La crisi multidimensionale verso il punto di non ritorno

Da aprile 2023, il Sudan è dilaniato da una sanguinosa guerra civile. A scontrarsi sono l’esercito governativo guidato dal generale Abdel Fattah al-Burhan – leader ufficiale del Paese – e le Forze di supporto rapido, un gruppo paramilitare comandato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, rivale di al-Burhan.

Mentre i due si contendono il controllo del Sudan – il più delle volte ignorando i tentativi di dialogo portati avanti dalla comunità internazionale – i civili sudanesi pagano le conseguenze di un conflitto sempre più violento. Gli sfollati interni sono oltre dieci milioni, mentre più di due milioni di persone si sono rifugiate negli Stati vicini. Gli aiuti umanitari faticano a entrare nel Paese: entrambe le fazioni in conflitto ostacolano l’accesso di operatori e organizzazioni internazionali. Tant’è che, negli ultimi mesi, tra coloro che non avevano cibo a sufficienza, solo una persona su dieci ha ricevuto l’assistenza necessaria. Secondo le Nazioni Unite, quindi, il Sudan sta vivendo la peggiore crisi alimentare della sua storia.

Per valutare le condizioni alimentari di un Paese, a livello internazionale è stato introdotto un sistema condiviso di monitoraggio, l’Integrated food security phase classification (Ipc). Un meccanismo che si articola su cinque livelli, dove il primo descrive una condizione di sufficiente disponibilità di cibo mentre l’ultimo corrisponde alla carestia. Passando per situazioni di «stress alimentare» (livello 2), «crisi» (livello 3) ed «emergenza» (livello 4).

Nel caso del Sudan, le ultime rilevazioni (pubblicate a luglio) mostrano che, tra giugno e settembre 2024, oltre 25 milioni di persone (su una popolazione di quasi 50 milioni) si sono trovate, o saranno, in una condizione di «crisi», se non peggio. E la situazione è in rapido deterioramento. Infatti, rispetto alle precedenti stime di dicembre 2023, il numero di sudanesi in situazione di «crisi» è cresciuto del 45%, raggiungendo i 16,3 milioni. Mentre il livello successivo, quello emergenziale, riguarda ormai 8,5 milioni di persone (con un incremento del 74%).

A preoccupare, però, sono soprattutto i dati relativi all’ultima fase, la carestia. Se a dicembre 2023 nessun sudanese era a rischio, ora 755mila persone – sparse in dieci località del Paese – soffrono di insicurezza alimentare estrema. Cioè un’insufficienza severa, prolungata e diffusa di cibo, tale da causare malnutrizione, fame ed elevata mortalità tra la popolazione. Già a febbraio, le Nazioni Unite avevano avvertito che nei mesi successivi sarebbero potuti morire fino a 220mila bambini per la mancanza di generi alimentari. Più recentemente, il Clingendael institute, un ente di ricerca olandese, ha stimato che entro ottobre 2,5 milioni di sudanesi potrebbero perdere la vita a causa dell’insicurezza alimentare.

Attualmente, le aree del Paese più a rischio di carestia sono 14 tra province (Greater Darfur, Greater Kordofan e Al Jazirah) e località che accolgono sfollati e rifugiati (soprattutto a Khartoum, la capitale). Ufficialmente, le Nazioni Unite non hanno ancora dichiarato uno stato di carestia ma, allo stato attuale, l’intersecarsi di diversi fattori – conflitto, ciclici disastri naturali e devastazione economica – rende la prospettiva sempre più possibile e vicina.

Secondo l’Ipc infatti, se gli scontri non cesseranno – o quantomeno non allenteranno la propria presa sui civili -, l’insicurezza alimentare si diffonderà sempre di più nel Paese. La violenza ha costretto molti sudanesi a lasciare abitazioni e attività economiche per rifugiarsi nei campi di sfollati. Dove però gli aiuti umanitari faticano ad arrivare a causa dei blocchi e dei saccheggi degli attori armati.

Diverse reti stradali e vie commerciali sono diventate impercorribili. La produzione agricola è crollata: campi, mezzi di produzione e catene di approvvigionamento sono andati distrutti. Quindi i prezzi dei generi alimentari – sia di produzione interna sia d’importazione (diventata sempre più difficile) – sono schizzati alle stelle. L’Unocha (l’agenzia delle Nazioni Unite per gli affari umanitari) ad esempio stima che i prezzi delle commodities siano aumentati dell’83% rispetto all’inizio del conflitto.

