Nello stato brasiliano del Maranhão noi missionari possiamo testimoniare l’esperienza di una comunità che ha combattuto per ben quindici anni una lunga battaglia legale contro una impresa mineraria, la Vale, una delle più grandi del Brasile, che sfruttava un immenso giacimento di ferro e aveva costruito un complesso siderurgico quasi sulla loro porta di casa senza che nessuno fosse consultato.
Per capire gli interessi che c’erano in gioco è sufficiente dire che ogni giorno passava, sulla testa della nostra gente che viveva con 5 dollari al giorno, l’equivalente di 60 milioni di dollari di minerale.
Quando noi missionari comboniani siamo arrivati, l’impresa siderurgiche era li da più di vent’anni; la foresta era scomparsa; perfino il clima era cambiato e la stagione delle piogge si era ridotta di un mese; molte persone si ammalavano e tante sono morte. Eppure abbiamo trovato delle comunità che stavano strenuamente opponendosi a questa situazione e sono stati loro a coinvolgerci nella battaglia che stavano combattendo. Dicevano: “senza di voi non ce la facciamo, ma se creiamo una alleanza forte riusciremo a prevalere”.
Mi ha sempre impressionato tantissimo la forza morale, la resistenza e la tenacia di questa gente: è stata una lotta sproporzionata, ci sono voluti 15 anni, ma alla fine hanno costretto imprese e governo ad abbassare la testa davanti alla resistenza, l’orgoglio e la dignità di queste persone. Hanno ottenuto una nuova terra nella quale costruire le loro case; le alleanze costruite in modo parsimonioso hanno prodotto frutti; è stata costruita una città totalmente nuova, pulita e sicura.
Si è lavorato a una riparazione integrale che ha tenuto presente l’onore della memoria, niente di quel che è successo deve essere dimenticato, nessuna vittima può finire nell’oblio; questa riparazione ha permesso condizioni di vita adeguate per le generazioni che verranno e la comunità non si è mai divisa; hanno costruito le loro case e il loro futuro secondo i loro propri criteri. In un processo di riparazione integrale i poveri smettono di essere semplicemente beneficiari e diventano protagonisti.
Quella è stata una gran bella vittoria ma siamo ancora lontani dalla fine della guerra perché dietro abbiamo un sistema economico fallimentare ma che ci resistiamo a cambiare. Il modello fatto di estrazione, consumo e scarto può continuare a funzionare se si sono in tanti angoli del mondo “zone di sacrificio” come quella che vi ho descritto. I danni ambientali sono irreversibili e l’estrattivismo non offre una seconde opportunità: tutto è irrimediabilmente bruciato e distrutto. Le regioni più ricche in beni comuni (che le imprese chiamano risorse) sono anche le regioni più tormentate dalla guerra, dalla violenza, dall’impoverimento e anche dalla malattia. In questa contraddizione mondiale c’è di mezzo il sistema finanziario che è quello che alimenta il tutto: l’impresa Vale per esempio non porta il suo minerale direttamente in Cina, dove è consumato; prima lo vende in Svizzera, dove paga meno tasse che in Brasile, con un risparmio grandissimo, un mancato e sostanzioso ingresso per il popolo brasiliano.
Oggi l’Amazzonia è quasi arrivata a un punto di non ritorno. Gli scienziati calcolano che quando il disboscamento arriverà al 25% del territorio si innescherà un processo di savanizzazione; il bosco tropicale non sarà più in grado di rigenerarsi con quei cicli ecologici complessi che hanno fatto di questa regione la più biodiversa del pianeta, una ricchezza che, tra l’altro, conosciamo ancora abbastanza poco.
Per questo il modello estrattivista così come la conosciamo non ha più senso, non è più sostenibile. Il messaggio di Papa Francesco nella Laudato si’, nel sinodo dell’Amazzonia, nella Fratelli Tutti è stato per noi una benedizione. Dietro questi interventi magistrali c’è una grande intuizione spirituale: cominciamo a capire che non siamo il centro della storia, che siamo stati creati assieme e quindi siamo davvero tutti fratelli e sorelle in un senso particolarmente universale. Grazie a questo deve cambiare tutto il nostro modo di pensare, di costruire le relazioni politiche, anche di vivere la nostra fede.
