“Ciò che è ammirato nell'Allamano è l'equilibrio, la forza unita alla dolcezza, la proposta esigente con la comprensione dell'individuo. Fermo nei principi, era umanissimo nell'applicarli. Rigoroso nell'osservanza delle regole, viste come via tracciata da Dio per la propria santificazione e formazione, pronto a sospenderne l'applicazione quando la situazione lo richiedeva”. Scrive il P. Gottardo Pasqualetti sul Beato Allamano. Leggi l'articolo completo.

“CUORE DI PADRE”

Padre Gottardo Pasqualetti

I caratteri forti e attivi suscitano ammirazione. Possono anche creare difficoltà, se non vi è in essi una accentuata componente di umanità, che fa loro comprendere le inevitabili debolezze, le diversità di carattere, le stanchezze e i condizionamenti della vita. Il dinamismo può esprimersi in comportamenti duri e intransigenti nei riguardi degli altri.

Ciò che è ammirato nell'Allamano è l'equilibrio, la forza unita alla dolcezza, la proposta esigente con la comprensione dell'individuo. Fermo nei principi, era umanissimo nell'applicarli. Rigoroso nell'osservanza delle regole, viste come via tracciata da Dio per la propria santificazione e formazione, pronto a sospenderne l'applicazione quando la situazione lo richiedeva. Duro quando parlava dell'attaccamento ai parenti, era il primo ad interessarsi delle condizioni dei familiari dei missionari, a soccorrerli nelle loro necessità, a inviare a trovarli quando ne avevano bisogno. Il suo metodo era «rigorosamente paterno, nel senso che pur esigendo l'esatta osservanza delle regole, aveva un governo paterno... Data la sua oculatezza e la sua posizione, sapeva pesare le persone; scopriva ed avvisava anche dei difetti, ma senza mai venir meno ai principi della carità. Anche quando aveva motivo di trovare a ridire di qualche persona, terminava il suo discorso con un sorriso, dimostrando che non aveva malanimo con nessuno, in modo che la sua conversazione lasciava il cuore perfettamente tranquillo» (E. Bosia). Così, quando doveva richiamare al dovere «sembrava un po’ rigido, ma congedava sempre con tratto gentile e caritatevole, così che lasciava sempre una impressione buona» (L. Coccolo).

Perciò, chi ne rievoca la figura ne mette soprattutto in risalto la paternità: «cuore amoroso, pieno di santa premura per i suoi figli»; «vero padre, tutto cuore pei suoi figli, che solo si dice felice quando li vede al sicuro»; «padre benevolo, cui si sentiva portati ad aprire completamente l'anima in piena e devota confidenza»; «era il padre. Ufficio che nessun altro, forse, con altrettanta bontà ha esercitato» 1. Fin dai primi anni di sacerdozio, quando fu Direttore spirituale in seminario, i giovani trovarono in lui «la buona mamma dei chierici», «l’angelo consolatore», colui «che teneva nelle sue mani i cuori, che son sempre la parte più delicata e arcana degli animi giovanili», Più che Superiore si dimostrava padre e tutto riusciva ad ottenere con la persuasione, con l'affabilità e la dolcezza. Secondo il sistema piuttosto rigido dei seminari del tempo, non lasciava passare nessuna trasgressione. Ma i giovani di allora dicevano di trattenersi anche dal commettere «quelle innocenti sciocchezze proprie della gioventù per non recargli dispiacere. Tanto era il rispetto e l'amore che avevano per il loro educatore. E pure alcuni che furono dimessi dal seminario, ebbero a dire: «ci ha licenziati in modo tale che ne siamo commossi e l'abbiamo ringraziato»2.

Così sempre. «A tempo opportuno sapeva fare anche la correzione severa, ma la terminava sempre con la parola benevola, tutta sua, che consolava» (G. Nepote).

A P. Borda Bossana racconta: «Il Teologo Comba, sacerdote pio e buono, ma assai eccentrico, venne rimproverato dal Servo di Dio per non so quale motivo. Nel riferire a me, che gli ero amico, la riprensione di cui era stato oggetto, non solo dimostrò di non esserne offeso, ma mi disse accennando al Servo di Dio: credo che abbiamo in mezzo a noi un vero santo! Quale delicatezza e quanta carità nelle sue riprensioni».

Ma oltre al comportamento, il forte senso di paternità dell'Allamano ha un altro segreto: l'interessamento di cui ognuno si sentiva oggetto. Di lui si ricordano spesso le grandi imprese, le iniziative, ma si dovrebbe soprattutto dire che la sua prima preoccupazione furono le persone. Le opere sbocciarono quasi come riflesso del suo interessamento per il bene delle persone. Entrato giovanissimo al santuario della Consolata, trovò muri cadenti, disordine e disorganizzazione. Ma il problema più spinoso proveniva dall'ambiente umano. Oltre a quattro anziani religiosi che officiavano come potevano il santuario, vi abitavano forzatamente dei preti anziani che non avevano altri mezzi di sussistenza. Erano alberi vecchi e stanchi —disse l'Allamano — che non potevano più essere raddrizzati, e che bisognava accontentarsi di tenerli come erano, con tutte le loro stranezze. Inoltre, vi aveva trovato posto un pensionato per chierici e giovani preti universitari, appartenenti a diverse Congregazioni religiose. Tutte queste persone facevano vita in comune. È comprensibile che vi regnasse un «sordo malumore». Il predecessore dell'Allamano dovette dare le dimissioni. Infatti, «posto a capo di un grande santuario e di un ospizio, tra un manipolo di più anziani e più destri di lui e un'accolta di preti che l'età e i malanni rendevano al governo malagevoli, si trovava veramente male; non era contento e non accontentava» (C. De Maria).

L'Allamano si curò anzitutto di questa situazione. «Cominciò a migliorare il vitto, che era assai scadente; circondò di ogni attenzione tanto i religiosi addetti al santuario quanto i sacerdoti vecchi che erano all'ospizio» (N. Baravalle). Riguardo a questi, confidava a L. Sales di non aver messo alcuna regola, anzi di aver tolto quelle che c'erano, limitandole a due: puntualità ai pasti e riunione serale per un po' di lettura spirituale. E quando quegli anziani non si facevano vedere, andava a trovarli in camera, portava loro il cibo, riordinava la stanza, «facendo da infermiere e un po' tutto». Trovò una sistemazione decorosa per i religiosi addetti al santuario, anch'essi anziani e malaticci, facendo attribuire loro una pensione mensile vita natural durante. Pensò quindi alla riapertura del Convitto per giovani sacerdoti. Anche questo era causa di tensioni e malumori. Il provvedimento dell'Arcivescovo aveva suscitato divisioni e polemiche. I convittori avevano dovuto ritornare in seminario e andavano a scuola dall'Arcivescovo. E scalpitavano. Per sanare questa situazione e immettere una ventata di aria fresca nel servizio del santuario della Consolata, l'Allamano si assunse il compito di far rivivere il Convitto secondo lo spirito del Cafasso. Non si limitò a risuscitare l'istituzione e a renderla rispondente alle nuove esigenze della formazione sacerdotale, convinto che nulla si dovesse omettere di quanto può rendere più efficace il ministero. Si preoccupò soprattutto dei singoli individui. «Conosceva tutti i convittori, li studiava attentamente nel carattere e nelle attitudini. Li correggeva con carità e con dolcezza, tenendo sempre fermo per il dovere... Per chi era ammalato, e per chi si trovava in condizioni disagiate, egli era veramente una tenera madre ed un padre provvidente» (N. Baravalle).