I disastri naturali – come le recenti inondazioni – si vanno a sommare a un contesto socioeconomico già estremamente fragile e non fanno altro che acuire la vulnerabilità della popolazione. Soprattutto nel caso di sfollati e rifugiati che spesso vivono in campi di fortuna.

Il Sudan – dilaniato da una guerra di potere – è sempre più vicino al baratro.

* Aurora Guainazzi, rivista Missioni Consolata. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it

Eritrea. Trent’anni di Afewerki

  • , Lug 21, 2024
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I rapporti tra il paese del Corno d’Africa e l’Italia

L’Italia e l’Eritrea tornano amiche? Quale senso ha il riavvicinamento del governo di Roma a quello di Asmara?

La domanda è rimbalzata più volte tra giornalisti, analisti, studiosi a partire da gennaio quando il presidente eritreo Isaias Afewerki – al potere ininterrottamente dal 1993 – si è recato in Italia, su invito del governo italiano, per partecipare al Vertice Africa-Italia, tenutosi a Roma per promuovere partenariati in vari settori come l’economia, le infrastrutture, la sicurezza alimentare, l’energia, la formazione professionale e la cultura.

Sotto il profilo politico i nuovi rapporti tra Roma e Asmara sono complessi da leggere. Durante la sua visita, Afewerki ha incontrato il premier italiano Giorgia Meloni a Palazzo Chigi e hanno discusso del rafforzamento dei legami bilaterali e hanno esplorato le opportunità di investimento in Eritrea. A giugno, poi, una delegazione italiana di alto livello ha visitato l’Eritrea, guidata dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, con la partecipazione di varie personalità, tra cui la presidente della Commissione esteri e difesa del Senato, Stefania Craxi.

Questa visita si colloca nel contesto del cosiddetto «Piano Mattei», la strategia italiana volta a stabilizzare e sviluppare l’area del Corno d’Africa. «È difficile valutare gli effetti di queste visite – spiega Uoldelul Chelati Dirar, eritreo, professore all’Università di Macerata -. Dal punto di vista economico, l’Eritrea è un mercato piccolo, solo cinque milioni di persone, le leve economiche sono tutte in mano pubblica, non essendoci un tessuto di piccole e medie imprese. Difficile quindi valutare quali vantaggi reciproci ci possano essere in questo senso. Anche se in Eritrea, come nel resto del Corno d’Africa, c’è un generale apprezzamento per i prodotti italiani e per la capacità italiana di costruire infrastrutture (ponti, strade, dighe, ecc.)».

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La situazione attuale in Eritrea è caratterizzata da «sfide» significative in termini di diritti umani, relazioni internazionali e sviluppo economico. Il governo eritreo continua a essere accusato di gravi violazioni dei diritti umani, tra cui detenzioni arbitrarie, rapimenti e repressione della libertà di religione.

La leva militare obbligatoria, che spesso si traduce in un servizio di durata indefinita, coinvolge anche minorenni, e le punizioni collettive per i familiari di disertori o evasori di leva sono ancora praticate. Organizzazioni internazionali come Human Rights Watch denunciano queste pratiche, sottolineando come il sistema di coscrizione abbia un impatto devastante sull’istruzione e la vita dei giovani eritrei.

«Nei rapporti internazionali – continua il prof Ueoldelul Chelati Dirar – il governo eritreo da sempre gioca su più tavoli senza mai legarsi strutturalmente a nessuno. Stringe rapporti con i Paesi del Golfo, poi con gli Usa, poi, ancora, con l’Iran e ora con l’Italia. Questa politica spregiudicata ha assicurato longevità. La diplomazia dev’essere concreta. Quindi, l’Italia, avviando un dialogo, può creare un rapporto con un attore importante del Corno d’Africa. Detto questo non so quanto possa incidere sulle dinamiche dell’Eritrea e della regione. L’Italia non ha una continuità nella sua politica estera. Anche se la posizione di Roma sempre prudente è apprezzata dalle capitali dell’Africa dell’Est».

* Enrico Casale, rivista Missioni Consolata. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it

«Monsignore ma non troppo» (1)

È diventato vescovo della nuova diocesi di Maralal, nel Nord del Kenya, nel 2001. Ha lasciato il suo posto di servizio per raggiunti limiti di età nel 2022. Considerazioni, esperienze, gioie e dolori, condivisi in libertà.

