“Amo l’Allamano, l'Istituto e la Consolata”. I 25 anni di professione di Fratel Gerardo Secondino

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Gerardo Secondino è nato a Pietraperzia in Sicilia il 17 luglio 1959 e da poco ha compiuto 62 anni. Appartiene a una famiglia numerosa: Secondino è il penultimo di sei fratelli, cinque maschi e una femmina. I suoi amici dicono che è di una semplicità genuina, disposto a tutto e molto dedito al lavoro. Ama gli animali e può anche arrabbiarsi se qualcuno li maltratta; parla con loro e con le piante; gli piace vivere all'aria aperta e sentire la natura; apprezza l'amicizia e gli piace condividere. Coloro che hanno il privilegio di assaggiare i piatti che si diverte a cucinare, lo considerano anche un buon cuoco. 

In questa intervista, Gerardo confessa la sua passione per il Mozambico, dove è andato in missione per oltre un decennio; parla con emozione dell'esperienza di accoglienza e convivenza con i rifugiati musulmani con i quali si è impegnato negli ultimi due anni nella comunità dove vive, a Cacém (Portogallo), e rivela, senza esitazione, che se dovesse tornare indietro, sarebbe di nuovo un Fratello Missionario della Consolata.

Come è nata la tua vocazione?

La mia è una vocazione tardiva. Sono entrato nell'Istituto della Consolata all'età di 33 anni e ho fatto la scelta di consacrarmi come fratello perché era quella che mi attirava di più. La mia vocazione è nata nel Santuario della Consolata di Torino in un modo alquanto curioso. Mi occupavo di alcuni cavalli e ho avuto bisogno dei servizi di un contabile con un ufficio prossimo a questo luogo. Un giorno avevo bisogno di andarci e lui non c'era. Dato che il Santuario della Consolata era così vicino, ho deciso di entrare e un missionario della Consolata, che non ho mai conosciuto, stava celebrando la messa: nell'omelia parlò dell’impegno missionario. 

Rimasi colpito ma andai avanti con la mia vita per altri tre mesi. Tre mesi dopo sono tornato nello stesso santuario ma questa volta con l’intenzione di partecipare dell'eucaristia. In quell’occasione trovai un altro missionario che ha parlato di un'esperienza missionaria di giovani nelle missioni nel kenya per un anno. Questa esperienza soscitó il mio interesse così che feci un corso di swahili per imparare qualche parola e dopo un anno di preparazione... ero pronto. Quando è stato il momento di partire, il sacerdote che ci accompagnava mi ha detto: "Guardami: è inutile che tu vada in missione adesso, hai una vocazione missionaria". 

Qual è stata la tua reazione?

Sono andato immediatamente in crisi. Per tre anni non ho più messo piede alla Consolata. Ma la verità è che il tarlo della vocazione si agitava ancora in me. Dopo tre anni, sono tornato alla Consolata, ho incontrato lo stesso sacerdote, Álvaro Domingues, ed è iniziato il mio cammino vocazionale e missionario. Ho fatto il Postulandato, poi il Noviziato, poi la Prima Professione, il 25 agosto 1996, e subito ho cominciato a lavorare. Prima a Vittorio Veneto, dove avevo fatto il noviziato; lì ho lavorato come economo. Nel 1998 sono venuto in Portogallo, con l'obiettivo di imparare il portoghese e poi andare in Mozambico. Sono stati tre mesi nella comunità di Cacém e poi tre mesi di esperienza missionaria in Mozambico. Sono tornato in Italia, alla Certosa di Pesio, dove ho coordinato i lavori di ristrutturazione della chiesa che risale al 1173, e due anni dopo, nel 2000, ho fatto la Professione Perpetua. Poi ho lavorato per quasi due anni a Milano nel negozio di articoli religiosi che l'IMC aveva lì. 

Come ha reagito la sua famiglia alla sua vocazione? 

All'inizio mia madre e mia sorella non l'hanno accettato. È stato uno shock per loro. Mio padre era indifferente da un punto di vista religioso, invece mia madre era cattolica praticante e aveva persino un fratello prete, eppure hanno fatto fatica. Quando ho fatto la professione perpetua lì sí c’erano tutti e avevano accettato le mie scelte. Oggi i miei genitori non sono più vivi, sono in cielo. 

Parlaci della tappa in Mozambico.

Nel 2002 sono stato mandato in Mozambico, i primi tempi ho vissuto a Cuamba e poi il 6 gennaio 2003 sono andato a Maúa, dove sono rimasto per dieci anni. Lì ho svolto un lavoro pastorale nella parrocchia di São Lucas. Ho aiutato nella catechesi e nella preparazione ai sacramenti, specialmente al Battesimo e al Matrimonio. Per otto anni ho lavorato alla Scuola di Arti e Mestieri formando falegnami e muratori.  

Purtroppo la salute non mi ha accompagnato molto, venni in Italia per cure e i medici mi hanno suggerito di rimanere in Europa: rimasi qualche mese in Italia e nel 2014 sono stato destinato in Portogallo. Per due anni ho vissuto nella casa regionale di Lisbona, ma andavo con il seminarista (ora sacerdote) Geoffrey ogni giorno a Cacém, dove non c'era ancora una comunità residente. poi nel 2016 è stata aperta la comunità formativa di cui faccio ancora parte. Collaboro alla formazione dei seminaristi, cucino, mi occupo della fattoria, dell'orto, degli animali e di tutto ciò che è necessario.

C'è qualche situazione che ti ha segnato particolarmente come esperienza missionaria?