«Trattava i convittori come un buon padre, interessandosi delle loro condizioni economiche, e riducendo la già tenue retta di pensione, e anche concedendone, a parecchi una totale dispensa. In casi pietosi sovveniva anche le stesse famiglie dei convittori» (F. Perlo). «Si interessava anche delle minime richieste; ascoltava tutte le difficoltà; era tutto per l'individuo con cui trattava; non dimostrava noia alcuna, non dimostrava preoccupazione di aver altro da fare, né paura di perder tempo, sembrava non avesse altro pensiero. Quando il visitatore gli aveva esposto il motivo della visita, egli rispondeva, dava il consiglio, la direzione, ma con un fare così paterno e persuasivo che si usciva dal colloquio con, la persuasione di essere stati compresi, e che la via tracciata era proprio quella da seguire, perché voluta da Dio, che aveva parlato per bocca del suo ministro» (G. Cappella).

I convittori, inseriti nel ministero sacerdotale, ritornavano ancora da lui, specialmente nei momenti di difficoltà. Ed egli continuava a seguirli, perché li aveva avuti con sé, e perché ebbe cuore di padre per i sacerdoti, che trattava con grande rispetto e carità. Aiutava materialmente quelli bisognosi, perché potessero vivere in modo dignitoso, li mandava dal suo sarto, pagava loro la retta, perché potessero partecipare agli esercizi, spirituali: «questi sono i primi poveri», diceva, ed erano da lui preferiti nella carità spirituale e materiale, perché più vicini al Signore. Aiutava gli scrupolosi, prendeva le difese di quelli ingiustamente calunniati. Sosteneva negli abbattimenti. Aveva cura dei malati, senza badare a spese. Attesta il Cappella: «Nel 1917 dovetti pormi a letto colpito da infermità, che il Dott. Ariotti diagnosticò polmonite. Disse che occorreva riscaldare la camera, e assicurare una assistenza continua. Tale relazione venne portata al Rettore dall'economo, il quale si permise di osservare che una polmonite poteva esigere un mese, ed anche più di degenza, con una spesa non indifferente per il riscaldamento e l'assistenza; aggiunse, come suggerimento: "perché non potrebbe essere mandato al Cottolengo? Là sarebbe assistito e curato". "No, no", rispose il Servo di Dio non dissimulando il suo stupore per tale proposta. "L'ammalato, da venti e più anni lavora al Santuario senza mai misurare i giorni e le ore. E lei avrebbe il coraggio di fargli domandare la carità al Cottolengo, per risparmiare qualche migliaio di lire? No, no, si provveda quanto occorre; si riscaldi la stanza, si chiami un infermiere di giorno ed una suora di notte per l'assistenza, e se anche il dottore chiedesse un consulto con qualche professore, lo si faccia venire subito; procurate che nulla manchi di quanto possa contribuire a superare questa malattia, onde questo sacerdote possa ritornare a riprendere presto il suo ufficio nel santuario". Tutti i giorni, e anche più volte al giorno, il Servo di Dio veniva a confortarmi durante la mia degenza a letto, che durò oltre un mese, finché, guarito, potei tornare alle mie consuete occupazioni».

Non trascurò neppure i Superiori, spesso i più soli nelle loro infermità. Attesta L. Sales: «Mi raccontava che Mons. Gastaldi, negli ultimi anni, per il male di cuore di cui soffriva, andava soggetto a crisi di malinconia, ed egli ciò sapendo, con una scusa o con un'altra si portava da lui per tenergli compagnia e confortarlo».

Uguale attenzione ebbe per il can. Soldati, Rettore del Seminario, quando fu esonerato dalla sua carica a causa di malelingue. Ne fu umiliato da morirne di crepacuore. Non trovava altra consolazione che andare «sovente alla Consolata per lenire in sante conversazioni il suo dolore e ricevere una buona parola» (E. Bosia). L'Allamano lo assistette con grande carità anche nell'infermità e ne raccolse l'ultimo respiro. Così fece per il Robilant e per altri.

Una cura particolare aveva per i sacerdoti in difficoltà vocazionali: erano da lui cercati o a lui mandati dai loro vescovi, per richiamarli al bene, ravvivando la fiammella fumigante che rischiava di spegnersi. «Durante la sua permanenza a Rivoli era continuamente visitato dai sacerdoti, i quali ricorrevano a lui per direzione, per consiglio e per conforto. Alcuni si trattenevano a lungo con lui, altri ne vidi uscire in lacrime. Egli stesso diceva che ne aveva sistemati e salvati parecchi, interessandosi ai loro casi, e rimettendoli sulla buona strada» (Sr. Emerenziana).

Così, durante gli esercizi a Sant'Ignazio, «nella sua stanza c'era sempre qualcuno, sì da dover attendere per potergli parlare. Ed è lì, nel segreto di quella camera, a tu per tu con le anime bisognose, che il Servo di Dio operò il maggior bene, noto solo a Dio» (L. Sales). Tra gli esercitandi attiravano le sue speciali e più premurose cure «i sacerdoti inviati dai propri Superiori a fare il ritiro obbligatorio. Sapeva comprenderli e confortarli; li assisteva paternamente e faceva sì che ritornassero dal ritiro del tutto migliorati nello spirito e nei propositi» (G. Cappella).

Non dimenticava coloro che avevano abbandonato il ministero, perché, diceva, «bisogna distinguere il carattere sacerdotale dalle miserie umane», e «cercava di far giungere loro una buona parola. E se venivano a lui, li riceveva con cuore di padre» (L. Sales).

La stessa fondazione dell'Istituto missionario ha le sue premesse nel desiderio di provvedere al bene delle persone. Lo si ricava dai numerosi documenti che dovette redigere in proposito. La spinta a quest'impresa egli afferma di averla avuta dalla constatazione che molte vocazioni alle missioni non si realizzavano per la mancanza di una istituzione idonea. Ve n'erano certamente. Ma i giovani non le trovavano rispondenti ai loro sentimenti, o troppo estranee alla loro origine. Oppure, come egli stesso aveva riscontrato in diversi casi, il bene spirituale delle persone veniva seriamente compromesso «per mancanza di una mano paterna che li dirigesse», o non si garantiva l'assistenza in caso di malattia, anzianità, impossibilità di continuare il lavoro missionario. Perciò, l'Allamano pensa a una schiera di missionari che operino soltanto per amore delle anime, «tutti uniti in un determinato territorio, in dipendenza di superiori propri, ed avere così quel vicendevole incoraggiamento ed aiuto, che mancano a persone disperse in diversi luoghi e sotto estranei superiori».