Papa Francesco ci sta animando con un progetto molto bello ed ambizioso: l’economia di Francesco. Noi in Brasile l’abbiamo chiamata l’economia di Francesco e Chiara perché questo sistema economico maschilista, patriarcale e coloniale, del quale siamo tutti vittime, ha proprio bisogno di una dimensione femminile per ripensarsi. L’economia femminile è l’economia circolare, quella dei piccoli spazi e delle relazioni, quella delle cooperative, quella che crede nei piccoli e nella loro capacità di crescere.
Nella nostra riflessione in Brasile abbiamo individuato tre grandi modelli di economia: il primo è il modello del saccheggio esplicito e del sistema neo liberale non controllato. Il secondo è il modello della ridistribuzione e dello sviluppo; era quello che lo stesso Lula aveva promosso nel suo precedente governo, il punto debole di questo modello sta nel fatto che è sempre centrato nello sfruttamento intensivo delle risorse, la ricchezza ha la stessa origine ma viene poi diversamente distribuita e a lungo termine non ha futuro. C’è allora il terzo modello che in qualche modo ci indica il magistero del papa Francesco; quando Lui invita giovani, indigeni e movimenti popolari sta indicando questo cammino: è quello dei popoli locali, delle comunità, del femminile, dei popoli indigeni, di chi ha cura dei territori.
Quando venne eletto in Brasile Bolsonaro, inizialmente tutti pensammo che avevamo a che fare con un incompetente. In realtà la cosa era molto più grave: lui stava portando avanti un progetto ben studiato che prevedeva la distruzione dei territori amazzonici e l’eliminazione culturale e forse anche fisica di tutte le minoranze etniche che difendono e sanno vivere in armonia con la selva.
In Bolsonaro c’era condensata tutta l’incapacità di pensare un mondo di convivenza e invece tutto è al servizio del capitale, dei poteri forti della finanza, del latifondo, delle monocolture. Un progetto suicida che si sostiene a colpi di interessi loschi e miopi che pensano al guadagno di oggi senza nessuna proiezione di futuro anche minimamente sostenibile: mai si pensa alle nuove generazioni.
È tutto il contrario di quello che fanno i popoli originari. Gli indigeni del nord America, quando devono prendere decisioni di carattere ambientale importanti cercano sempre di pensare alle conseguenze fino alla settima generazione. I nostri popoli dell’Amazzonia ci insegnano come costruire relazioni non distruttive con l’ambiente amazzonico e lo fanno a partire dalle loro tecnologie, dai loro miti, dalla loro secolare convivenza con la natura.
Questo modello ha profonde conseguenza anche per la nostra fede: l’eucaristia è il sacramento della comunità solidale, il Padre Nostro la preghiera che mette assieme il Padre e il Pane che sono di tutti.
* Dario Bossi è il superiore dei missionari Comboniani in Brasile
Il 28 novembre 2021 rimarrà sempre una data significativa e storica per l'arcidiocesi di Feira de Santana, nello stato di Bahia (Brasile) e per i Missionari della Consolata: in quel giorno fu creata la parrocchia di São Roque, la prima parrocchia "quilombola" del Brasile.
Nel quilombo Matinha dos Pretos, fedeli di varie parrocchie si sono riuniti per assistere alla creazione ufficiale della parrocchia di São Roque, la prima parrocchia con sede in un quilombo e con un'attenzione particolare per i suoi abitanti e le loro battaglie. Per questo motivo la nuova parrocchia si chiama già “Quilombola”.
Questa presenza è una manifestazione dell'impegno della Chiesa nei confronti delle popolazioni emarginate e oppresse. Il Dio cristiano, che la Chiesa proclama, è un Dio che vede, non un Dio cieco; un Dio che ascolta, non un Dio sordo e, come dice il libro dell'Esodo, ascolta il grido del suo popolo e scende per liberarlo (cfr. Esodo 3,7-8). Per questo motivo la missione della Chiesa, discepola di un Dio che si preoccupa in modo particolare della vita minacciata, avrà un'attenzione speciale per tutti gli oppressi.