Sì, la Scuola di Arti e Mestieri di Maúa, che nasceva dalla necessità di formare persone in vari mestieri: muratori, falegnami... Gli studenti venivano dai villaggi molto poveri delle missioni e molti non avevano soldi per pagarsi gli studi. Hanno avuto l'opportunità di seminare e coltivare nei campi, per poi vendere parte dei loro prodotti e aiutare così la scuola a sostenere i costi della loro formazione. Il corso dalla durata di tre anni dava la qualifica di muratore o carpentiere, un diploma poi riconosciuto anche dal governo mozambicano. Un ricordo particolare: quello di due ragazzi molto poveri e anche con qualche handicap fisico che, concludendo la loro formazione, non smettevano di piangere. Anch’io mi emozionai moltissimo.

In Portogallo, nella vostra comunità di Cacém, avete ospitato alcuni rifugiati che hanno vissuto con voi per più di 20 mesi. Come ha vissuto quell'esperienza?

C'erano tre rifugiati: Ismael e Salim, entrambi musulmani, dal Sud Sudan, e Bright, dalla Nigeria. Anche se venivano da religioni e culture così diverse dalla nostra, si sono integrati così bene nella nostra comunità che il giorno in cui ci hanno lasciato, quando il programma era finito e avevano trovato lavoro, non riuscivano a trattenere le lacrime. La mia esperienza è stata molto buona. Ho apprezzato molto lo sforzo che questi ragazzi hanno fatto qui. È incredibile la loro storia. Ishmael, per esempio, ha viaggiato per cinque anni, attraversando deserti, il Mediterraneo in barche affollate e precarie, vari campi profughi fino ad arrivare qui. Tutti loro hanno fatto un grande sforzo, con molta umiltà e molta pazienza, per imparare il portoghese, per inserirsi in una cultura assolutamente diversa. Sono stati molto grati per quello che hanno potuto vivere con noi.

Come è stato possibile che una comunità formativa di cristiani cattolici consacrati (sacerdoti, fratelli e seminaristi) vivesse sotto lo stesso tetto con dei musulmani... Sembra una miscela di acqua e olio. Qual era il segreto?

Siamo semplicemente tutti rimasti noi stessi: nessuno ha cambiato il suo modo di essere o la sua religione. Ognuno rispetta l'altro così come vorrebbe essere rispettato. Se non si poteva mangiare maiale, si mangiava pollo o manzo... Nessun problema. Noi abbiamo detto le nostre preghiere e loro hanno detto le loro ma molte volte del giorno vivevamo assieme. Per me è stata una grande grazia, un'esperienza molto bella e positiva che ripeterei molte altre volte. L'amore era il segreto della convivenza e di tutto il resto.

Come vede la vocazione di un fratello oggi?

La vedo come se fosse sul punto di estinguersi. Una volta c'erano preti, fratelli, suore... Ora si parla quasi solo di laici; si sottolinea molto la vocazione laica, e sono felice per loro che sia così. Ma la vocazione del fratello è persa. Un laico è un laico. Ma la consacrazione alla vita consacrata è un'altra cosa. 

Pensi che la valorizzazione e l'emancipazione dei laici nella Chiesa abbiano svuotato, per così dire, la natura e l'identità dei fratelli come religiosi consacrati? 

La vita religiosa non ha ancora perso il suo senso; c’è ancora spazio per il fratello che è un consacrato. Ad ogni modo penso che sia necessario trovare un percorso specifico esclusivamente per loro. Nella quotidianità della missione, nelle sfide di tutti i giorni, il fratello può fare la differenza. Nella Scuola di Arti e Mestieri dove ho lavorato, in Mozambico, il ruolo del fratello  consacrato era molto chiaro. 

La vocazione di un fratello deve essere una vocazione molto umile. Non esistiamo per "fare rumore" e in questo ci avviciniamo a quello che diceva il nostro fondatore. Mi piace essere un fratello, dare una parola di conforto, ascoltare chi ha bisogno di parlare, essere ascoltato, aiutare chi ha bisogno di aiuto. Senza fare grandi cose, o castelli o cose enormi. Fare quel poco ogni giorno; quelle piccole cose che poi ti riempiono la vita. Qualche giorno fa è arrivato un giovane che cercava un sacerdote per confessarsi, aveva problemi con la moglie. In quel momento non c’era nessuno in casa. "Non posso confessarti, né posso darti l'assoluzione, ma posso sentirti, gli ho detto". E allora abbiamo  parlato, abbiamo parlato molto, lui ha spiegato la sua situazione e io ho cercato di aiutarlo con le mie povere parole ma è uscito calmo e sereno... e mi ha chiamato un momento fa. Sono queste le cose che arricchiscono la vita. Anche con i giardinieri che hanno orti nel nostro terreno spesso passo ore a parlare di cose della vita. Non ho dubbi sull'identità della vocazione del Fratello oggi. 

Non hai mai avuto crisi o pensato di rinunciare

Ogni giorno! Le crisi ti fanno crescere. Sono una sfida. Ma mi piace l'Allamano, mi piace l'Istituto, mi piace la Consolata. È stata lei a chiamarmi! È stato nella Chiesa della Consolata a Torino che ho incontrato i Missionari della Consolata!

Cosa ti rende più felice, fratello Secondino?

Stare con gli altri, parlare con gli altri, dialogare con gli altri. Non mi vedo come un monaco di clausura. Le mie radici sono nell'aperta campagna e nei boschi ma amo l’umanità. Se davanti a me ci fossero dei giovani direi loro di confidare sempre nella preghiera. La preghiera del cuore, non la preghiera meccanica, è l’unica che ti fa uscire dalle difficoltà. Direi loro: “non abbiate paura di aprire il vostro cuore a Gesù, alla Madonna, loro non ci tradiscono mai, ci aiutano sempre”. 

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