Il mio primo contatto con il futuro monsignore, avviene a Torino, nel 1970. Ricordo che, entrando nel cortile della Casa Madre e dell’annesso seminario teologico, noto una vecchia moto con sidecar (del 1937, di fabbricazione inglese) parcheggiata in un angolo, una di quelle che si vedono nei classici film di guerra. Mi dicono che la usano alcuni degli studenti dell’ultimo anno di teologia per andare a scuola a oltre due chilometri di distanza nei locali del seminario del Cottolengo. Chi la guida è un certo chierico Virgilio Pante, matto per le moto. Una simpatica «pazzia» che non lo abbandonerà mai.

Quando dopo la Pasqua del 1989, arrivo nel Nord del Kenya, destinato alla cittadina di Maralal, la missione è ormai ben piantata. La prima cappellina è stata rimpiazzata da una chiesa spaziosa, c’è l’asilo, il dispensario, la casa delle suore, la scuola primaria con il boarding per quasi duecento bambine, il centro catechistico, il seminario della diocesi di Marsabit, il centro pastorale, il cimitero: un mondo nel quale si muovono oltre seicento persone, una vera e propria cittadella.

Mi guardo intorno incuriosito, faccio domande, cerco di capire. Ho già sentito tante storie sulla missione e i suoi missionari. Tra questi uno di cui si parla con ammirata simpatia è padre Virgilio Pante, che nel 1979 ha fondato il primo seminario della diocesi. Quando arrivo, lui è già stato trasferito tra i Luo, nella nuova missione di Chiga, vicino al Lago Vittoria, ma il suo ricordo persiste perché è impossibile dimenticare quel grande cacciatore che, grazie al suo fucile, aveva assicurato il cibo ai suoi primi seminaristi. E non solo. Quando qualche leone o altro animale diventava pericoloso per gli uomini, attaccando i pastori o avvicinandosi troppo ai villaggi o alle manyatte dei Samburu, gli stessi guardiacaccia lo chiamavano perché andasse con loro nella foresta ad aiutarli a risolvere il problema.

La sua era un’abilità innata, ereditata dai suoi nonni, come lui stesso mi ha confermato sorridendo, solo poco tempo fa. «Da noi, fin da piccoli si andava a caccia. I miei nonni, lassù sulle montagne del bellunese, sono sempre stati bracconieri per necessità. Mio papà ricorda che durante la guerra mangiavano “polenta e osei” e topi, perché c’era tanta fame». Dopo soli tre anni a Maralal, abbastanza per innamorarsi per sempre di quella terra, vengo mandato a Nairobi a lavorare nella rivista The Seed (Il seme) e lì, finalmente, comincio a vivere con padre Virgilio, perché nel 1996 viene nominato vice superiore regionale con residenza nella capitale keniana, nella mia stessa comunità.

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Nuovi, diocesi e vescovo

Arriva il 2001, l’anno del centenario della fondazione dell’Istituto. È il 30 giugno, stiamo finendo il pranzo. Il superiore regionale, padre Francesco Viotto, si alza e dice: «Scusate se vi interrompo, ma ho una notizia importante da darvi. Il Santo Padre oggi ha costituito la nuova diocesi di Maralal, dividendola da Marsabit. Ha anche scelto il nuovo vescovo, il quale è un missionario della Consolata ed è qui presente tra noi». Ci guardiamo gli uni gli altri incuriositi e il superiore prosegue: «È padre Virgilio Pante». Siamo tutti contenti, ci scappa qualche battuta, siamo sorpresi sì, ma non troppo visti gli anni che il nostro confratello aveva speso con passione nel Nord del Kenya. Stappiamo una bottiglia e scatto un po’ di foto.

Così il 6 ottobre dello stesso anno mi trovo nel grande campo sportivo dell’oratorio della missione di Maralal, diventata sede della diocesi omonima. È il giorno della consacrazione del nuovo vescovo. La gioia è effervescente. Sono arrivati in tanti da tutte le missioni. Il grande prato dell’oratorio è strapieno e coloratissimo. Ci sono tutti: Samburu, Turkana e Pokot, i popoli pastori indigeni, e Kikuyu, Meru, Akamba, Luo e quanti altri vivono nella città o lavorano per il governo. Scatto foto a gogò, mentre con il cuore pieno di gioia accompagno il tutto con un’intensa preghiera. L’avventura che aspetta il nuovo vescovo, infatti è tutt’altro che facile.