Quando potrà varare il suo progetto, una delle sue caratteristiche e insieme la maggiore preoccupazione del Fondatore sarà che risponda allo stile di una famiglia. È necessario che chi dà addio alla propria casa e alla propria patria trovi una nuova famiglia, in cui tutti si amano, si accolgono e si aiutano come fratelli. Una famiglia in cui tutto deve diventare comune, in cui, soprattutto, ci sia l'attenzione all'altro, alle sue gioie e sofferenze, come alle sue necessità e fatiche. Infatti, questa famiglia ha un padre, che «si preoccupava delle minime necessità, tanto materiali come spirituali di ognuno. Si interessava poi grandemente dei parenti dei membri dell'Istituto, specialmente delle loro mamme. E quando avvertiva qualche necessità, senza esserne pregato, sovveniva con larga generosità» (G. Barlassina). Quando la famiglia divenne più grande, seppe ugualmente seguire ognuno personalmente, per mezzo della corrispondenza epistolare.

Si interessava dei singoli missionari anche quando avevano raggiunto il luogo del loro lavoro. Si informava dei loro successi, delle necessità, delle stanchezze. Li seguiva attraverso i loro diari, si preoccupava che nulla mancasse loro di quanto era possibile provvedere. Era sempre lui a lenire la piaga quando nella famiglia del missionario succedeva qualche disgrazia.

Nelle direttive date alla giovane superiora, Sr. Margherita De Maria, è riflesso il suo spirito di padre: «abbi grande pazienza, incoraggiando, consolando, sempre correggendo maternamente... Far coraggio a tutte... Raccomanda sempre grande carità, longanimità... Sostenere, animare, correggere, portarle all'altezza della loro missione». Saper pazientare, compatire, richiamare con dolcezza, curare il contatto personale, proporre ideali per essere all'altezza della propria missione: è il segreto della sua paternità.

Ognuno poteva rendersi conto del suo amore di padre nella trepidazione per i figli lontani, nel dolore per il distacco da loro, nella preoccupazione per i pericoli cui andavano incontro. Confessava di non aver mai perso il sonno per problemi di ordine materiale, pure gravi, ma per il pensiero delle persone, sì. La sua prima visita all'Istituto era per gli ammalati, che chiamava gli «incensieri della comunità». Si intratteneva con essi, li confortava, li raccomandava alle cure dell'infermiere. La partenza dei suoi missionari, cosa normale per un Istituto che ha per scopo le missioni estere, non era mai qualcosa di normale e scontato. Finché poté, li accompagnava alla stazione, li benediceva, e si allontanava silenziosamente, non nascondendo l'intima commozione. «Il cuore del padre non è acqua», diceva, perciò «si stacca una parte di me stesso», è uno «schianto», «è sangue» 4. Lo sosteneva soltanto il pensiero di seguire la volontà di Dio. Così, il periodo della guerra fu certamente il più doloroso per lui, a causa delle ristrettezze materiali, dell'arresto nel lavoro missionario, della requisizione dei locali della Casa Madre. Ma più di tutto, sentì «sanguinare il cuore» per la chiamata alle armi di studenti e missionari. Ne parla continuamente, scrive loro, invia aiuti, si dà da fare per anticiparne l'esonero. Ancora più delicata, fu l'opera di reinserimento dei reduci dalla guerra, stanchi, delusi e frustrati. In molti seminari, coloro che avevano affrontato intemerati le prove della guerra, non riuscirono a superare quelle dell'inserimento nel ritmo di vita seminaristica. Nell'Istituto, quasi tutti ce la fecero. L'Allamano ebbe pazienza, usò tolleranza per il loro comportamento a volte scanzonato a cui li aveva abituati la trincea, li incoraggiò a riprendere gli studi, diede loro incarichi di fiducia. Un testimone di quel periodo attesta: «Fu certamente l'amore del cuore paterno e materno allo stesso tempo del Padre, che rese più facile l'assorbimento alla vita di comunità di tutti quei giovani o quasi adulti, che tornavano da un ambiente così diverso da quello in cui erano cresciuti prima della guerra» (G. Bartorelli).

L'Allamano poteva dire, senza temere di essere smentito: «Il Signore poteva servirsi di un altro certamente, e che avrebbe fatto meglio di me. Avrebbe avuto più tempo di occuparsi di voi; ma un'altra persona che vi voglia più bene di me, non lo credo» Ecco perché a lui si ricorreva «come a un padre, mettendolo a parte delle pene, dubbi, timori». Ecco perché fu padre ascoltato: «ammaestrava, lavorava le anime in profondità, riscuotendo sempre ogni volta: ammirazione, confidenza e affetto maggiore» (T. Gays). Le sue conferenze erano attese con ansia, partecipate come «un incanto». Ma «la gioia di udire la sua voce, così paterna e suasiva», si trasformava nella «volontà di mettere in pratica i suoi insegnamenti» (B. Falda). Bastava anche una sola parola scritta su un'immaginetta, a ridare coraggio, a spronare a perseverare nella vocazione. È la forza della paternità.

È un carisma personale. Però, l'Allamano vuole che qualcosa di esso permanga tra i suoi missionari: nel comportamento dei Superiori, nello spirito di famiglia, e anche nell'apostolato. A proposito dei catechisti, egli raccomandava ai missionari: «deve essere impegno di tutti cooperare alla loro formazione, preparandoli con studio e cura speciale alla stazione (missione) prima di inviarli al Collegio, e riavutili, amarli, facendo fare loro come vita di famiglia; istruirli con un po’ di conferenza giornaliera; entusiasmarli al loro ufficio, abituarli al resoconto serale, acciocché si tengano al corrente di quanto succede nel paese, sui malati, i bambini, ecc.» 6. La spiritualità del missionario è spiritualità di presenza, di rapporti personali, di attenzione all'altro, con amore. È lo spirito dell'Allamano. Il senso di presenzialità che ebbe nei riguardi di Dio e delle cose di Dio, lo visse nei rapporti con gli altri, con la stessa attenzione e carica di amore. Per questo si poté dire di lui che «fu eminentemente padre» (E. F. Vacha).