Chiesa parrocchiale della parrocchia di Quilombola São Roque da Matinha. Foto: Jaime C. Patias
In Brasile la parola "Quilombo" non è una parola che si sente con frequenza, forse per disinteresse o perché dietro c'è un gruppo oppresso che, il più delle volte se non tutte, non attira l'attenzione degli altri. Eppure la storia del quilombo è ormai più che centenaria: affonda le sue origini nell'epoca della schiavitù e continua a esistere ancora oggi. Evidentemente i quilombo storici del 1700 non sono gli stessi di oggi, ma un elemento che si conserva in tutta l’esistenza di queste comunità è la lotta.
In origine erano “la dimora che gli schiavi fuggitivi cercavano in luoghi disabitati e di difficile accesso con il fine di liberarsi dalle condizioni disumane in cui vivevano”. In quei luoghi, dove riuscivano ad evadere ricerca e persecuzione, potevano diventare forti, vivere liberi e indipendenti, e spesso costruivano comunità umane fondate sulle antiche culture originarie africane liberandosi così da ogni forma di oppressione.
Oggi i quilombo sono ancora luoghi simbolici per la popolazione nera del Brasile e incarnano i lunghi anni di resistenza contro l’oppressione e la discriminazione. Anche se, evidentemente, i quilombo di oggi non sono costituiti da "fuggitivi", in molti di essi le situazioni precarie che si mantengono –sono comuni le carenze di servizi come sanitari, educativi e di trasporto– parlano ancora di schiavitù moderna e di situazioni di inferiorità contro le quali è necessario rimanere vigili.
La schiavitù è un’istituzione che appartiene alla storia del Brasile, ma in realtà le condizioni di vita della popolazione afroamericana ci ricorda che queste persone continuano a soffrire le conseguenze della schiavitù e continuano a essere molto spesso un popolo senza diritti.
Il parroco, padre Luiz Antônio de Brito, con il decreto di creazione della prima parrocchia di Quilombola in Brasile. Foto: Parrocchia di São Roque da Matinha
La Chiesa, che il Concilio Vaticano II considera il sacramento universale della salvezza, con la sua presenza in questa comunità vuole aiutare a ricordare che questa salvezza non è semplicemente una "salvezza dell'anima", una cosa per la vita eterna, ma risponde alle esigenze dell’uomo nel suo complesso e nella sua concretezza storica.
Fu Gesù stesso che, cominciando il suo ministero pubblico, affermò che l'avvento del Regno era una buona notizia che aveva come destinatari principali i poveri. “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio” (Lc 4,17-19).
In questo quilombo, come chiesa e come Missionari della Consolata, vogliamo rendere presente il Regno di Dio, non con discorsi, ma con l'impegno nei confronti dei nostri fratelli. La luce che ci viene da Cristo liberatore ci aiuta a costruire il suo progetto: un Regno di uguaglianza, fraternità, pace e amore. Tutto questo, che sta alla basa della nostra missione, si traduce quindi in un umile accompagnamento della lotta per i propri diritti del popolo “Quilombola”.
* Il diacono Wilson Gervace Mtali, IMC, originario della Tanzania, ha studiato teologia a San Paolo e ha svolto attività pastorale nella parrocchia di São Roque da Matinha, a Bahia.
Ho conosciuto lo Stato brasiliano del Roraima grazie ai Missionari della Consolata che hanno inviato due laici ad accompagnare la loro “Équipe Itinerante”, impegnata da tempo nel servizio ai migranti del Venezuela con una attenzione speciale alla popolazione indigena. Questa “fortuna” è toccata a una psicologa e a me che sono comunicatore sociale della Pastorale Afro di Cali. Per mezzo della nostra professionalità vogliamo aiutare a dare un servizio più completo che aiuti a difendere i diritti di questa popolazione vulnerabile in termini di salute, istruzione, alloggio, occupazione e accesso all'informazione.
Ci siamo impegnati soprattutto con alcune comunità Warao che hanno fatto parte di questa grande ondata migratoria ma che hanno anche cercato di lottare per avere spazi propri per così resistere alla negazione dei loro diritti culturali.
Nel mio caso per esempio la società del Roraima e altre in situazioni simili hanno bisogno di iniziative di comunicazione per aiutare la popolazione locale a comprendere la situazione di queste popolazioni sorelle e allo stesso tempo ogni migrante deve essere reso più consapevole dell'offerta delle istituzioni, delle chiese e delle organizzazioni sociali.