La nuova diocesi

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La nuova diocesi nata dalla divisione di quella di Marsabit (creata nel 1964), è una realtà con tante bellezze ma anche un sacco di problemi. Estesa 21mila km2 e con circa 144mila abitanti (contro i 70 mila km2 e i 200mila abitanti di Marsabit, dati del 1999), la diocesi coincide con il distretto (oggi contea) Samburu ed è caratterizzata da montagne stupende e pianure aride e semidesertiche, da valli profonde e caldissime e rari fiumi, da mancanza di strade e infrastrutture e da poche terre adatte all’agricoltura, con villaggi sparsi a grandi distanze e gruppi etnici molto diversi tra loro che si contendono l’acqua e i pascoli.

In più, alcune delle terre più rigogliose e ricche di animali sono diventate parchi nazionali o riserve turistiche, e altre sono state date in uso esclusivo ad agricoltori industriali che fanno coltivazioni intensive (disboscando impattano sull’habitat e lasciano poi terreni aridi). Ci sono dodici missioni o parrocchie, attorno alle quali c’è una fitta rete di oltre cento piccole cappelle nei vari villaggi, le quali, durante la settimana, diventano asili per i bambini. In ogni missione ci sono scuole primarie e centri di salute e tante altre attività per aiutare la gente. A Maralal, nella periferia Sud Est della cittadina, c’è il centro di formazione dei catechisti, che sono la spina dorsale della vita di ogni comunità, il seminario (fondato a suo tempo dal nuovo vescovo), una scuola tecnica per ragazzi e una per ragazze. A Wamba, invece, la diocesi ha un fiorente ospedale, una scuola per infermieri, una casa per bimbi disabili e una scuola secondaria per ragazze.

Il lavoro certo non manca e le forze presenti, missionari e missionarie della Consolata, sacerdoti fidei donum di Torino, missionari Yarumal e diverse comunità di suore, tra cui quelle di Madre Teresa, sono ben impegnate sul territorio. Ma le sfide sono tante.

Cercando la pace

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Monsignor Virgilio è da sempre innamorato di quelle terre dove si può ancora vivere la missione vera, dove la Chiesa può davvero realizzare i sogni del Concilio Vaticano II. Il suo primo viaggio in quelle zone è stato nel 1972, una scappata in moto fino a Loyangallani sulle rive del Lago Turkana che gli ha meritato il «castigo» più bello della sua vita: essere mandato proprio in quella che allora era la diocesi di Marsabit, fondata nel 1964, con monsignor Carlo Cavallera (Imc) che ne era stato il primo vescovo.

Appena saputo della sua nomina, padre Virgilio riprende la sua amata moto e va a visitare a tappeto la sua futura «sposa», per farsi conoscere e soprattutto per prendere coscienza della realtà che lo aspetta.

Nel suo peregrinare arriva a Kawop, un villaggio di Tuum, ai piedi del Monte Nyro, giù nella Suguta Valley ai confini con la contea Turkana. E lì gli si spezza il cuore: vede morte e distruzione ovunque, il villaggio è stato depredato, la chiesetta distrutta, la gente fuggita. È la scintilla che accende in lui una decisione: sarà il vescovo della pace, cosciente che il titolo che porterà, «vescovo», nel suo significato etimologico vuol dire «colui che vigila», come un guardiano, una sentinella. Lui sarà il «guardiano della pace».

Tornato a Nairobi, viene da me. Sa che ho già fatto degli stemmi per altri vescovi. E allora insieme creiamo il suo stemma episcopale dal motto «With the ministry of reconciliation», con il servizio della riconciliazione, sotto l’immagine di un leone che giace con l’agnello (vedi Isaia 11,6-9 e 65,25). Sullo sfondo il monte Kenya, il tutto sotto l’influenza dello Spirito Santo, colomba della pace.

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Una leonessa adotta una gazzellina di orice. gennaio 2002.

Una sfida infinita

Davvero nella nuova diocesi la sfida più grande è la pace. Da sempre le varie tribù (scusate, ma allora si diceva così, oggi ci preferisce dire gruppi etnici o popoli indigeni, nda) sono in lotta tra loro per il controllo delle magre risorse (acqua e pascoli), per garantirsi la sopravvivenza. Tre i gruppi principali in competizione, tutti pastori: i Samburu (probabilmente una sezione dei Masai stabilitisi in queste zone montuose); poi i Turkana, di origine nilotica e non circoncisi, molto presenti e attivi nell’Ovest della contea; e i Pokot, nilotici anche loro, stanziati a Sud Ovest.

