XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Pubblicato in Domenica Missionaria

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Il rischio dei talenti

Prv 31,10-13.19-20.30-31

1 Ts 5,1-6

Mt 25,14-30

Gesù racconta la parabola dei talenti per dirci che la nostra vita terrena in attesa della venuta del Signore deve essere una accoglienza operosa del Regno.

Un uomo parte per un viaggio e con tutta fiducia lascia ai suoi servi i suoi beni perché li amministrassero: a uno dà cinque talenti, a un altro due talenti e al terzo un solo talento, a ciascuno secondo le sue capacità.

Un talento rappresentava una somma enorme, equivaleva al valore di diecimila giornate lavorative. I servi consapevoli della bontà e della generosità del padrone devono beneficiare dei talenti ricevuti e farli fruttificare; il padrone tornerà ed esaminerà il lavoro fatto intorno ai talenti lasciati con tanta generosità.

Per san Matteo il talento, per il suo grande valore, suggerisce simbolicamente l’importanza di quanto i discepoli hanno ricevuto dal Vangelo; vuole sottolineare come l’evangelo sia un bene incomparabile, che va fatto fruttificare: “voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte” (Mt 5,13).

Il datore di tutti i talenti, Lui stesso si è fatto nostro talento prinicpale, perché ci ha lasciato se stesso ed il suo amore. Il 28 ottobre era la festa degli Apostoli Simone e Giuda Taddeo. Giuda Taddeo era cugino di Gesù ed è l’autore della lettera che nel Nuovo Testamento porta il

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suo nome; in questa breve lettera riporta il suo discorso al Vangelo, alla centralità di Gesù. Un’antica tradizione dice che Taddeo nei suoi viaggi portava con sé una immagine di Gesù per mostrare a tutti il volto divino che lo aveva rapito, al quale anche lui si era configurato.

“Guardiamo il glorioso san Paolo che mai si stancava di avere in bocca il nome di Gesù, come colui che lo teneva impresso nel cuore” (S. Teresa d’Avila).

“O Gesù, unico amore di tutte le creature” (S. Gemma Galgani).

Dio ci ha dato con generosità talenti di ordine spirituale e di ordine temporale. Quando Dio creò, dice un autore, fece la prima e straordinaria distribuzione dei suoi talenti: ad Adamo diede i talenti propri dell’uomo, ad Eva quelli della donna. (La donna operosa è da lodare come dice la prima lettura – anche Gesù nel Vangelo chiama due volte sua madre “donna”, nome umilissimo ed ineffabile).

I talenti non sono tanto le doti o capacità, sono piuttosto le occasioni che la vita offre, le responsabilità che siamo chiamati ad assumere, i compiti che ci vengono affidati (come i compiti dei genitori verso i figli).

Ad uno diede cinque talenti, ad uno due e a uno uno: perché Dio non ama la monotonia, e poi per dirci che l’unica strada di ingresso alla vita eterna è quella della carità; i talenti sono dati per adoperarli per gli altri, in vista degli altri: “chiunque avrà tenuto per sé qualsiasi grazia di Dio, senza trarne profitto per gli altri, diceva san Basilio Magno, verrà condannato per aver sotterrato il suo talento”.

“La bontà quella vera è la forma più alta dell’intelligenza umana” (Giovanni Paolo II).

Il servo che aveva ricevuto cinque talenti e quello di due amarono il loro padrone e fecero fruttare i suoi talenti – invece quello che aveva ricevuto un solo talento non ha amato il suo padrone, non ha voluto farsi arricchire da lui, non ha fatto del bene con il talento che ave

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va ricevuto: è come il sale scipito che non serve che ad essere buttato via e calpestato dagli uomini (Mt 5,13).