1 Testimonianze di M. Mauro, B. Falda, G. Cappella, A. 'Cantono.

2 Testimonianze di C. De Maria, Mollar, P. Marchino, B. Stobbia, G. Bonada e altri.

3 Cf. Lettere del 6 aprile 1891 a C. Mancini e del 6 aprile 1900 al Card. A. Richelmy.

4 Cf. Conferenze, I, 500, 610.

5 Cf. ivi, I, 492.

6 Lettera circolare ai missionari del Kenya, 25 dicembre 1912. l VS, 315; Conferenze, I, 129

L'icona di "Giuseppe Allamano tra i santi", regalata dagli Amici Missioni Consolata di Torino a conclusione delle celebrazioni per il centenario della Fondazione dell'Istituto, il 7 ottobre 2001, è esposta nella cappella della comunità della Casa Madre (Torino). Scritta dall'iconografo Silvano Radaelli di Lissone (MI), Maria Grazia Mussi Radaelli ne fa una lettura che guida alla contemplazione e alla preghiera.

L'Allamano amava ricorrere ai santi, imitarli, chiederne l'intercessione. L'icona mostra una schiera di santi che lo hanno ispirato e accompagnato in una maniera particolare, e sono stati da lui proposti ai Missionari non solamente come protettori, ma come veri modelli di vita missionaria.

IL BEATO GIUSEPPE ALLAMANO TRA I SANTI

Maria Musi

Lettura dell’Icona
 Struttura dell’icona

La struttura ricorda l’icona della Pentecoste. Dall’alto scendono i raggi dello Spirito Santo che illuminano il Fondatore ed i Santi, rendendoli partecipi della Sapienza divina, si propagano poi sull’universo illuminando e trasfigurando tutta la realtà. Come avvenne per gli apostoli, lo Spirito della Pentecoste discende per rivestirli di forza; da questo momento essi incominciano ad annunciare la Parola.

20240117allamanoLa ricca vegetazione raffigura la forza rigeneratrice dello Spirito Santo che attraverso i missionari porta la vita anche in luoghi aridi, scioglie i legami della schiavitù, infonde vigore e forza, anima l’amore creativo. Gli alberi accompagnano il movimento dei santi che sembrano inneggiare, dando lode e onore al Cristo e a Sua Madre. È rappresentata infatti la Consolata.

I Santi poggiano i piedi su un prato verde, colore che sta a sottolineare la fertilità e l’azione vivificante dello Spirito Santo. Essi sembrano ergersi dal terreno, reso fertile dalla potenza dello Spirito, come colonne portanti sulle quali viene costruita la Chiesa rappresentata dai due edifici luminosi, trasparenti che si stagliano sullo sfondo.

In alto, a sinistra, il santuario della Consolata di Torino e alla destra la chiesetta di Tuthu in Kenya, prima Missione fondata dai Missionari della Consolata, primo santuario a lei dedicato in terra d’Africa, simbolo ora del carisma missionario dell’Istituto.

L’icona è immersa nell’oro, che è splendore, riflesso puro della luce, simbolo della luce divina, della trascendenza di Dio. È pervasa dalla luce che dall’alto si irraggia tutt’intorno.

 La Consolata

Per il Beato Allamano la Madonna era la Consolata, visse sempre all’ombra del suo santuario, si tenne sempre unito a Lei, come madre e modello di uniformità a Cristo. A lei attribuisce l’ispirazione e la fondazione dell’Istituto per donare consolazione e vita a quanti si accostano al suo Figlio. A coloro che entravano nell’Istituto, specialmente i più piccoli, spesso con forte nostalgia della madre, dava una immagine della Consolata dicendo: «da oggi avete una nuova mamma, la Consolata. Essa vi ha chiamati e vi riceve in questa casa. Mettetevi dunque sotto la sua protezione». E poi sempre, il riferimento alla Consolata è costante, in tutte le circostanze e con tutti, grandi e piccoli, in patria e in missione.

Attesta un missionario: «Per lui la Madonna ci è mamma, e su questa devozione non si stancava mai di parlarci onde eccitarci ad amare sempre più Maria. Ed approfittava di ogni occasione, anche fortuita, per richiamare alla nostra mente ed al nostro cuore questo costante suo incitamento… Nei suoi scritti, per quanto brevi, non tralasciava mai di ricordarci la sua Madonna. Alle volte si trattava unicamente di un pensiero, una frase, un incoraggiamento, una sola parola, come quando sul retro di una immagine scriveva: "Coraggio, la Consolata ti aiuterà...", "non temere, la Consolata ti benedice". Ci voleva "figli della Consolata". Quando lo si andava a visitare nel suo studio al santuario non mancava mai di domandarci se già fossimo passati a venerare la Madonna. Alla nostra risposta, il più delle volte affermativa, ci diceva: "Ora, prima di ritornare all'Istituto passate ancora a salutarla"… Per lui la Consolata era vita, amore, lavoro, sacrificio, era la sua donazione. E per la Consolata visse e consumò la sua vita».

Il Beato Allamano

Centrale è la sua figura dalla quale traspare energia e gioia serena, ha la mano destra benedicente, con la sinistra tiene il libro della Scrittura.

Il volto è la parte fondamentale dell’icona, è il centro dell’icona stessa, lì si pone lo sguardo del fedele nel momento della preghiera e dal volto viene la luce che “illumina” il credente. Il volto è luminoso. In lui possono riconoscersi tutti i suoi figli missionari, a qualunque popolo appartengano. Il Beato Allamano ha il dono del sorriso, che gli viene dal cuore. «Ci guidava con un perenne sorriso», attesta un o dei suoi primi missionari. Nei suoi occhi si trova il sorriso più grande; occhi che si illuminano quando conversa con Dio o la “sua” Consolata, quando incontra le persone e le guarda. Occhi che ispirano confidenza e incitano al bene.

È rivestito di un manto rosso simbolo dell’amore più forte della morte, dell’amore maturo che porta anche al martirio. Porta la stola ornata dalle croci che sottolinea il suo essere pastore. Il bianco con le croci nere richiama la gloria e la passione del Signore.

Ha il capo circonfuso dal nimbo dorato, simbolo dei “somigliantissimi”, di coloro che nella vita tendono alla santità e diventano in tutto simili a Cristo. Egli ha vissuto la sua vita nella fedeltà a Dio.

I personaggi

L’evangelizzazione prende il via dal loro “stare insieme”. Parte dalla comunione per portare alla comunione. L’Allamano ne era fortemente convinto e ha impresso al suo Istituto la caratteristica dello “spirito di famiglia”, e del lavoro missionario fatto «in unità di intenti». Nell’icona contempliamo Santi missionari, con storie e doni diversi, chiusi in un cerchio, simbolo della comunione e dell’unità di quanti credono in Cristo, sempre tesi alle “cose” del Padre che indicano con le mani e gli sguardi assorti.