Quello che padre Virgilio capisce subito, però, è che gli scontri tra le tribù non avvengono più nel modo tradizionale, con lance, razzie e scaramucce che coinvolgevano piccole realtà locali. Oggi i conflitti sono aggravati dalla diffusione capillare delle armi da fuoco che arrivano molto facilmente dalla Somalia; dalle manipolazioni messe in opera da politicanti senza scrupoli, soprattutto in tempi di elezioni; da interessi economici legati al traffico di bestiame; dalle appropriazioni di terre da parte di chi le sfrutta per l’agricoltura intensiva o per la creazione di aree riservate a resort turistici.

Quando padre Virgilio diventa vescovo di quelle terre, però succede un avvenimento eccezionale che diventa quasi un segno divino a conferma del suo impegno e della sua missione davanti a tutta la comunità.

Poco tempo dopo la sua consacrazione episcopale, infatti, nel Parco Samburu, situato nella zona Est della diocesi, una leonessa adotta un cucciolo di orice, un’antilope, permette alla mamma vera di allattarla, la cura e la difende dagli altri predatori (questo purtroppo dura solo due settimane, perché poi un leone si mangia il cucciolo, nda). La notizia è sulla bocca di tutti. La meraviglia è grande. L’avvenimento è considerato un segno del cielo che conferma il motto e lo stemma del nuovo vescovo.

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Visita alla chiesa di Kawap distrutta per lotte tribali. Chiesa costruita da padre Cornelio Dalzocchio

Le armi della pace

L’impegno per la pace è capillare, intenso e mai finito. Tre le aree di intervento: l’educazione, il commercio e la religione.

Il vescovo Pante, che dall’ottobre 2022 è ormai emerito per raggiunti limiti di età, si spiega. «I bambini non sono tribalisti. Per questo è importante offrire loro occasioni di convivenza e formazione insieme. Da qui la costruzione dei dormitori e delle scuole per la pace, dove bambini Samburu, Turkana e Pokot possono vivere, giocare e studiare insieme, diventando amici e superando gli stereotipi e i pregiudizi».

Poi i mercati. «Può sembrare una stranezza, ma come dice un proverbio swahili biashara haigombani, “il mercato non crea nemici”, anzi diventa luogo di incontro e scambio dove ciascuno può contribuire con il meglio che ha e trovare quello di cui ha bisogno. Con il mercato la gente si incontra, fa affari, si conosce, crea relazioni alla pari, scoprendo che è bello aver bisogno gli uni degli altri».

E la religione. «Riunire i diversi gruppi a pregare insieme aiuta, fa crescere, aumenta la conoscenza reciproca, fa vincere i pregiudizi.

Ricordo una volta che abbiamo invitato i tre gruppi a un incontro di preghiera vicino a Barsaloi. I Samburu e i Turkana, che venivano a piedi da villaggi relativamente vicini, erano già presenti. Poi da lontano è arrivato un camion carico di Pokot. Prima sono scesi i giovanotti nelle loro tenute da guerrieri e poi donne e bambini. È stato un momento di panico. C’è voluto tutto il mio sangue freddo e il mio prestigio per evitare un fuggi fuggi. Poi hanno iniziato a pregare insieme e a cantare, e il canto è diventato danza. Bellissimo. Allora sì, è stata davvero una bella festa, senza più paure e tutti uniti come figli dello stesso Padre».

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Villaggio abbandonato per guerre tribali

Risultati

«I risultati del lavoro fatto dalla diocesi sono tanti e belli, anche se non si è mai finito, perché c’è sempre qualcuno che ha interesse a fomentare le divisioni per il proprio vantaggio, sia per il traffico di armi che per quello del bestiame rubato, che spesso e volentieri finisce poi venduto a Nairobi o addirittura spedito a Mombasa per il mercato dei paesi arabi».

