Italia: la Chiesa è viva

Pubblicato in I missionari dicono
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P. Francesco Discepoli, domenica 7 gennaio durante il mandato missionario a Matteo Pettinari, era doppiamente emozionato: il giovane di Monte San Vito, infatti, oltre ad essere Missionario della Consolata, è anche figlio della Chiesa di Senigallia, proprio come lui che partì giovanissimo per il Sudafrica. Da qualche anno è in Italia per curare la formazione dei novizi, ma lui scalpita e spera di passare il prossimo Natale nel suo Sudafrica. Più che un desiderio, sembra una bella certezza.

Una nuova vocazione missionaria a Senigallia e per di più nel suo Istituto...
Siamo di nuovo di fronte ad un fenomeno comune nel nostro Istituto. Molte vocazioni arrivano dai seminari diocesani e questa è una bella cosa. Il nostro fondatore ha iniziato la famiglia dei Missionari della Consolata proprio partendo dal contesto diocesano. Vedendo che nella diocesi di Torino c’erano molti sacerdoti e seminaristi, gente che aspirava alla missione, ecco che lui indica la via della missione. Per cui questa intuizione iniziale continua ed è ancora valida. Il clero, prima di tutto, è quello che deve essere missionario. Se percepiamo un clero missionario, la vocazione missionaria entra nella vocazione cristiana, che purtroppo nell’Occidente è stata sdoppiata: vocazione cristiana, vocazione missionaria. Non si può essere cristiani senza essere missionari. Quindi il primo sentimento è questo, molto bello, perché Senigallia - di nuovo – dà un sacerdote per le missioni. Vuol dire che allora siamo proprio sulla linea buona come diocesi, per cui mi sento orgoglioso perché io appartengo a Senigallia. Ricordo quando sono partito, mons.Ravetta, fu contento a tal punto che diceva: “Non mi preoccupano molto se partono i seminaristi perché tanto se ne parte uno è segno che ne arriveranno altri”. Poi, dopo, mons.Odo Fusi Pecci mi ha accolto molto bene ed ha avuto un senso paterno nei miei confronti. Un vescovo che mi ha sempre impressionato e che si è sempre interessato, chiedendomi dove andavo e di andarlo a trovare.

Come cambia l’essere missionari?
Il nostro padre Allamano diceva che la vocazione missionaria è la vocazione di coloro che amano il Signore. Può sembrare molto superficiale detta adesso, ma detta ai suoi tempi era molto profonda. Intanto per missione lui intendeva la missione fuori, evangelizzazione tra i popoli, tra i più poveri, evangelizzazione a vita. Questo era tutto incluso nella parola missione e così si andava. Chi è che può andare? Diceva: questa vocazione è per coloro che amano il Signore. Amare vuol dire corrispondere all’amore del Signore, che si riscopre oggi nella nuova terminologia. E’ Lui che mi ama in proporzione della mia generosità e di quello che Lui vede in me. Mi chiama per una missione specifica nella Chiesa. Quindi, ogni cristiano, per il fatto di essere un altro lui che corrisponde al suo amore, diventa missionario e lui gli darà una missione. Può essere una missione a formare una famiglia, può essere una missione a una professione qualunque, può essere una missione ad essere sacerdote, ad essere religioso, ad essere contemplativo. Può essere missione anche, tra le missioni, la “missione”, quella proprio di andare, continuare il suo ministero. E’ una cosa molto bella. Questo è quello che si presenta oggi ai giovani. Una volta forse, almeno ai miei tempi, era molto più marcato l’andare, il fare del bene, il vivere con i poveri, la dimensione umanitaria. Grazie al cielo e al Concilio, questa dimensione umanitaria è passata ai laici e, quindi, noi riscopriamo la nostra vocazione, che è proprio questa: di continuare la presenza del Cristo risorto in mezzo agli uomini. Vocazione tutta privilegiata, proprio in mezzo agli ultimi, in mezzo a quelli che non conoscono Lui. Oggi si va in modo particolare come mandati da Lui. Quindi è un Lui che per Dio si fa uomo, accetta il vivere umano, vive la situazione umana in un modo diverso.

Chi è il missionario, oggi?
Oggi il missionario non porta più la sua cultura, se stesso. Deve scendere giù, nella situazione delle persone alle quali sei inviato. Perciò il primo passo è quello dell’incarnazione. Scendere allo stesso piano, cercare di capire, di essere accolto non come uno che va a dare ma come uno che accetta di camminare insieme. E’ su questo rapporto che la missione è cambiata moltissimo, per cui se io guardo a me stesso dico che noi siamo stati in un certo senso “favoriti” in Sudafrica in quanto per molti anni non ci hanno permesso di fare opere sociali. Una cosa meravigliosa perché allora siamo proprio dovuti scendere (bianchi nel contesto nero, quindi rigettati a lavorare in mezzo agli africani) e per forza dovemmo iniziare proprio da zero per cercare di essere accettati. Andare là come se uno non avesse quasi niente: un fratello in mezzo ai fratelli. E questo abbassamento, questo annichilirsi in mezzo alla gente è la missione di oggi.
E allora si sposta pure il concetto di missione. Una volta si parlava di missione solo pensando al terzo mondo. Oggi c’è un contesto di vera missione anche in Italia.

Ultima modifica il Giovedì, 05 Febbraio 2015 20:29
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