa e della gioia del missionario. Sono vicino alla sua famiglia in questo triste momento e vi ringrazio per il vostro sostegno durante tutta la sua vita missionaria (p. Jaime. Colombia).

Caro padre Rino,  ciao.  Ci vedremmo in Paradiso. É stato una grazia esserci conosciuti nel Corso dei cinquantenni! Grazie per la tua generosità, testimonianza e passione missionaria.  Vai. Il Signore ti aspetta. Ricordaci. (Lirio - Brasile)

 Caro Rino, che dispiacere, ci siamo sentiti poco prima dell'intervento e noi speravamo ma le vie del Signore non sono le nostre vie... grazie, grazie e ancora grazie per la tua generosità e per la tua umiltà... preghiamo per te per i tuoi cari... dall'altra vita  continua a darci speranza.

Messaggio del Superiore Generale

Carissimi familiari e amici di padre Rino. Con il cuore triste ma anche con tanta fede siamo qui per accompagnare il nostro amato padre Rino al Padre della vita. Ci ha lasciato improvvisamente, rapidamente. Se ci rattrista la sua perdita ci consola la sua bontà che non muore e lo fa ricordare per sempre. Padre Rino è stato un buon missionario, semplice, buono e vero, amato ed apprezzato da tutti. Anche dalla Sua Colombia molte persone hanno telefonato e inviato molti messaggi di solidarietà e di preghiera pieni di tristezza per la sua morte. Ma, in tutti, è presente un affettuoso ricordo della sua persona e del suo essere sacerdote.

Con sincerità e semplicità possiamo dire che padre Rino entra tra le icone di autentico missionario, che dona tutta la vita alla causa del Vangelo e al servizio dei poveri. 

Padre Rino ci ricorda che vale la pena perseverare e “giocarsi” la vita per la missione di Dio e che è una grande grazia “saper perdere la vita per guadagnarla” (cfr.Mt.16,24-27). Rino è stato un missionario strumento nelle mani del Signore per celebrare la vita, un servo fedele, amato e ricordato da tanta gente. 

Padre Rino ha attinto ispirazione da nostro padre Fondatore, il Beato Giuseppe Allamano, per assumere la dimensione missionaria come l’orientamento fondamentale, ispiratore della sua vita e del ministero sacerdotale, che egli ha vissuto con grande impegno e dedizione. 

Dal suo volto traspariva una grande mitezza, dal suo sguardo un desiderio sincero di ascolto pieno, dalle sue reazioni emergeva un carattere positivo, privo di ogni durezza, il suo sorriso emanava una dolcezza d’animo che rassicurava. 

Chi pone le sue sicurezze in Dio affronta la vita con serenità e ottimismo, i suoi giudizi sono sempre stati pacati e benevoli, anche le contrarietà della vita non gli tolgono quella serenità di fondo, che esclude pessimismo e vittimismo. L’uomo saggio è maestro di dialogo, prudente nel consiglio, rispettoso di ciascuno, in ogni persona sa riconoscere e apprezzare il bene presente, senza tuttavia mancare di precisare con benevolenza anche i suoi limiti. 

Non è` difficile riconoscere in questa descrizione dell’uomo saggio l’immagine di padre Rino, che si è rivelato un vero uomo di Dio, un povero del vangelo, dotato di grande equilibrio e sempre nella pace.

Lo ringraziamo, in modo particolare, per il servizio alla missione, per la sua disponibilità a cambiare; infatti, aveva accettato il trasferimento all’Italia anche se il cuore era ed è rimasto sempre nella sua amata e cara Colombia. 

Grazie, caro padre Rino per tutto quello che sei ed hai fatto per tutti noi! Dal cielo inviaci un po’ della tua saggezza, ma anche un po’ della tua grande bontà. Va, riposa in pace e ricordati di noi! A tutti e ad ognuno: le condoglianze più sincere a nome mio e di tutto l’istituto!

Coraggio e avanti in Domino! Padre Stefano Camerlengo, padre generale

Claudio Brualdi, Missionario della Consolata, è in Colombia dal 1981 e ha partecipato al corso dei Missionari con 50 anni di consacrazione sacerdotale e missionaria tenuta recentemente nella casa Generalizia di Roma. Ricorda per noi i primi passi di quella esperienza missionaria che ha avuto non pochi cambi imprevisti... che l’hanno sospinto rotte diverse, inaspettate, ma non meno importanti.