“Chi si priva della grazia, scriveva Rahner, non realizza neppure la natura”, per questo al terzo servo vien tolto anche quel talento che ha. La grazia divina urge all’anima come una sorgente: se le si lascia spazio cresce in fiume, ma se le si oppongono ostacoli prende altre direzioni. I santi dimostrano come si possano moltiplicare i talenti secondo la propria capacità. È da poco passata la festa di san Martino: di bontà incomparabile verso i bisognosi – di così grande attività e fatica tanto da attirarsi la compiacenza del Signore e anche l’ira del diavolo. Il 22 novembre è la festa di santa Cecilia – sapeva che il Signore è datore dei doni, anche dell’arte che lei coltivava, tanto che è la patrona dei cantori; ma specialmente lei cantava nel suo cuore, cantava un cantico nuovo, non tanto con la lingua ma con la vita – portava sempre sul petto il Vangelo, e notte e giorno non cessava di parlare con il Signore.

Al suo ritorno il padrone dirà a quanti hanno valorizzato i suoi talenti: “bene servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco (che conta non è tanto la quantità quanto piuttosto la qualità – fare con fede e amore), ti darò autorità su molto (questo molto è ‘un tesoro nel cielo’, Mt 19,21); prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Dio è gioia infinita: ci sarà una vita con una ricchezza superiore ad ogni nostra immaginazione. “Il premio divino è sproporzionatamente superiore all’opera prestata dall’uomo” (Lancellotti). “Non si spera mai troppo da Dio” (S. Teresina).

Nel dire “servo buono e fedele” le sue parole sono state accompagnate dal sorriso. Che cosa è più semplice di un sorriso? Eppure ha fatto osservare Saint-Exupéry, “un sorriso è spesso l’essenziale” si è pagati da un sorriso, si è compensati da un sorriso. Se porteremo sempre nel cuore almeno la memoria di un sorriso del Signore, ci sarà più facile lavorare, rischiare e conoscere la gioia prima ancora di essere convocati per la ricompensa.

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CRISTO RE

L’ultimo giudizio del Re

(Ez 34,11-12.15-17; 1 Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46)

Alla fine dell’anno liturgico la chiesa celebra la festa di Cristo Re. Nel Vangelo Gesù dice: “quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria...”. Gesù si chiama “Figlio dell’uomo”: colui che si è presentato come uno di noi si rivela alla fine come il giudice del mondo e della storia – il Figlio dell’uomo, che è stato umile nella sua esistenza terrena ma che in realtà è Figlio di Dio e ha diritto alla gloria più alta – il Figlio dell’uomo del quale gli Apostoli dovranno contemplare la sofferenza e la morte (Mt 16,21) è in realtà colui che tornerà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni (Mt 16,27).

I primi cristiani vedevano come essenza di questa festa quanto si dice nel Credo: “salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre Onnipotente”. Questa festa risale a Cristo stesso che, alla domanda di Pilato se davvero egli fosse Re, rispose: “tu lo dici: io sono Re” (Gv 18,37), precisando che il suo regno non è di questo mondo (Gv 18,36).

Gesù attira l’attenzione del governatore sulla natura singolare-eccezionale del suo regno: “il mio Regno non è di questo mondo”, ne procura la dimostrazione: “se il mio regno fosse di questo mondo i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei”.

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Ma in che cosa consisteva questo Regno che non era di questo mondo? Era il Regno che Gesù aveva annunziato con la sua predicazione: “egli ha dimorato in mezzo a noi pieno di grazia e di verità – egli ha annunziato ed instaurato il Regno di Dio e in sé ci ha fatto conoscere il Padre” (Paolo VI).

Nel processo Egli ne riassume il contenuto essenziale: “tu lo dici, io sono Re. Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. La dichiarazione di Gesù è indicazione fondamentale sul Regno. Cristo è Re in quanto dà testimonianza alla verità. Questa testimonianza comporta l’impegno supremo nel sacrificio.

Con il sacrificio Gesù stabilisce il suo regno. Egli è nato ed ha vissuto sulla terra in vista di questa testimonianza. È re con il dono totale del suo amore e della sua vita (Jean Galot).