I tre personaggi, a sinistra, sopra il Beato Allamano sono:

  • San Pietro Claver, che reca tra le mani le catene, egli si è fatto schiavo degli schiavi. L’Allamano dice: «In lui noi ammiriamo la carità e la pazienza eroica esercitata per più di 40 anni con gli schiavi. Per riuscire santi missionari colla necessaria carità e pazienza bisogna formarsi da giovani e ben fondarsi in queste virtù». Indossa l’abito da sacerdote grigio scuro, è derivazione del nero e assume lo stesso significato: il nero è utilizzato per le vesti dei monaci che arrivano ad un alto grado di ascesi e che sono morti a questo mondo.
  • Card. Massaia, riconoscibile dal manto ornato di croci proprio dei Vescovi e dal bastone rosso riservato ai grandi maestri, a coloro che hanno autorità e insegnano nella chiesa. Fin dagli anni giovanili fu attraverso i suoi scritti che Allamano coltivò l’amore alle missioni. Gli fece visita a Frascati, probabilmente per consultarsi sull’intenzione di fondare un Istituto per inviare missionari a continuare la sua attività apostolica in Etiopia.
  • San Giuseppe sposo della Beata Vergine Maria. Veste una tunica blu che richiama il cielo, la divinità. Indica la sua tensione alle cose del Padre, la sua esistenza vissuta nella fedeltà alla Parola e nella testimonianza a Cristo stesso. Ha un mantello giallo che sta ad indicare colui che è preposto all’annuncio della Parola. Ha tra le mani un rotolo segno della Parola di Dio, a cui sempre e prontamente ubbidì, e una colomba, la semplice offerta che ha portato in dono nella Presentazione di Gesù al tempio. L’Allamano suggerisce di imitare le virtù di San Giuseppe: lo spirito di raccoglimento, di fede, di amor di Dio, l’umiltà e la laboriosità.

Il gruppo a destra sopra il Beato Allamano è rappresentato da:

  • San Francesco Saverio, Patrono delle Missioni e insigne modello di missionario costantemente citato e proposto nell’insegnamento del Fondatore ai suoi missionari. «Eppure, io son d’opinione – diceva - che voi tutti potreste diventare come lui ed operare anche miracoli…. Dunque, non rimane che essere santi e zelanti come S. Francesco. Ma d’una santità speciale anche eroica». Ricorda soprattutto il suo ardente zelo, l’ansia di evangelizzare tutto il mondo. Reca tra le mani un crocefisso rosso segno della carità di Cristo che lo spingeva ad esercitare la carità, prima negli ospedali, poi nei catechismi e in tante predicazioni, e nell’annuncio del vangelo nell’estremo oriente, sostenendo patimenti d’ogni genere per la salvezza dei fratelli.
  • Suor Irene Stefani, Missionaria della Consolata, una delle prime Missionarie della Consolata. Morta giovanissima ha dimostrato un grande zelo per soccorrere, evangelizzare, alleviare le sofferenze di tutti coloro che poteva avvicinare. Eroica carità esercitò durante la Prima guerra mondiale nei campi militari in Africa per i soldati malati. «È morta, perché si è offerta vittima… L’amore di Dio e delle anime l’ha bruciata… Avremmo potuto chiamarla suor Carità…». La sua esistenza si compendia nel suo proposito: «Tutto da Gesù e per Gesù, niente da me e per me». Di qui la sua donazione totale, senza riserve, senza pensare a sé. Gli africani la considerano la “loro” suora, tanto si era fatta una di loro, «uccisa non dal male, ma dall’amore».
  • Martire missionario. In lui sono rappresentati tutti coloro che hanno dato la vita per i fratelli nella Missione. Ha in mano la palma del martirio ed indossa un abito bianco. Il bianco richiama più simbologie: nascita, morte, resurrezione e trasfigurazione. Nel missionario martire, il bianco vuole simboleggiare la sua trasfigurazione che avviene nel momento del suo martirio. Il bianco è anche il colore di quelli che sono penetrati dalla luce di Dio.

Le due persone rappresentate alla destra di Allamano sono:

  • San Giuseppe Cafasso rappresentato con gli abiti e la stola del sacerdote, ha in mano il rotolo della predicazione della Parola di Dio, egli fu predicatore infaticabile della misericordia di Dio tra i carcerati ed i condannati a morte. Il nipote Allamano ne fece conoscere la figura sacerdotale e lo stile di santità, proponendolo come modello ai sacerdoti ed ai missionari. A questi in particolare propose il modello di santità del Cafasso “straordinario nell’ordinario”, proteso soprattutto al “bene fatto bene”.
  • Santa Teresa di Lisieux, patrona delle Missioni. Si è fatta santa nelle piccole cose, con una volontà di ferro. Fare tutto per piacere al Signore, fare la volontà di Dio era il suo metodo. «Nel cuore della chiesa, io sarò l’amore» scrive. Sono proprio le fiamme dell’amore che sono state poste sul libro della Parola di Dio che tiene in mano. Santa Teresa in monastero e Suor Irene sempre in cammino con i suoi “scarponi della gloria”, ambedue innamorate di Gesù e della missione, ricordano che è missionario chi vive il mistero di Cristo inviato e ama la chiesa e le persone come Gesù le ha amate.

L’ultimo gruppo di personaggi alla sinistra del Fondatore raffigura:

  • San Paolo, rappresentato con la barba, mezzo canuto; veste una tunica blu come San Giuseppe e un manto rosso che simboleggia il martirio. Paolo, infatti, fu martirizzato sotto Nerone e morì decapitato. Paolo è per l’Allamano il grande innamorato di Gesù e del suo vangelo, di cui si è fatto annunciatore instancabile tra i pagani. Ai suoi missionari propone di fare proprio l’impegno di Paolo: «Tutto faccio per il vangelo»; «Guai a me se non evangelizzassi».
  • San Fedele da Sigmaringa, proposto dall’Allamano come particolare patrono dell’Istituto perché è il primo martire di Propaganda. Abbracciata la vita religiosa nell’Ordine dei Cappuccini, divenne sacerdote e si dedicò totalmente al servizio della predicazione. Accompagnava la parola con la testimonianza di una vita austera e di intensa preghiera. Indossa un saio marrone. Il colore bruno è segno della povertà e della rinuncia alle gioie della vita terrestre. Nella sua festa liturgica, 24 aprile 1900, da Rivoli, l’Allamano convalescente da grave malattia, superata per intervento miracoloso della Consolata, scrisse la lettera al Cardinale arcivescovo di Torino per la fondazione dell’Istituto e, prima di spedirla, la pose sull’altare su cui celebrò la messa in onore del santo. Per lui, questa è la data della “fondazione morale” dell’Istituto. Nel nome del santo vede un programma di vita per i suoi missionari: la fedeltà, sempre, fino a dare la vita.

Tutte le persone raffigurate sono smaterializzate, appartengono già al mondo del divino. I volti sono di colore “terra impastata di luce”; sono volti che non hanno nulla di materiale, sono aerei, trasfigurati poiché vivono in una dimensione celeste, sono già in comunione col Padre.