Sono marchigiano e sono entrato all'istituto attorno ai vent'anni, avevo studiato nel seminario diocesano di Fano. Parlando della mia vocazione vorrei parlare di due grandi momenti, due momenti che più o meno corrispondono anche al tempo: quello passato in Italia e subito dopo la l'ordinazione Sacerdotale, quando mi hanno destinato al lavoro di propagandista che era come si chiamava, allora, l’animazione missionaria e poi dopo ho lavorato anche alla formazione di giovani che volevano essere missionari.

Non avevo mai pensato in quella possibilità -il mio sogno era quello di andare in Africa- ma ho cercato di assumere positivamente quell’impegno. In Italia ho vissuto i primi 12 anni come sacerdote missionario, ero stato ordinato che non avevo ancora compiuto i 25 anni e quando sono partito per la Colombia di anni ne avevo 36.

Questa prima esperienza, che in un primo momento ho avuto difficoltà ad accettare, mi ha comunque insegnato tanto: ho imparato che bisognava veramente amare il lavoro che ci veniva dato. L’esperienza del concilio e il maggio del ’68 mi è servita per rapportarmi con i giovani. 

Poi è stata la volta della partenza... in quegli anni avevo incontrato tanti missionari della Consolata che lavoravano in Colombia, nella regione del Caquetá della quale potremmo dire che è nata con i Missionari della Consolata... loro erano lì quando questa regione si stava formando. Loro presentavano con molto entusiasmo il lavoro che stavano facendo. Così quando i superiori mi chiesero di partire, io stesso dissi che mi sarebbe piaciuto andare in Colombia, nel Caquetá, a San Vicente del Caguán. Esattamente quella fu la mia prima destinazione.

In quegli anni fra i missionari correva la voce che la missione, quella vera, era l’Africa. Eppure quando arrivai per la prima volta a San Vicente, vidi la povertà, l’isolamento dal resto del paese –bisognava attraversare vari fiumi senza ponti–, tutta una serie di peripezie per poter arrivare fin là, ero arrivato di notte e non si vedeva un granché nel paese non c'era la luce, solo qualche candela illuminava l’interno di alcune case... allora mi sono detto “ma questa è davvero missione! Più di così cosa vogliono?”.

Il giorno dopo mi ero messo a visitare la mia “missione” e avevo potuto vedere un po’ di altre cose, come per esempio che non c’era neanche e mi sono convinto che quella era missione, come no! Poi certamente con il tempo ho scoperto anche le ricchezze di questa regione: il bestiame, il legname, l’agricoltura... e anche le povertà più nascoste.

Appena arrivato mi hanno nominato subito vice parroco e rettore del collegio nazionale con studenti dalla primaria fino alle superiori. Il collegio si chiamava, e si chiama ancora, Dante Alighieri... non poteva se non essere fondato da missionari italiani. Io ero arrivato a San Vicente accompagnato dal padre Silvio Vettori, il 29 gennaio e ai primi di febbraio –senza parlare una parola di spagnolo– ero già rettore di un collegio. Questa è stato la prima difficoltà che ho incontrato lì perché non potevo comunicarmi, capivo qualche parola, però però non potevo fare un discorso. È stata una esperienza un po’ mortificante. Il primo giorno di scuola il padre Silvio mi ha presentato, c’erano tutti i professori presenti, gli studenti erano schierati ad ascoltare il loro rettore che non era nemmeno capace di parlare!

Ad ogni modo mi sono sentito bene accolto, lo stesso anche la gente sempre attenta e rispettosa. 

Ai primi di Marzo sono tornato a Bogotá perché era necessario andare al ministero per avere la nomina di cinque professori che mancavano... in quel caso si andava in aereo, con il DC3, e pensavo viaggiare più comodo, sicuro e alla svelta... se non fosse che in quel mio primo viaggio si è fuso un motore e siamo stati costretti a un atterraggio di emergenza nell’aeroporto di San Vicente da dove eravamo partiti pochi minuti prima. Ho dovuto rifare il viaggio in bus.

