Padre Romanelli: Gaza, ‘gabbia’ dove le bombe uccidono (anche) la speranza

 Padre Gabriel Romanelli, parroco della chiesa della Sacra Famiglia nella Striscia di Gaza Padre Gabriel Romanelli, parroco della chiesa della Sacra Famiglia nella Striscia di Gaza Foto: M. A. Beaulieu/Terre Sainte magazine
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Il parroco racconta la drammatica realtà di una popolazione “ogni giorno” più disperata. Il conflitto che continua all’ombra della guerra fra Israele e Iran, lo spiraglio di nuove trattative per un cessate il fuoco. La prossima settimana Netanyahu alla Casa Bianca. Palestinesi di Gaza mostrano foto di bambini israeliani uccisi da Hamas il 7 ottobre. Il servizio è di Dario Salvi (AsiaNews).

“Gaza è diventata una gabbia, non solo una prigione a cielo aperto, in cui le persone sono ogni giorno di più disperate. Questa è la drammatica realtà, per questo oggi è ancora più importante seminare, in maniera realistica, un po’ di speranza perché finisca. Pregate e lavorate per la pace!”. È quanto racconta padre Gabriel Romanelli, il parroco della chiesa latina della Sacra Famiglia a Gaza, raggiunto al telefono in uno dei (rari) momenti in cui le comunicazioni con la Striscia tornano a funzionare dopo i blocchi dell’ultimo periodo imposti da Israele.

“La situazione – prosegue il religioso – diventa ogni giorno più difficile, perché lo stesso prolungarsi della guerra fa sì che le condizioni di vita siano ogni giorno peggiori”. Bombe, missili e operazioni dell’esercito israeliano continuano, e non si sono interrotte nemmeno durante la ‘guerra dei 12 giorni’ fra Israele e Iran. Anzi, le violenze erano ancora maggiori, se possibile, pur se oscurate dal conflitto fra Stato ebraico e Repubblica islamica che occupavano le cronache internazionali, mentre la diplomazia ha ripreso i lavori per raggiungere una (seppur fragile) tregua. 

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Foto: Asia News

Stanchi e disperati

“Nonostante tutto – afferma il parroco della Sacra Famiglia – cerchiamo di stare relativamente bene, però le persone sono molto, molto stanche. Molti dei nostri 500 rifugiati che ospitiamo in parrocchia sono depressi, perché non vendono alcun segno di una fine, a dispetto di qualche parola e molti annunci”. Al riguardo è di queste ore la notizia di un viaggio del primo ministro Benjamin Netanyahu negli Stati Uniti la prossima settimana, dove incontrerà il presidente americano Donald Trump. La speranza è che l’inquilino della Casa Bianca riesca a strappare un cessate il fuoco nella Striscia come avvenuto in precedenza con l’Iran, quando si è temuta una devastante escalation che avrebbe portato la guerra fra i due nemici storici su scala regionale, se non mondiale.

In questi giorni prendono nuovo vigore le prospettive di una tregua, ma ogni annuncio viene valutato con cautela e circospezione, per evitare di alimentare false speranze. “Dicono che vorrebbero, che dovrebbero, che forse questa settimana” potrà cambiare qualcosa, racconta padre Romanelli, “però al tempo stesso si continuano a sentire i frastuoni dei bombardamenti, piovono le schegge, la terra trema letteralmente e le violenze sembrano non finire più”.

La parrocchia ha cercato di portare avanti le attività quotidiane, pur in un contesto di crescente criticità. “Abbiamo finito l’anno accademico – afferma il religioso argentino del Verbo Incarnato – e avviato le attività dell’estate per i rifugiati, i bambini, i ragazzi e le famiglie. Tuttavia, abbiamo dovuto sospenderle, anche dentro il compound, perché in alcuni momenti il rischio è troppo elevato”.

“Ci sono tante schegge che cadono. Anche i profughi che accogliamo nel centro avvertono il pericolo. Si rifugiano in chiesa a pregare, o restano nelle loro stanze, anche se attraverso le finestre a volte entrano le schegge o veniamo colpiti dai tiri”. “Il caldo – racconta – è molto intenso, siamo vicino ai 40 gradi con una forte umidità. A volte riusciamo a ricaricare le batterie dei pannelli solari e usiamo un po’ il ventilatore, ma per periodi di tempo molto brevi e il sollievo è minimo”. In tema di scorte, da mangiare “ne abbiamo – sottolinea il parroco – perché ne abbiamo messo da parte durante l’ultima tregua, prevedendo un peggioramento. Basta per i rifugiati e per alcune famiglie vicine, due volte alla settimana riusciamo a cucinare, ci si arrangia come si può ma siamo costretti a razionare tutto ed è impossibile dire quanto le scorte potranno bastare. Non possiamo più aiutare decine di migliaia di famiglie come prima, grazie al Patriarcato latino”. 