I personaggi rappresentati portano iscritto il loro nome sulle vesti

Il 6 gennaio 1905 era la festa dell'Epifania e in quel giorno il nostro fondatore, il beato Giuseppe Allamano, scrisse una lettera ai missionari del Kenya (cfr Lettere IV, 276-282). In quella lettera di inizio anno Giuseppe Allamano indica ai suoi missionari le cose fondamentali e importanti da fare per continuare ad essere con gioia strumenti della presenza di Dio nel mondo. Potremmo dire che, con quelle parole, ha voluto tracciare per i suoi figli i propositi che considerava necessari per camminare tutto l’anno al servizio del progetto di Dio e offrire generosamente il meglio di sé.

Questo, ancora oggi, è per noi un invito a dare una direzione e un significato alla nostra vita con propositi che agiscano come fari di speranza e ci ricordino che abbiamo degli obiettivi da raggiungere.
Il Fondatore disse ai missionari, che avevano appena concluso la Conferenza di Muranga l'anno precedente, di “stabilire regole di vita e di azione apostolica, suggerite dall'esperienza” e raccomandava ai missionari di consultare i superiori se avessero avuto progetti diversi da quelli discussi e decisi dalla comunità in occasione della recente conferenza.

Anche questo è molto importante per noi oggi, soprattutto perché abbiamo appena concluso il 14° Capitolo Generale nel quale si sono stabiliti criteri e progetti. Stiamo ancora analizzando e cercando di attuare gli atti del capitolo, e il rischio di provare a modificarli per una soluzione rapida non può essere escluso. Per questo è necessario ripensare l'anno con le linee guida del nostro Fondatore.
Una delle funzioni più importanti del cervello umano è quella che ci consente di fissare obiettivi e di raggiungerli ma questo richiede una rigorosa disciplina nella gestione del tempo. A questo proposito anche Giuseppe Allamano scriveva ai missionari: “Una raccomandazione che ritengo utile anche per voi è quella di usare bene il tempo” e prosegue ricordando che ciascuno è tenuto a rispettare l'orario comune e quindi ad essere puntuale in tutte le attività.

Potrebbe sembrare banale sentire il Fondatore fare raccomandazioni di questo tipo eppure siamo consapevoli che uno degli ostacoli al raggiungimento dei bei propositi presi è la cattiva gestione del tempo. Ecco perché le parole di dell'Allamano non vanno prese alla leggera.

Consapevole che la stanchezza indebolisce gradualmente la determinazione delle persone nella sua lettera ai missionari nel Kenya aggiungeva un invito a non inaridire lo spirito ed arrendersi: “Alla vostra partenza voi avete promesso di santificarvi totalmente per amore delle anime, sottoponendovi a qualunque disagio, contentandovi di qualunque ufficio pur di riuscire a santificare voi stessi ed il prossimo”.

Anche noi oggi possiamo riconoscerci nelle parole del nostro Fondatore. Quando siamo entrati nell'Istituto e fatto la professione religiosa abbiamo promesso le stesse cose. Nel corso degli anni la possibilità di stancarsi e perdere il morale è qualcosa che non si può negare. Ecco perché iniziare l'anno con le parole di Giuseppe Allamano ci mette nelle condizioni di raggiungere i nostri obiettivi.
Conclude il beato Allamano con un importante invito alla carità: “Quella che ora intendo inculcavi è la carità vicendevole. Con il moltiplicarsi delle persone crescono anche le diversità di apprezzamenti, perché tutti abbiamo la nostra testa, come si dice, e specialmente molta dose di amor proprio che ci inganna senza che ce ne accorgiamo. Da qui la tentazione di disapprovare internamente il modo di pensare e di agire dei confratelli e talvolta perfino dei superiori. State attenti contro questa tentazione, perché il giorno in cui cominciassero le critiche vicendevoli segnerebbe tosto la sterilità delle vostre fatiche e sarebbe il principio della dissoluzione dell’Istituto”.

Possano queste sagge parole di p. L'Allamano ci guida e dirige le nostre attività mentre entriamo in questo nuovo anno benedetto da Dio.

* Padre Jonah M. Makau, IMC, Casa Generalizia a Roma, frequenta il corso in Cause dei Santi.

“Venite in disparte e riposatevi un po’” (Mc 6, 31)

Questo invito amorevole del Maestro diventa più che mai necessario ai nostri tempi: viviamo in un’epoca in cui il mondo è super globalizzato; è stordito da tanti frastuoni, rumori e clamori; le persone, perennemente connesse ai mezzi audiovisivi, sembrano prigioniere di questi mezzi.

Serve distaccarsi dalla normalità, come dicevano i Padri del deserto: “Fuggi, fai silenzio, cerca quiete”. Questo è vero per tutti ma vale in modo speciale per religiosi, sacerdoti, missionari, chiamati per vocazione a prendersi cura degli altri. Serve coraggio, quando è possibile, per dedicare tempo, almeno una volta in vita, e fare un ritiro prolungato, anche di un mese.

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Era da diversi anni che dentro di me coltivavo il desiderio e il sogno di poter vivere un mese di esercizi spirituali. Nella vita occorre fermarsi per ricaricarsi. A volte per dei momenti lunghi. Guai a noi se non lo facciamo. Si corre il pericolo di fare più danni, se non ci si ferma. Siccome è sempre difficile aver un periodo così prolungato, l’occasione opportuna non poteva essere migliore che alla fine di un mandato e prima di intraprenderne un altro.

È stato un momento per me molto speciale dove ho potuto godere dei doni spirituali dall’alto, vivendo, leggendo, riflettendo, “ruminando”, e pregando. Ho dedicato tempo a contemplare le meraviglie di Dio nella vita e nel nostro agire.

Tutto questo acquisisce un significato particolare quando si realizza nei luoghi che hanno visto crescere quell’uomo santo consacrato alla missione, il padre fondatore Giuseppe Allamano e altri santi originari di Castelnuovo: Giuseppe Cafasso, Giovanni Bosco e Domenico Savio.

Gli Esercizi Allamaniani sono stati caratterizzati da quello che potremmo chiamare “un silenzio parlante”, (usando una espressione del padre fondatore muto con le cose che possono recar disturbo, ma loquace con Dio).

Vivendo nella casa natale di san Giuseppe Cafasso, perla del clero, potevo respirare un silenzio unico, essendo la zona poco abitata. Potevo toccare Dio leggendo il Padre fondatore (ma soprattutto scavando nella vita dei santi che egli spesso citava nelle sue conferenze). Potevo meditare e pregare con calma, senza tralasciare le passeggiate in mezzo alle vigne approfittando anche delle diverse cappelle presenti nel territorio. Significativo il momento giornaliero di confronto con il predicatore, guida e fratello.

