Mozambico. Un difficile cammino di chiesa ma con futuro.

Mons. Inácio Saure, arcivescovo della diocesi di Nampula in Mozambico Mons. Inácio Saure, arcivescovo della diocesi di Nampula in Mozambico
Published in I missionari dicono

Abbiamo parlato con Mons. Inácio Saure, Missionario della Consolata e arcivescovo della diocesi di Nampula in Mozambico. Queste alcune delle cose che ci ha detto.

Io sono Mons. Inácio Saure, Missionario della Consolata ma poco più di 10 anni fa sono anche diventato vescovo, prima della diocesi di Tete, dove tra l’altro si ricorda la prima presenza dei Missionari della Consolata, e poi dopo dell’archidiocesi di Nampula. A Tete ho passato i primi sei anni e a Nampula ho preso possesso come arcivescovo l’undici giugno del 2017, quasi quattro anni fa.

Le sfide di queste due realtà ecclesiali sono molto simili e forse anche molto classiche… una cronica assenza di clero e quindi parrocchie molto grandi e comunità non del tutto bene accompagnate, il necessario lavoro dei laici, una abbondantissima gioventù che sta affrontando anche tanti problemi e con pochissime prospettive di futuro. Così che tante cose uniscono queste due realtà ecclesiali del nord del Mozambico ma poi ci sono anche delle belle differenze. Per esempio Tete aveva una estensione appena superiore ai cento mila chilometri quadrati e invece la diocesi di Nampula, con 51 mila, è poco più della metà dell’anteriore ma lo stesso no si può dire della popolazione. Tete supera di poco i due milioni di abitanti e invece a Nampula, la diocesi più numerosa del Mozambico, ne ha più di 5 milioni.

In questo momento, e così sarà almeno finché non migliorano le prospettive vocazionali, a Nampula abbiamo 40 parrocchie, i sacerdoti diocesani sono 36 e i religiosi sono 12. Sono parrocchie grandissime… possono esserci anche 100 chilometri fra una e l’altra per cui i sacerdoti fanno il meglio che possono pero l’assistenza, evidentemente, non è l’ottimale. Poi abbiamo una popolazione giovanissima, nel 2020 avremmo dovuto celebrare a Nampula la seconda giornata nazionale della gioventù che alla fine è stata cancellata come conseguenza della pandemia del Covid19. La gioventù ha poche prospettive di lavoro, anche quella è forse una delle causa della guerra della regione limitrofe di Pemba e Cabo Delgado, e quindi è certamente una sfida per la nostra chiesa, ma allo stesso tempo è fonte di futuro e speranza per le famiglie e per tutti noi. Per esempio, a differenza di tante diocesi che vivono una crisi profonda da un punto di vista vocazionale, io sto vendendo con ottimismo la situazione vocazionale della mia archidiocesi. In maggio ho ordinato sette diaconi, è discreto il numero dei giovani nel seminario maggiore e ancora più significativo il numero di quanti sono nel propedeutico. Se le cose vanno avanti così magari fra qualche anno potremmo creare nuove parrocchie ed essere più vicini alla gente di quanto riusciamo a fare oggi.

La guerra di Cabo Delgado e i danni profondi anche nel cuore delle persone.

Vi posso dire che la situazione di guerra di Capo Delgado è drammatica… quella guerra non è cominciata ieri anche se sembra che i mezzi di comunicazione occidentali non l’hanno vista fino a non molto tempo fa. Io ero arrivato in diocesi da solo tre mesi quando, in ottobre 2017, è scoppiato questo conflitto che continua tutt’ora. I numeri ufficiali probabilmente non descrivono tutto il dramma che stiamo vivendo anche perché quasi sicuramente sono ridotti per difetto… eppure anche solo i numeri ufficiali, che parlano di più di 2500 morti e 750 mila, dicono tutto il dolore di questa situazione che stiamo vivendo giorno per giorno. Molti sfollati magari non sono mai usciti dalla regione di Cabo Delgado, ma vivono tutto il dolore di coloro che devono cercare di sopravvivere giorno per giorno. Poi ci sono quelli che hanno dovuto andar più lontano… solo a Nampula sono attorno ai 63 mila.

Molti arrivano senza niente; altri hanno famigliari che li accolgono ma a questo punto la povertà e la scarsezza di risorse “condivisa” con altre persone diventa ancora maggiore e in qualche caso si trasforma in vera fame; altri ancora, i meno, sono riusciti a portare a salvo qualcosa e poco a poco cercano di ricostruire la loro vita nelle regioni che li hanno accolti.

L’archidiocesi, anche contando con la solidarietà di ONG e chiese straniere, cerca di fare quel che può. Nella regione nella quale il governo ha cercato di riunire ed organizzare gli sfollati, a circa 50 chilometri dalla capitale, manca un po’ di tutto. Esiste un posto di salute ma mancano le medicine e la malaria, che è la patologia più comune, ha bisogno di un adeguato trattamento farmacologico… stiamo cercando di portare quei farmaci. La gente è alloggiata in tende ma queste nella stagione secca sono caldissime e quasi inabitabili, e nella stagione delle piogge sono umide e malsane… stiamo cercando di aiutare con la costruzione di semplici casette. Ci sono persone che arrivano sfigurate dalla violenza: donne che hanno visto assassinare i loro mariti, bambini che hanno visto la morte dei loro genitori… noi stiamo cercando di aiutare con un progetto di tipo psicosociale perché queste ferite, anche se non fisiche, possono avere conseguenze gravi e durature.

Evidentemente tutte queste cose, che sono pur sempre una goccia d’acqua in un mare di bisogni, non le possiamo fare con solo le nostre forze. Siamo infinitamente grati a tutte le persone e le chiese che stanno cercando di aiutarci… come per esempio una ONG ungherese, o caritas della diocesi di Stuttgard, in Germania.

Non è facile descrivere le cause di questo conflitto, certamente non c’è una sola causa in gioco… ci sono gli interessi minerari delle grandi multinazionali estrattive che hanno messo gli occhi sulle ricchezze di quel territorio; c’è la mancanza di opportunità e di lavoro per la gran massa dei giovani; c’è l’abbandono dello stato e quindi anche la povertà di servizi educativi e di infrastrutture basiche… tutto questo fa sì che tantissimi giovani pensino alle armi come una semplice opportunità per superare la povertà e la disperazione. Ci sarà forse anche la religione, non lo possiamo negare perché lì si uccide al grido di “Allah akbar” (Dio è il più grande) ma dobbiamo anche riconoscere che le comunità islamiche del Mozambico si sono subito allontanate da questi fanatismi probabilmente manipolati o pilotati con altri fini e che, nella storia del Mozambico, non si sono mai prodotti conflitti alimentati dalla religione. La nostra guerra civile, cominciata a metà degli anni settanta, era di tutt’altra indole.

Un messaggio di speranza

Ad ogni modo dobbiamo avere fiducia… sono certo che Dio, anche se stiamo vivendo tempi molto dolorosi, non mancherà di dare la pace al suo popolo che vive nel Mozambico. Certo questa pace non pioverà dal cielo e per questo è importante l’impegno prima di tutto delle autorità civili che devono cercare una soluzione al conflitto e una soluzione alle cause profonde dello stesso… è poi diventa anche un impegno di chiesa, un impegno per tutti noi, un impegno per tutti coloro che sono in condizione di fare qualcosa. Il Mozambico ha già pagato fino ad anni ancora recenti un duro prezzo alla guerra; diventa indispensabile pensare, volere e costruire un paese in pace.

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Last modified on Thursday, 10 June 2021 16:02

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