Il vescovo ricorda quando un giorno è stato chiamato a Nairobi per una riunione di una commissione governativa impegnata a capire come implementare la pace nel territorio. Dopo averli ascoltati, ha detto loro parole chiare. «Voi mandate l’esercito per farvi consegnare le armi, spaventate la gente con atteggiamenti minacciosi, e vi ritenete soddisfatti quando riuscite a farvi consegnare un centinaio di fucili, dimenticando che ne rimangono almeno altri 20mila in giro. E che poi, chi ve li consegna, ne acquista degli altri più moderni. Signori non serve disarmare le mani, occorre disarmare la testa e il cuore. Per questo dovete costruire strade, potenziare le scuole, offrire servizi sanitari, migliorare il livello della vita della gente. Questa è la via della pace, quella che costruisce davvero una nuova società».

Una Chiesa sempre più incarnata

L’impegno di monsignor Pante in questi 21 anni di episcopato, dal 2001 al 2022, non è stato solo per la pace. Una delle sue priorità è stata quella di far crescere la Chiesa locale nella sua completezza.

All’inizio del suo mandato, la maggioranza delle parrocchie era nelle mani dei missionari, di cui tanti ancora europei. Oggi sono quasi tutte gestite dai sacerdoti locali. I Missionari della Consolata hanno ancora tre missioni, ma solo una guidata da un europeo, padre Aldo Giuliani, un trentino sempre arzillo e appassionato nonostante gli anni. I sacerdoti locali sono ora 26, anzi 25 perché purtroppo uno è morto all’inizio di maggio per malattia. Di questi, monsignore ne ha ordinati ben 21. Un bel risultato, anche se il cammino per avere una Chiesa davvero inculturata, partecipativa (o sinodale, come si ama dire oggi) e corresponsabile, che non dipenda troppo dagli aiuti esterni e con la mentalità di «la Chiesa siamo noi», è ancora tutto aperto.

Il cammino è impervio, anche perché ci sono delle situazioni oggettive da affrontare. Una di queste è la povertà aggravata anche dal cambiamento climatico. Negli ultimi tre anni c’è stata una grande siccità, che ha causato la morte di persone e di quasi l’80% delle vacche. Finita la siccità, quest’anno sono arrivate le piogge torrenziali che stanno creando disastri e causando oltre 200 morti soprattutto a Nairobi e sulla costa. Ma anche nel Samburu hanno distrutto ponti, allagato villaggi, travolto viaggiatori. La rete stradale, già malridotta, non ci ha certo guadagnato e i poveri si sono ulteriormente impoveriti.

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Benedizione del Dormitorio della Pace per le ragazze. 19/5/2012

Scuola e salute

Ci sono poi altre due aree di impegno della Chiesa che le hanno permesso di entrare in un territorio che un tempo, fino ai primi anni Cinquanta, era totalmente off limits per i missionari e trascurato dal governo (coloniale e non): la scuola e la sanità.

Arrivando in un villaggio, i missionari per prima cosa hanno costruito una capanna polivalente: asilo o scuola per i bambini durante la settimana, cappella la domenica attorno al catechista, e periodicamente centro di salute e spesso anche scuola di maendeleo (che include sviluppo, cucito, igiene) per le donne.

Con il tempo hanno costruito vere e proprie scuole con relativi dormitori per i ragazzi che non potevano tornare ogni sera alle loro capanne spesso distanti decine di chilometri.

I centri di salute sono diventati capillari, mentre a Wamba fioriva la «Rosa del deserto», il favoloso ospedale con annessa scuola per infermieri e casa per bimbi disabili, che tanto bene ha fatto al territorio.

Le due aree di impegno rimangono importanti tutt’oggi, perché la scuola, conferma il vescovo, è essenziale per la formazione delle persone e per renderle protagoniste della loro storia di lotta alla povertà e a certe tradizioni, come la mutilazione genitale femminile (Fgm, female genital mutilation), che non aiutano a costruire un mondo libero e pacifico.

Una delle soddisfazioni più grandi di monsignor Pante è vedere i ragazzi e ragazze che hanno studiato nelle scuole della missione diventare insegnanti, infermieri, medici, operai, tecnici, anche politici e pure missionari, come l’attuale superiore generale dei Missionari della Consolata, un samburu nato sull’auto mentre la mamma veniva portata all’ospedale di Wamba.