Castelnuovo si presta molto bene per vivere una esperienza del genere sul carisma cominciando dalle due case che hanno visto la nascita del Beato Giuseppe Allamano e di San Giuseppe Cafasso. Quest’ultima, che non è abitata, offre un’atmosfera che favorisce la concentrazione e il dialogo con il Signore.

Il ritiro Allamaniano di un mese è tempo di ricarica, di profondità e di preghiera; è un modo eccellente per riempirsi di Dio. La nostra epoca richiede uomini e donne pieni di Dio. È il miglior modo di servire il popolo di Dio che ci viene affidato anche perché non si può dare quello che non si ha.

* Padre Godfrey Msumange, IMC, casa natale del Beato Giuseppe Allamano.

All'inizio del Triennio sul Beato Allamano, offriamo questa prima riflessione di P. Francesco Pavese, in consonanza con quanto le nostre due Direzioni Generali ci hanno proposto, scegliendo il protettore per gli anni 2024-25-26. La paternità dell'Allamano ci è particolarmente cara come lo fu per i nostri primi Missionari e Missionarie. Dal Cielo continui a guidarci e proteggerci. Buon anno nuovo a tutte e a tutti.

I missionari e le missionarie di Castelnuovo don Bosco.

“PADRE AMATISSIMO”

SIGNIFICATO DELLA PATERNITÀ DEL FONDATORE

 A cura della Postulazione Generale

La paternità dell’Allamano

Per la festa del Fondatore di quest’anno propongo alcune riflessioni sulla sua “paternità”. Sono idee semplici che fanno sempre del bene a noi, ma che quest’anno possiamo anche proporre alla gente che ci conosce e che festeggia con noi il nostro “Padre”.

Prendo l’ispirazione da un messaggio che il Camisassa ha scritto alle suore in vacanza a S. Ignazio, alla vigilia del suo onomastico, per scusarsi di non potere essere presente, essendosi dovuto fermare a Torino «stante l’assenza del Sig. Rettore (m’è scappata la parola: leggete Padre amatissimo)». Per le missionarie l’Allamano non è il “Rettore”, ma il “Padre amatissimo”. Questa è la convinzione del Camisassa, che coincide con quella dei figli e delle figlie dell’Allamano.

Non è significativo che il Camisassa chiamasse l’Allamano per lo più con il nome di “Padre”, senza l’articolo? Il Camisassa, sia pure con una certa titubanza, pensa di partecipare in qualche misura della paternità del Fondatore. Ecco come si è espresso scrivendo dalla fattoria di Nyeri, il 18 luglio 1911 ad un gruppo di giovani suore, dopo la loro vestizione: «Mie buone figliuole, permettete che io pure vi chiami con questa dolce parola, detta a sei di voi con tanta bontà e tenerezza , come mi scrivete, dal nostro venerato Padre nel bel dì della loro vestizione. Certo che non ho diritto di chiamarvi mie figlie, ma pur qualcosa come un padre putativo vostro vorrei pur esserlo […]». È certo che il Camisassa è entrato in pieno nel clima di famiglia voluto dal Fondatore, in modo non indipendente, ma a seguito di lui.

Coscienza della propria paternità spirituale

Il Fondatore, proprio perché era convinto dell’origine soprannaturale dell’Istituto, si è assunto tutta la responsabilità, non solo di fondarlo, ma anche di accompagnarlo nella crescita. In questa risposta coerente alla propria vocazione si colloca la sua coscienza di essere “padre” di due famiglie missionarie. Lo ha espresso con semplicità e convinzione in diverse occasioni. Sia sufficiente rileggere quanto, nel 1904, ha scritto al gruppo dei missionari in Kenya mettendoli al corrente delle feste centenarie del santuario, per assicurarli di averli ricordati: «Lasciai in certo modo da parte le altre mie attribuzioni per non ricordare che la mia qualità di padre di questa nuova Famiglia».1

Un padre che educa

In forza di questa paternità spirituale, il Fondatore era convinto di dover formare missionari e missionarie conforme al progetto che lo Spirito Santo gli aveva suggerito. Ecco la ragione delle sue numerose insistenze sullo “spirito”. Per circostanze contingenti, ha dovuto difendere la genuinità del suo spirito fin dai primi anni della fondazione. È classico il suo intervento del 2 marzo 1902: «La forma che dovete prendere nell’Istituto è quella che il Signore m’ispirò e m’ispira, ed io atterrito dalla mia responsabilità voglio assolutamente che l’Istituto si perfezioni e viva di vita perfetta».2 È pure classico l’altro intervento nella conferenza del 18 ottobre 1908, quando, parlando della responsabilità che i superiori hanno di formare missionari, concluse: «lo spirito lo dovete prendere da me».3 Non si contano gli interventi a questo riguardo, anche alle suore. Sono molto esplicite le parole scritte il 7 settembre 1921 a sr. Maria degli Angeli superiora in Kenya: «Io desidero, e tale essendo il mio dovere, pretendo, che viviate nello spirito che vi ho infuso».4 Più di così!

Un padre che ama teneramente

Come padre, l’Allamano ha manifestato un tenero affetto per i figli e le figlie. Viveva per loro, come ha confidato scrivendo al p. Filippo Perlo nei primi anni della 5missione in Kenya: «Tante e tante cose a tutti i miei cari missionari, pei quali soli ormai vivo su questa terra. La mia paterna benedizione mattino e sera su tutti […]».6 Ha pure pronunciato parole così intense che ci impressionano ancora oggi: «Il Signore avrebbe potuto scegliere un altro a fondare questo Istituto, uno più capace, con maggiori doti, con più salute, ma uno che vi amasse più di me…non credo».

Un padre che propone il massimo

Proprio perché voleva un mondo di bene ai suoi figli e figlie, l’Allamano non si è accontentato di proporre loro l’impegno missionario, già arduo in se stesso, ma l’ha proposto nella “santità della vita”, chiedendo loro di essere tutti di “prima qualità”. E la ragione della sua continua richiesta di santità era soprattutto di carattere apostolico: «Qualcuno crede che l’essere missionario consista tutto nel predicare, nel correre […]; no, no! Questo è solo il fine secondario: santifichiamo prima noi e poi gli altri. Uno tanto più sarà santo, tante più anime salverà»7; «Dobbiamo prima essere buoni e santi noi, dopo faremo buoni gli altri; altrimenti, non saremo buoni né per gli altri, né per noi»8 Il “prima santi e poi missionari” si inserisce in questo tipo di ragionamenti.