Negli anni scorsi in Brasile i migranti venezuelani sono arrivati a migliaia e il governo di Jair Bolsonaro, fermo oppositore di tutta l’organizzazione indigena brasiliana, ha affidato ai militari l’incarico di organizzare l’accoglienza di queste persone: molte famiglie sono state collocate in campi o grandi aree, chimati rifugi, dove sono state assistite e controllate con regole severe; molti altri invece sono stati lasciati per strada in condizioni precarie; tutti condividono serie difficoltà di trasporto e accesso a quasi tutti i servizi indispensabili.
Non dobbiamo dimenticare che gli effetti economici della migrazione sono importanti e ambigui al tempo: molto spesso il migrante è visto come un competitore ma allo stesso tempo si dimentica che la maggior parte della popolazione del Roraima ha avuto il beneficio di una manodopera più economica, come per esempio nel settore della costruzione, dove molti migranti sono pagati la metà o incluso meno di quanto viene pagato un lavoratore brasiliano. Eppure molte persone, spesso completamente ignare della realtà di questi benefici, sfruttano e persino umiliano profondamente questa popolazione.
Un giovane indigeni Macuxi registra un incontro con i Missionari nella sua comunità.
Le sfide dell'Amazzonia
È grande la sfida che le regioni dell'Amazzonia e dell'Orinoco propongono alle società che vivono in questi territori. La concentrazione di terre, l'estrazione mineraria incontrollata e persino aggressiva dal punto di vista ambientale e il duro razzismo, soprattutto nei confronti delle popolazioni indigene, regnano sovrani. Si favorisce un capitalismo duro e ingannevole, che considera sacra la proprietà della terra e delle imprese, ma non quella dei popoli indigeni. A Boa Vista, la capitale del Roraima, i mezzi di comunicazione sono poveri e scarsi; i giornalisti locali preferiscono collaborare con organizzazioni esterne anche perché, dopo la pandemia, non è sopravvissuto nessun giornale stampato e i servizi di internet, quando ci sono, sono in uno stato deplorevole.
Probabilmente è arrivato il momento di unificare gli sforzi di tutti perché nella grande conca amazzonica i problemi sono quasi ovunque gli stessi. La chiesa cattolica, per mezzo della REPAM (Rete Ecclesiale Panamazonica) sta guardando più seriamente e da vicino ai problemi di questi popoli ma certamente le più di mille popolazioni indigene del Brasile avranno maggiori possibilità di successo se riusciranno a collegarsi anche con altre esperienze di lotta e organizzazione, come quelle del popolo afro così numeroso nella vasta geografia del subcontinente americano.
Solo se costruiamo una lotta comune, con una voce unita e fraterna, saremo in grado di contrastare la mania suicida che distrugge, come fuoco nella giungla, la ricchezza biologica e culturale di questo polmone verde del mondo. Quando vengono attaccate impunemente culture che sanno usare piante e animali in modi che noi non possiamo nemmeno immaginare, è il momento di lavorare assieme: tutti noi, popoli marginali di questo continente, vogliamo presentare a Dio una terra libera, prospera e piena di frutti di felicità.
* Rodrigo Alonso Daza Jiménez, del gruppo di comunicazione della Pastorale Afro Cali, lavora con i Missionari della Consolata che nello stato del Roraima assistono i migranti indigeni del Venezuela. Articolo pubblicato su “La Voz Católica” di Cali (Colombia).
Bambini migranti venezuelani alla mensa dei poveri delle Suore della Carità a Boa Vista, Roraima, Brasile.
La Madonna di Jardim Consolata di São Paulo ha una storia del tutto particolare che si intreccia con le vicende della famiglia dei Missionari e delle Missionarie della Consolata in ben tre continenti: Europa, Africa e America. Lei non smette di proteggere e benedire comunità e famiglie.
Quando si arriva a “Jardim Consolata” (Giardino Consolata) a São Paulo (Brasile), è facile assaporare una sensazione di pace, armonia, coraggio che ha accompagnato la vita delle Missionarie della Consolata presenti in questa zona nord della megalopoli di São Paulo fin dal 1954.
Questa comunità è stata sede del noviziato per le giovani aspiranti alla vita religiosa e missionaria del Brasile. Oggi è una casa di sorelle anziane, missionarie sacramentine -come loro stesse si definiscono- e quindi dedite alla preghiera e alla contemplazione.