Appaiono i due aspetti del Regno di Cristo: questo regno è regno di Dio e regno d’amore. Il regno di Cristo è il regno di Dio sulla terra, regno che si estende con la diffusione della vita divina. Il regno di Cristo è regno d’amore: “il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,42).

Ha voluto che il suo regno sia quello dell’amore. Il suo modo di agire è animato da un amore profondamente umile, desideroso di servire. Come re di questo regno, si attribuisce il solo privilegio di mettersi al servizio di tutti. Non vuole far piegare gli uomini sotto la sua autorità; si comporta come l’ultimo di tutti. (Santa Teresa de los Andes dice nel suo scritto “quanto mi costa farmi l’ultima in tutto. Gesù mi ha detto che egli stava sempre all’ultimo posto”).

Il potere sovrano che egli possiede tende ad elevare gli altri e a promuovere la loro dignità. Il Cristo Re viene

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festeggiato nella chiesa come re divino e re di amore (fean Galot).

Al giudizio universale che mette fine a tutta la storia umana, si manifesterà il potere glorioso di Cristo Re – davanti a lui saranno riunite tutte le genti (ecco che la morte, l’ultimo nemico, sarà eliminata) – Gesù eserciterà la sua autorità separando gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri.

Ma il Vangelo dice che nel frattempo Cristo Re rivela il suo regno mettendo il suo potere al servizio di tutti gli uomini, specialmente i poveri, gli ammalati, chi sono in difficoltà nella vita – è questa la rivelazione del regno di Cristo. Gesù si immedesima con tutti quelli che sono bisognosi, che soffrono – s’avvera “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli lo avete fatto a me”.

San Martino che aveva dato metà del suo mantello a un povero, di notte in sogno vide Gesù che gli diceva: “Martino, ancora catecumeno, mi ha rivestito con il suo mantello”.

Sant’Alfonso Rodriguez che era portinaio in una delle loro case di Gesuiti nell’isola di Maiorca, accoglieva tutti bene – un giorno venne alla sua porta Gesù stesso che gli disse: “Alfonso tu mi tratti sempre bene quando arrivo alla tua porta, anch’io ti tratterò bene quando arriverai alla porta del paradiso”.

Alla fine del mondo saremo giudicati sull’amore, sull’amore per Gesù manifestato nei suoi fratelli e nelle sue sorelle, che sono tutte le persone umane. Le opere di misericordia sono una via per rendere il mondo più bello dice il Concilio Vaticano II. Gesù è nostro re da sempre, ma un re nascosto, un re presente al nostro fianco, possiamo incontrarlo e onorarlo tutte le volte che vogliamo – “questi miei fratelli più piccoli”, tali sono coloro dietro i quali Gesù si tiene nascosto. Soltanto alla

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fine dei tempi il suo regno si manifesterà completamente quando consegnerà il regno, cioè tutti noi, al Padre.

“È proprio dell’amore abbassarsi” (Santa Teresina).

Il Vangelo ci dice che Gesù depone tutte le insegne della sua regalità e si nasconde nella oscurità della creatura umana più fragile, più umile e dimenticata – la su regalità è anzi legata proprio a questa scelta. Dobbiamo vedere Gesù nel povero, nell’affamato, nel malato, ma dobbiamo saper vedere Gesù anche nelle nostre ferite.

E la vera autorità è in Lui: “o mio Gesù! Chi potrà descrivere lo splendore con cui vi manifestate e far capire come Voi siete padrone assoluto del cielo e della terra e di mille altri mondi e infiniti cieli che la vostra potenza può creare! Alla vista di tanta maestà l’anima intende che tutto ciò sarebbe ancora nulla per un sovrano quale siete Voi. Qui si vede chiaramente, Gesù mio, quanto poco, in paragone di Voi, possano i demoni, e come uno che vi contenta possa mettersi sotto i piedi tutto l’inferno. La vostra maestà è di grande meraviglia, ma quanto maggior meraviglia suscita il vedere la vostra maestà unita all’umiltà e all’amore che portate a una creatura come me” (Santa Teresa d’Avila).

Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 20:12
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