Un padre che corregge

E neppure si è tirato indietro quando è stato necessario richiamare, direttamente o tramite i suoi collaboratori, ad un impegno superiore, come ha fatto abitualmente. Per esempio, ecco le parole scritte alle suore appena dopo un anno dal loro arrivo in Kenya:

«Mentre come padre so compatire l’umana fragilità, non posso, né intendo che si vada avanti con questo spirito. […] Perdonatemi questo sfogo paterno, che stimai necessario per rimettere tutte in carreggiata.[…]. Vi benedico di gran cuore».9 Anche su questo aspetto il Camisassa ha saputo collaborare con il Fondatore, come risulta da una lettera a sr. Margherita de Maria: «Persuaditi che la volontà di Padre è volontà di Dio.[…]. Mi rincresce aver dovuto scriver un po’ forte, ma è proprio Padre che volle così».10

Un padre che comunica se stesso

Un aspetto molto interessate della paternità del Fondatore è il seguente: come educatore, oltre ad offrire concetti e principi, ha saputo comunicare se stesso, cioè la propria esperienza interiore. Quasi senza accorgersene, indicava come lui stesso procedeva sul cammino della santità. Questa è stata la sua grande forza di educatore. Ecco perché uno dei giovani di allora ha lasciato scritto, riferendosi alle sue conferenze domenicali: «Prima della sue parole, aspettavamo lui». Con semplicità paterna ha spiegato questo suo metodo agli allievi appena tornato dagli esercizi spirituali: «Ebbene che cosa vi ho portato? Vi ho portato dello spirito, un deposito di spirito, e sapete che cos’è? Qualche buon pensiero che a me ha fatto più impressione e lo porto a voi. […] E così, nelle prediche, meditazioni, esami, con tutto insomma, pensava facendomi buono io, pensava anche a voi. Per voi e per me. Perché non voglio essere solo un canale, ma anche conca. […] Così i buoni pensieri, prima per me, e poi anche penso a voi. I buoni pensieri che hanno fatto effetto a me, lo facciano anche a voi»11.

Un padre che tiene la famiglia riunita

Infine, la paternità del Fondatore ha fatto crescere nell’Istituto lo spirito di famiglia. Chi non ricorda le sue numerose raccomandazioni al riguardo? Lo spirito di famiglia doveva essere vissuto prima con lui, che era il padre, e poi tra di noi che siamo diventati fratelli e sorelle a motivo della stessa vocazione e della paternità dell’Allamano. La conseguenza sul piano dell’azione apostolica è stata che i suoi figli e figlie dovevano essere capaci di lavorare “insieme” e non ognuno per conto proprio. L’ideale dell’unità nell’Istituto era per l’Allamano un punto fermo, intoccabile, quasi un sogno. Rileggiamo le parole pronunciate in occasione della partenza di missionari: «Vedete la consolazione che si prova a partecipare a questa famiglia […]. E anche se si deve andare in un altro luogo… il luogo è una materialità, è niente l’essere piuttosto in un posto che in un altro…Siamo tutti missionari, siamo tutti insieme, facciamo tutti una cosa sola, come se fossimo tutti qui, tutti al Kenya, tutti al Kaffa, tutti all’Iringa»12. Per lui, un Istituto di missionari deve essere e operare “tutto dappertutto”!

E la ragione di questa unità va cercata nella nostra identità missionaria. L’Allamano immaginava il suo Istituto come un “corpo” apostolico, ben compatto. Lo ha chiesto tante volte ai suoi fin dai primi anni. Basta rileggere quanto ha scritto ai missionari del Kenya nella lettera circolare del 2.10.1910: «Altro carattere del lavoro di missione è la concordia. L’unione di mente e di cuore mentre rende leggera la fatica, fa la forza ed ottiene la vittoria.».13 Lo aveva già riconosciuto, cinque anni prima, rallegrandosi perché la Santa Sede aveva riconosciuto la buona organizzazione e l’unità di azione nelle nostre missioni: «L’unità d azione poi è specialmente merito vostro, perché avete saputo uniformarvi pienamente alle direzioni ricevute».14

Un padre perenne

La paternità del Fondatore è perenne. L’ispirazione che ha ricevuto e trasmesso non si è interrotta con la sua morte, perché lo Spirito è perenne! L’Allamano era cosciente di conservare la propria paternità anche dal cielo. Lo ha detto in diverse occasioni, in senso di incoraggiamento e di aiuto, ma anche di richiamo. Sia sufficiente risentire queste parole pronunciate in tempi e in circostanze diverse: «Quando io sarò poi lassù, vi benedirò ancora di più: sarò poi sempre dal pugiol [balcone]»15; «Siate buoni anche dopo la mia morte, perché se no chiederò al Signore di venire dal balcone del Paradiso, e vi manderò delle bastonate».16Quando noi faremo il cinquantenario io dal Paradiso vi assisterò; sarà un cinquantenario pieno di meriti»;17 «Dal cielo vi guarderò, e se non farete bene, vi manderò tante umiliazioni finché non rientrerete in voi tessi”»;18 «Dal Paradiso manderò dei fulmini se vedo che mancate di carità».19 «Per il bene che mi volete, dovete essere contenti che io vada in Paradiso a riposarmi. Farò di più là che di qua…farò, farò».20

La nostra risposta al padre

In parole semplici e schematiche può essere questa: conoscerlo sempre di più e farlo conoscere agli altri; confrontarsi con lui nella vita e proporre la sua spiritualità alle persone che ci sono vicine; sentirlo vivo e presente, pregarlo e suggerire l’efficacia della sua intercessione a quanti collaborano con noi o che serviamo nel ministero. L’Allamano non lascia indifferenti: ci coinvolge e può coinvolgere molte altre persone. L’esperienza dice che anche i laici, quando riescono avvicinare in modo adeguato l’Allamano, sanno apprezzarlo e, in certo senso, lo sentono anche loro “padre”. La paternità del Fondatore non è circoscritta dai confini dell’Istituto.

NOTE:
1 Lett., IV, 276.
2 Conf. IMC, I, 15; si noti che queste parole sono del suo manoscritto. Cf. anche 136-137
3 Conf. IMC, I, 273.
4 Processus Informativus, IV, 220; Lett., IX/1, 140.
5 Processus Informativus, IV, 494.
6 Lett., IV, 23-24.
7 Conf. IMC, I, 249-250. Ricordiamo come abbia modificato di suo pugno il testo del Direttorio del 1910: «Gli alunni […] abbiano sempre di mira […] di farsi santi e di rendersi idonei a salvare molte anime» in «[…] e così di rendersi idonei», sottolineando il legame tra santità e apostolato.
8 Conf. IMC, I, 279.
9 Lett., VI. 683.
10 Arch. IMC.
11 Conf. IMC, II, 634.
12 Conf.IMC, III, 499.
13 Lett., V, 410.
14 Lett., IV, 456.
15 Conf. MC, II, 482.
16 Processus Informativus, II, 526,
17 Conf. MC, II, 282.
18 Processus Informativus, II, 544.
19 Processus Informativus, II, 874.
20 In TUBALDO I, o.c., 675.

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