Entrando nella cappella, sulla sinistra, c’è una bellissima immagine della Madonna Consolata, un dipinto ad olio antico. Ha una storia sorprendente, “quasi epica”, come disse suor Elsa Vergine (1904-2004), una delle protagoniste delle vicende legate a questo quadro e chi mi raccontò quando seppe che ero prossima a partire per le missioni dell’Etiopia nell’anno 2021.
Siamo ad Addis Abeba, nel maggio del 1942, tra il 10 e il 15 maggio. È uno dei tempi più dolorosi per i Missionari e le Missionarie della Consolata: la guerra italo-etiopica. L’icona della Consolata è il regalo del dottor Edoardo Borra per la nuova cappella dell’Ospedale Principessa del Piemonte di Addis Abeba. L’espressione materna della Consolata è molto particolare e, nei momenti più tribolati della guerra, diceva suor Elsa: “era il nostro rifugio e conforto”.
Tutte le suore (erano 88) e anche tutti i Missionari della Consolata si trovavano nel campo di prigionia, eccetto padre Lorenzo Bessone, suor Virgilia Sisti, suor Teresia Brena e suor Elsa Vergine, che prestavano i loro servizi in ospedale. Il gruppo nutriva la speranza che l’imperatore etiope Hailé Selàssié riuscisse a calmare gli animi degli inglesi e continuare il loro servizio nell’ospedale.
“Purtroppo – racconta suor Elsa – giunse l’ordine di chiudere immediatamente la struttura e riconsegnare le chiavi. Al mattino, molto presto, vennero a prendere suor Virgilia e suor Teresia. Io rimasi sola, aspettando la persona che si sarebbe incaricata delle chiavi. Entrai nella cappella, alzai lo sguardo alla Consolata e, d’improvviso, sentii nel cuore che la Madonna desiderava partire con me. Non persi tempo: salii sull’altare, arriotolai il dipinto che era facile da togliere e lo misi nello stesso tubo con il quale era arrivato in Etiopia. E così la Consolata era pronta per partire con me”.
Fino al villaggio di Harar non ci furono problemi, ma nell’ultimo controllo minuzioso dei bagagli le cose si complicarono: “Mentre continuavo a stringere il tubo con l’icona della Consolata e il poco di denaro che ci restava -prosegue il racconto-, da lontano mi fecero cenno di riconsegnarlo. Ero afflitta, allora chiamai il Padre Bessone perché spiegasse tutto in inglese. Non avemmo successo. L’icona rimase a Mandera, sede della colonia inglese”.
Bisognerà aspettare fino al 1953 quando, dopo la guerra ormai da qualche anno, p. Bessone si mette in viaggio verso il Meru (Kenya). Arrivando al porto di Mogadiscio, in Somalia, sapendo che la nave sarebbe rimasta attraccata alcuni giorni e sapendo che gli inglesi si trovavano ancora lì, scese dalla nave e andò a visitarli. Entrando in una sala, vide il tubo con l’icona della Consolata. Lo chiese e lo ottenne. Ricordando le mie lacrime quando dovetti lasciarla, lo mandò alla Casa del Noviziato, Jardim Consolata dove quell’anno cominciavo il mio percorso come Missionaria della Consolata. Il quadro rimase in mano degli inglesi per quasi dieci anni: dal 1942 al 1953”.
Tra le linee di questa breve storia missionaria leggiamo soprattutto la tenerezza di Dio che continua a consolare il suo popolo, per mezzo di questa Consolata nel Giardino. Il suo pellegrinaggio è un fatto missionario senza misura, che abbraccia popoli, Paesi e continenti.
Chi cammina nel “Jardim Consolata” o contempla la “Consolata del Jardim” fa memoria dell’imperativo di Dio profetizzato da Isaia: “Consolate, consolate, consolate il mio popolo!” (Is. 40, 1ss). Anche in tempo di pandemia queste parole si tradussero in gesti semplici: attenzione, vicinanza, tenerezza, incoraggiamento, umiltà, solidarietà.