Gaza e la guerra Israele-Iran

La guerra continua, anche se oscurata da eventi di cronaca regionale o internazionale che hanno occupato le pagine dei giornali. “Anche durante la ‘guerra dei 12 giorni’ fra Israele e Iran – ricorda il religioso – anche qui il conflitto è continuato, se possibile in maniera molto forte e ogni giorno si sono registrate decine e decine di vittime. Nulla è cambiato e le persone sono sempre più depresse, in molti hanno temuto una forza ancora maggiore come vendetta [per i missili iraniani che, in alcuni casi, hanno colpito il territorio di Israele]”.

“Continuavano i bombardamenti – afferma – si contavano più morti, più feriti, maggiori distruzioni per un dramma che continua, mentre non si vedono aiuti umanitari, un cessate il fuoco, l’apertura delle frontiere”. Nell’Anno giubilare non manca chi guarda al futuro “con una piccolissima, minima speranza. Tuttavia – sottolinea padre Romanelli – tante volte hanno parlato di cessate il fuoco. Il presidente Usa è riuscito a mettere fine alla guerra con l’Iran, e alcuni pensano che possa mettere fine anche al nostro conflitto in atto da 634 giorni”. Ciononostante, fino a che “non si vedono i frutti” di questi dialoghi, delle iniziative, “noi non ci illudiamo molto perché, dopo il dolore è ancora maggiore e ci priva ancor più delle forze, delle poche che ci sono rimaste. La disillusione è una moneta corrente qui a Gaza”. “Ogni persona di buonsenso – conclude il religioso – chiede la pace, che tutto questo finisca. La tregua è un primo passo assolutamente necessario per la società israeliana e per quella palestinese, perché le guerre fanno male a tutti, a tutte le parti, dappertutto vi sono famiglie ferite, società ferite e sfinite”.

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Le macerie di Gaza. Foto: Vatican News

I due volti della tragedia

In un quadro sempre più drammatico, non mancano iniziative di quanti vogliono mostrare entrambi i volti della tragedia dia Gaza, dove si continua a morire. Sofferenze che non conoscono confini e barriere, anche e soprattutto quando finiscono per colpire i più piccoli. Per questo gli attivisti di Standing Together stanno rilanciando in questi giorni – in cui si è tornati a parlare di una possibile tregua, con il rilascio degli ultimi prigionieri ancora nelle mani di Hamas – una iniziativa di alcuni abitanti della Striscia. Palestinesi, fra i quali anche genitori in lutto per aver perso i propri figli, che promuovono “silenziose manifestazioni di protesta” mostrando cartelli e immagini con le foto di bambini israeliani uccisi il 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco di Hamas.

Le manifestazioni, che intendono sottolineare quanto la tragedia della guerra colpisca (e dovrebbe unire) entrambi i popoli israeliano e palestinese, ricordano quelle in tutto simili organizzate dagli attivisti nello Stato ebraico “contro la guerra di sterminio a Gaza”. In passato, riuscendo a vincere anche l’opposizione delle forze di polizia che avevano vietato in un primo tempo la marcia, gli esponenti di Standing Together avevano marciato con le foto dei bambini palestinesi deceduti in quasi due anni di conflitto nella Striscia. Iniziative e manifestazioni, come quella che collega i bambini morti a Gaza per mano dell’esercito israeliano con quelli massacrati nell’attacco di Hamas del 7 ottobre, sono parte integrante del lavoro dell’ong arabo-israeliana. Un movimento di base che riunisce le comunità araba ed ebrea di Israele nella lotta contro l’occupazione militare dei territori palestinesi e la discriminazione razziale. Nato nel 2015 il movimento conta oggi migliaia di militanti e ha saputo assumere posizioni forti, anche di rottura con una fetta consistente del Paese, sul clima di guerra permanente, organizzando marce e manifestazioni in tutta Israele per chiedere la pace. Partendo dall’idea che la società israeliana sia ormai in uno stato di profonda crisi, l’ong co-diretta da Alon Lee Green e Rula Daood, vuole rappresentare e farsi voce di chi non si sente rappresentato o vuole continuare a perseguire i propri ideali di pace e convivenza.

* Dario Salvi, AsiaNews. Originalmente pubblicato in: www.asianews

Last modified on Thursday, 03 July 2025 16:28

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