Quale è stata la mia sorpresa quando, arrivato al ministero per chiedere la nomina, dopo un viaggio avventuroso anche quello, il funzionario che mi stava assistendo mi ha detto candidamente: “ma padre, non abbiamo professori che vogliano andare a San Vicente del Caguán. Veda un po’ lei come può fare: prende qualche maestro di là, quel che trova, e noi dopo lo nominiamo”. E così ha dovuto fare.

Poi i maestri non erano nemmeno degli stinchi di santo, facevano combriccola con gli studenti, il fine settimana erano capaci di ubriacarsi insieme. Mi sembrava necessario avere un po’ più di etica nel lavoro. Quando sono tornati dopo la Settima Santa ho chiamato l’attenzione e loro mi hanno detto: “se voi da noi un’atteggiamento diverso, noi vogliamo essere pagati il 27 di ogni mese”. Sapevo che era una richiesta impossibile: i soldi arrivavano a Florencia alla fine del mese e il contabile doveva andare fin là per prelevarli, non potevano esserci il giorno che loro dicevano. Con un po’ di dialogo abbiamo pattuito il pagamento per il 5 del mese successivo.

Appena arrivò il giorno cinque, dopo la messa delle sei –alla stessa ora cominciava la scuola– mi avviai  al collegio e trovai tutti i ragazzi sbandati e che correvano da tutte le parti. Mi parve davvero strano, sapevo che i soldi erano arrivati e non mi sembrava ci fossero motivi per uno sciopero. Quando una segretaria, prima, e l’incaricato della disciplina, dopo, mi cercarono per dirmi che i professori volevano parlare con me ho scoperto che effettivamente la causa di tutto quello era il non avvenuto pagamento. È stato uno sciopero facile da controllare: mi è bastato consultare l’orologio, e dire che il giorno cinque era cominciato solo da sette ore e che prima di sera, tutti sarebbero stati pagati. Anche i professori, in fondo, non erano dei cattivi ragazzi... tutti sono tornati al lavoro.

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Un altro episodio simpatico è stato quando abbiamo avuto la chiesa occupata da “campesinos”, provenienti dalla zona de “El Pato”, durante otto giorni: la ragione era che l’esercito si era messo a combattere con la guerriglia da quelle parti e questa aveva a modo suo convinto i campesinos a scendere a San Vicente. Era Sabato sera e io celebravo la messa delle sette e vedevo tutto un trafficare in chiesa, gente che portava zaini. Finita la messa il padre Silvio mi dice: “hanno occupato la chiesa, per questa notte possiamo anche lasciarli lì, poi vediamo”. Il giorno dopo, domenica, celebravo anche la messa del mattino e la chiesa era pienissima... c’erano i fedeli che pregavano e gli occupanti che dormivano o si stavano appena svegliando. Avevo appena finito di distribuire la comunione ai pochi che solitamente venivano a messa la domenica mattina... e arriva gente con delle grandissime pentole, loro per distribuire la colazione a coloro che avevano passato la notte in chiesa. È stata una settimana molto agitata, esercito e polizia che volevano buttarli fuori violentemente, il padre Silvio –che conosceva bene la situazione– che insisteva nel dialogo. Poi è venuto anche il vescovo Serna, il sindaco... e con i rappresentanti dei “campesinos” si si erano accordati che la gente si sarebbe spostata ai saloni parrocchiali. A me è toccato andare a dirlo a quelli che occupavano la chiesa e in tutta risposta ho avuto un “da qui noi non ci muoviamo, è qui il posto dove ci sentiamo sicuri”. Niente da fare, il vescovo era andato via, il padre Silvio era andato via e io non sapevo che fare con tutta sta gente in chiesa. Ho chiamato il vescovo che ha messo un ultimatum... se non se ne vanno prima di giovedì allora scatta l’interdetto. Mi sono chiesto se queste persone potevano sapere che cosa fosse un interdetto. Bisognava spiegare loro che la chiesa non si poteva usare ed era prossima la festa patronale, le prime comunioni, le cresime... un pasticcio. Nel frattempo la facciata della chiesa si era popolata di striscioni e di cartelli che dicevano a chiare lettere la decisione di non muoversi. Dopo una settimana la situazione si è sbloccata e gli occupanti hanno preso la strada del paese di Puerto Rico. Abbiamo cercato di avvisare là che tenessero ben chiusa la chiesa, ma alla fine si sono stabiliti in un collegio dove sono stati almeno un mese... poi poco a poco sono tornati a casa anche perché l’esercito aveva offerto assistenza, aveva consegnato generi alimentari e le cose si sono placate.