Uno dei risultati più belli è stato raggiunto con le donne. Quante ragazze, uscite dalla scuola secondaria di Santa Teresa a Wamba, sono diventate insegnanti, infermiere, suore, catechiste, attiviste contro la Fgm e anche donne impegnate nella politica, chief locali e attiviste per la pace. (1 – continua)

* Padre Gigi Anataloni, IMC, rivista Missioni Consolata. Originalmente pubblicato in: www.rivistamissioniconsolata.it

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Mercato Pokot e Samburu, luogo di incontro, dialogo e collaborazione

“Il missionario nella comunità, la nostra missione ad gentes, l’organizzazione e l’economia per la missione”, sono questi i temi più importanti per continuare il percorso di evangelizzazione fatto dai missionari della Consolata in Africa”, spiega il padre Erasto Colnel Mgalama nel  presentare il Documento finale dell’Assemblea continentale tenuta in Tanzania dopo il XIV Capitolo Generale.

Nel video che pubblichiamo di seguito, il Consigliere generale per l'Africa sottolinea che il cuore dei temi che guideranno la missione dell’istituto nel sessennio è “il missionario nella comunità”. Questo è anche, “il cuore del XIV Capitolo generale che ci invita a una profezia radicale. Siamo consacrati per la missione vivendo come una famiglia in comunità”. In questo senso, secondo padre Erasto, una domanda fondamentale è: “il nostro stile di formazione aiuta a formare missionari che possono vivere nella comunità?”

Dunque il tema centrale contiene tre movimenti:

L’identità: questo “aspetto sarà sottolineato in modo diverso in ogni cultura nelle circoscrizioni in cui lavoriamo.

La formazione: la nostra consacrazione “richiede un costante rinnovamento spirituale e un impegno personale attraverso una profonda vita di preghiera, al fine di vivere veramente per Dio e solo per Dio”.

Il carisma: “Siamo inviati a servire per fare risplendere l'amore di Dio nel mondo, e in particolare nella vita dei poveri e di coloro che vivono ai margini della società a causa delle disuguaglianze e delle ingiustizie”. In questo senso, è importante incoraggiare la non violenza come stile e mezzo  per riprendere l’impegno per la Giustizia, la pace e l’integrità del Creato - GPIC).

Vedi qui il video con il messaggio di padre Erasto Mgalama (Realizzazione: SGC)

Il nostre ad gentes

Nel continente africano abbiamo già presenze tradizionali che durano nel tempo e in queste missioni dobbiamo avere una “presenza qualificata e qualificante”. Ciò significa che, oltre il lavoro nelle parrocchie “dobbiamo spronare la Chiesa locale ad abbracciare la dimensione ancora più profonda, l’impegno per la missione,  altrimenti, perderemmo la nostra identità missionaria”.

La prima parte del Documento finale dall'assemblea tenutasi in Tanzania nel dicembre 2023, presenta “la nostra presenza storica nel continente africano. La seconda parte, a sua volta, presenta la storia e la realtà del continente. La terza parte parla del lavoro svolto dalle commissioni continentali e dalle circoscrizioni che hanno evidenziato le priorità, frutto della riflessione di tutti i missionari”.

Questi e tanti altri aspetti del cammino che l'Istituto dovrà fare nel sessennio si trovano nel Documento che dovrebbe essere conosciuto da tutti i missionari che operano nei diversi paesi dell’Africa.

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Partecipanti alla XII Conferenza regionale IMC in Tanzania. Foto: Paulino Madeje

A nome della Direzione Generale, il padre Erasto Mgalama invita tutti i missionari studiare il Documento nelle Conferenze di Circoscrizione e nelle comunità locali. “Il nostro impegno è quello di contestualizzare le decisioni del XIV Capitolo generale nella realtà del Continente”.

* Padre Jaime C. Patias e Fratel Adolphe Mulengezi, IMC, Segretariato per la Comunicazione.

Pubblichiamo la cronaca della visita in corso della Direzione Generale in Costa d'Avorio da parte del Vice Superiore Generale, padre Michelangelo Piovano e dei Consiglieri Generali, i padri Erasto Mgalama e Mathews Odhiambo Owuor.

Scopo della visita era la partecipazione dei membri della Direzione alla Conferenza della Delegazione e la visita di tutte le comunità IMC nel Paese.

Padre Matteo Pettinari, allora superiore delegato, aveva già inviato tutto il programma, ma come è stato pubblicato, due giorni dopo, il 18 aprile, il Signore lo ha chiamato a sé a seguito di un mortale incidente stradale mentre viaggiava per andare a San Pedro per ultimare la preparazione della Conferenza e poi accoglierci ed accompagnarci nella vista alle missioni.