L’icona della Consolata del Giardino, con i suoi colori, espressioni, storia, bellezza e prodezze continua a mostrarci che il dolore ci focalizza nel momento, ma la consolazione apre ad orizzonti infiniti. È il segreto dei santi. È il segreto del Beato Giuseppe Allamano, che si presentava come il tesoriere della Consolata e continua, per mezzo della sua famiglia missionaria, rivelando la consolazione, frutto del Si di Maria di Nazareth!
*Suor Melania Lessa è Missionaria della Consolata brasiliana. Oggi risiede in Jardim Consolata ma ha condiviso la vita con il popolo Oromo in Etiopia. Notizia pubblicata da www.terraemissione.it
"Un giorno l'ho sognato e oggi posso dire che si sta realizzando". Jennifer Katherine Palomeque, una missionaria laica della Consolata dalla Colombia, condivide la missione con i migranti venezuelani in Brasile.
Nel 2017, quando ho incontrato i Missionari della Consolata al Congresso della Consolazione e della Missione nella città di Bogotà, la prima cosa che ha attirato la mia attenzione è stato sentire parlare della missione ad gentes e vedere persone di altre parti del mondo che non avrei mai pensato di potere incontrare. È stato anche molto bello sapere che alcuni di quelli che partecipavano alla riunione, come buoni camminatori di Gesù, avevano già svolto la loro missione in diverse geografie. Lì è iniziato il mio sogno di andare oltre la mia realtà per condividere l’esperienza di Gesù con persone diverse da me e dalla mia gente e appartenenti a culture diverse.
Tutto è iniziato con una richiesta, fatta ai superiori della Consolata in una delle loro visite a Cali, di impegnarmi in uno spazio missionario ad gentes. Era la visita canonica del 2021. Loro ci avevano raccontato del lavoro che i missionari stavano facendo e avevano anche parlato del sostegno che noi potevamo offrire contando con la nostra professione, gioventù e spirito missionario.
Dopo alcuni mesi il processo per entrare a far parte del gruppo dei Laici Missionari della Consolata era completo ma poi il Covid19 ha rallentato tutto: nel gennaio 2022, un'ondata molto forte di casi è arrivata in Colombia e Brasile quando tutto era quasi pronto per andare in missione.
Ho dovuto pazientare almeno due mesi finché le cose si sono poco a poco risolte ed è arrivato il grande giorno di lasciare la mia casa, la mia terra, il mio posto sicuro e andare a vivere una nuova avventura missionaria accompagnata da persone incredibili, ma soprattutto in compagnia di Gesù.
“Seguitemi e vi farò pescatori di uomini” (Mt 4,19-20) e credo che sia esattamente quello che ho fatto: ho lasciato le mie reti e ho iniziato a seguirlo in questa nuova avventura. In realtà non sono mancati momenti di panico e paura ma un amico molto caro mi ha detto: "non ti preoccupare, colui che ti ha mandato ti accompagnerà nella tua missione" e queste parole mi hanno riempito di forza e incoraggiamento in questo viaggio.
Ogni volta sento sempre più reale ciò che mi è stato detto tante volte nell'animazione: è una gioia indicibile mettere la propria vocazione al servizio della missione anche se non è facile: vorresti fare molto ma la situazione, la realtà che trovi e i reali bisogni della gente non sempre lo permettono. Questo, in ogni caso, non cessa di essere un motivo per continuare a lavorare e se ho imparato qualcosa da questa ancora cortissima esperienza di missione è che essere fonte di consolazione è molto spesso o quasi sempre anche solo presenza.
Le donne migranti indigene Warao a Boa Vista realizzano manufatti da vendere.
Oggi mi sento molto fortunata di poter dire che sono stata capace di attraversare i miei confini per andare in un luogo che non è mai stato nei miei piani: sono in Brasile, nella città di Boa Vista (nello stato del Roraima) e sto lavorando con migranti venezuelani.
Quelli che arrivano sono sempre di più: provengono da realtà diverse ma hanno tutti lo stesso desiderio: andare avanti e cercare un futuro migliore per loro stessi, i loro figli e le loro famiglie.
Questa avventura è appena iniziata, ho ancora a che fare con una lingua nuova e una cultura spesso diversa dalla mia; è ancora molto il cammino che ho davanti ma per adesso cammino con Gesù e spero che tutto vada secondo i suoi piani.
* Jennifer Katherine Palomeque Filigrana, missionaria laica colombiana della Consolata in Brasile.