L’anno successivo mi sono spostato a Puerto Rico per un lavoro più pastorale e meno amministrativo per il quale, fra l’altro non ero molto preparato e là sono stato altri sei anni... prima di prendere la strada per Bogotá dove ho fatto un po’ di tutto: vice superiore provinciale, formatore nel seminario teologico, parroco della parrocchia della Consolata nel quartiere del Vergel. I miei anni di missione sono stati abbastanza frammentati a causa delle responsabilità che ho avuto nel corso dei miei anni in Colombia.

Tornai a San Vicente, la mia prima parrocchia, nel 1991 quando il vescovo era Mons. Castro e il vicariato di San Vicente funzionava già da qualche anno. Ho fatti lì altri cinque anni molto belli: vicino alla gente, mi piaceva andare a visitare i villaggi, Mi trovavo molto bene.

Poi nuovamente superiore, per due mandati... e nel secondo mandato è successo quello che ha cambiato in modo sostanziale la mia vita, ho perso quasi totalmente la vista a causa di una malattia alla retina tra l’altro non adeguatamente trattata in un primo momento. Sono tornato in Italia dove successivi interventi medici mi hanno permesso di recuperare una percentuale esigua di vista ma in buona parte la situazione non era reversibile. Ricordo che quando ho mandato la lettera di in cui mi dimettevo da superiore pensavo “beh, la mia vita missionaria termina qui”. In quel momento avevo ancora 58 anni e mi sentivo un po’ depresso per quel che mi era successo e per quello che poteva succedere in futuro. Ho ritrovato animo negli incontri fatti con i missionari e le missionarie anziane, a  Alpignano e Venaria: è stato un momento di sofferenza ma ho capito che nonostante le limitazioni potevo ancora andare avanti, mi sentivo bene, lì c’erano persone che erano più limitate di me. Ho deciso di ritornare, sapevo con chiarezza che non saprei più potuto tornare nella prima linea missionaria, ma mi sono dato da fare... ho perfino fatto il superiore della casa provinciale e ho trovato la collaborazione molto bella del padre Carlos Olarte, lui stava lavorando alla rivista, che mi accompagnava per la spesa o altre attività dove fosse necessario guidare la macchina.

Dopo qualche anno sono stato spostato alla parrocchia Maria Madre delle Missioni e ormai sono un bel po’ di anni che sono là. Malgrado le limitazioni sono contento e sono sereno, anche quella la considero una bella esperienza. La messa la posso celebrare col tablet sul quale ho il messale a caratteri cubitali; posso confessare, lo faccio durante ore; fino all’anno scorso ho perfino avuto la responsabilità del gruppo giovanile e anche altri gruppi. In parrocchia ci sono 11 case di anziani che posso visitare. Ci sono tre centri di recupero di drogati... posso visitarli, qualche volta celebro la messa... le mie giornate sono assolutamente piene. Ho intenzione di continuare in questo, alla fine una vita davvero appagata, finché il Signore vorrà.

Da anni i Missionari della Consolata lavorano con la popolazione che poco a poco ha colonizzato la parte occidentale della grande foresta amazzonica, a ridosso della cordigliera delle Ande. 

Dopo qualche decennio per molti di loro le pendici scoscese delle montagne che limitavano la foresta sono ormai un ricordo lontano perché la colonizzazione si è estesa più in profondità e il diboscamento, l’allevamento estensivo del bestiame, le povere coltivazione per il sostengo quotidiano, il veleno del narcotraffico ci parlano di una vita difficile, complicata, sotto tanti punti di vista violenta, fatta di fragili equilibri che si possono spezzare in qualsiasi momento. 

Fatta eccezione degli indigeni, la maggior parte delle persone che vivono in questi territori inospitali sono arrivati qui quasi per caso, e per caso o per mancanza di altre alternative ci sono rimasti. Come fare chiesa con questi che sono i nostri cristiani? È un po’ la domanda alla quale cerca di rispondere il seguente documentario.

* Padre Angelo Casadei è parroco di Solano, al centro dell'area amazzonica del Caquetá (Colombia)

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