Tutto l’Istituto ne ha appreso la notizia con grande dolore assieme alla sua famiglia accogliendo con fede questa volontà e piano di Dio che solo in cielo un giorno comprenderemo. Tutti: la famiglia, i missionari e la gente che lo ha conosciuto sono grati per questa vita donata in modo instancabile per la missione in Costa d’Avorio.

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Necessariamente sono così cambiati anche i nostri piani perché la Conferenza della Delegazione non si è più potuta fare a causa delle tristi circostanze.

Abbiamo così iniziato a visitare i missionari nelle loro comunità e, in ognuna di esse, troviamo accoglienza, spirito di famiglia e tanto amore e dedicazione per la missione.

Il nostro viaggio è iniziato da Abidjan, dove siamo stati accolti da Padre John Baptist e dalla comunità del Seminario con i cui membri abbiamo avuto dei bei momenti di dialogo e di condivisione.

Con lui, lunedì 22 aprile, siamo poi partiti per la Missione di Marandallah arrivando quasi di sera accolti da padre Wema Meta e da padre Isac Josè Manuel. Il mattino dopo visitiamo il Centro Pastorale, la chiesa e il Centro di Salute, vera opera di consolazione per la gente del posto. Un po’ ovunque la gente si ricorda di tanti missionari passati in questa e altre missioni.

Dianra Village e Procure

Proseguiamo poi per Dianra Village e Procure dove ci accolgono padre Stefano Camerlengo, arrivato qui da pochi mesi, e padre Celestino Marandu, vice superiore della Delegazione. Incontriamo anche lo zio di padre Matteo che da novembre si occupa del laboratorio di biologia del Centro Sanitario Giuseppe Allamano.

Il giorno dopo, arrivano da San Pedro, padre Raphael Ndirangu, amministratore della Delegazione e padre Ariel Tosoni, animatore missionario e vocazionale. Entrambi hanno lavorato vari anni a Dianra ed in questo momento particolare potranno dare il loro valido aiuto. Rimaniamo a Dianra per tre giorni.

Nei giorni in cui siamo rimasti in questa missione molte persone, singolarmente o in gruppo, vengono a salutarci e a portare le loro condoglianze dimostrando il grande amore che avevano per padre Matteo.

Al mattino celebriamo con loro la messa e alla sera si recita il Rosario presso la grotta della Consolata; è sempre un forte momento di preghiera. Anche con i missionari abbiamo momenti di condivisione, dialoghi e offriamo il nostro incoraggiamento per il lavoro pastorale e missionario che dovrà essere portato avanti.

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Recita del Rosario presso la grotta della Consolata

Visitiamo anche la chiesa di Dianra Village, inaugurata da pochi mesi con splendide pitture che sono una vera e propria catechesi. Con la guida del dottore responsabile del Centro Sanitario vistiamo questa bella opera di consolazione per la gente che comprende i reparti di maternità, prevenzione, consulte mediche, degenza e uno studio dentistico. Che l’Allamano, a cui è intitolato il Centro, possa continuare a sostenerlo con l’aiuto e la collaborazione di tanti come fino ad ora lo ha sostenuto il nostro padre Matteo.

Missione di Sago

Venerdì 26 aprile partiamo per la missione di Sago nella Diocesi di San Pedro a sud del Paese. Vi arriviamo dopo un viaggio di 16 ore e con qualche difficoltà nell’ultimo tratto a causa della strada che è in brutte condizioni. Ci accoglie padre Gregory Cyprian Mduda che da otto anni lavora in questa missione con padre Celestino Marandu. Il giorno seguente ci porta a vedere la piantagione di Palme da olio, una delle risorse e un investimento della Delegazione, alla quale padre Gregory si dedica con passione, capacità ed una buona amministrazione, oltre a tutto il lavoro pastorale che con padre Celestino fanno in questa missione.

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Visita alla piantagione di Palme da olio nella missione di Sago 

Alla sera abbiamo avuto un incontro e momento di convivio con il consiglio pastorale ed il giorno seguente abbiamo partecipato alla messa domenicale della comunità animata da una bellissima corale. Abbiamo poi anche visitato la nostra scuola primaria.

Ringraziamo il Signore anche per questa bella parrocchia di Sago, la prima in Costa d’Avorio dedicata alla Consolata, dove i nostri missionari hanno iniziato a lavorare nel 1997. Da qui proseguiremo il nostro viaggio verso San Pedro e Grand Zattry.

* Padre Michelangelo Piovano, IMC, Vice superiore generale.

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