Una Chiesa solidale con le vittime della guerra civile
Nel Myanmar tormentato dalla guerra civile, la popolazione cerca di resistere al calvario senza fine che sta attraversando, tra sfollamento, povertà, violenza.
Dopo il golpe militare del febbraio 2021 e l’organizzazione delle «Forze di difesa popolare» – milizie della resistenza composte soprattutto da giovani birmani -, la nazione del Sudest asiatico, secondo l’Armed Conflict Location and Event Data Project (Acled), organizzazione internazionale senza scopo di lucro, che raccoglie dati sui conflitti, è attualmente «il posto più violento del mondo», segnato da almeno 50.000 moti in un triennio e con oltre 2,5 milioni di sfollati interni.
Che nel Paese non vi sia alcuno spiraglio di pacificazione né di ritorno alla normalità lo testimonia il fatto che la giunta militare ha prorogato lo stato di emergenza per altri sei mesi, rinviando eventuali elezioni al 2025.
Intanto gli scontri tra le forze popolari e il potente esercito birmano infuriano e il fronte della resistenza ha ora creato un’alleanza militare con gli eserciti delle minoranze etniche, da decenni in rotta con il governo centrale, in cerca di autonomia e federalismo. Tale saldatura ha generato diversi successi e conquiste dei resistenti sul terreno, soprattutto nelle aree di confine, mentre la giunta continua a controllare le principali città, nel centro del Paese.
In questo scenario di violenza diffusa, i civili continuano a fuggire da città e villaggi per scampare agli scontri e per anziani, donne e bambini si presenta ogni giorno la sfida del sostentamento.
Un recente rapporto del programma Onu per lo Sviluppo (Undp) rileva che il 75% dei 55 milioni di birmani vive oggi in condizioni di estremo disagio, e il 32% della popolazione – nota la Banca Mondiale – è in grave stato di indigenza, con ben 13,3 milioni di individui prossimi alla fame, anche perché il governo militare continua a impedire l’ingresso di organizzazioni umanitarie internazionali nel Paese.
A queste necessità interne vanno incontro parrocchie e realtà cattoliche birmane, in un Paese dove la Chiesa conta 700mila fedeli e mostra di apprezzare i ripetuti appelli che papa Francesco ha rivolto alla comunità internazionale di «non dimenticare il Myanmar».
Le diocesi cattoliche organizzano centri di accoglienza in strutture come parrocchie e scuole, procurano e distribuiscono aiuti, provvedono al sostentamento dei rifugiati. Ma lo sforzo delle comunità cristiane non è solo di carattere umanitario e caritativo, è anche morale e spirituale: fatto di vicinanza, consolazione, condivisione della vita di quanti, per salvarsi, fuggono nelle foreste o in aree isolate e montuose, luoghi nei quali, però, trovare cibo è molto difficile.
Un’esperienza esemplare è quella del «vescovo-profugo» Celso Ba Shwe, pastore di Loikaw, la capitale dello stato Kayah, nel Nord del Paese, costretto dal novembre del 2023 a lasciare la sua cattedrale e l’annesso centro pastorale perché occupati dall’esercito birmano per farne una base militare.
Il vescovo ha trascorso mesi lontano dalla sua Chiesa, dedicandosi a visitare i profughi e celebrando con loro le festività religiose come il Natale, la Pasqua, la Pentecoste. Una condizione di precarietà che ha colto come «un’opportunità per essere più vicino al mio popolo, più vicino alla gente, che ha tanto bisogno di consolazione e di solidarietà», mentre oltre la metà delle chiese della diocesi sono chiuse e svuotate a causa della fuga dei fedeli.
Nella situazione di sfollamento e di tribolazione, il vescovo e i preti della diocesi hanno potuto farsi «pastori con l’odore delle pecore» – espressone di papa Francesco – condividendo la vita degli sfollati e continuando e cercare sostegno e speranza nella vita di fede, nella preghiera, nella celebrazione comunitaria dei sacramenti anche in mezzo ai boschi. La fede per loro resta un baluardo per resistere alle avversità del tempo presente.
* Paolo Affatato, rivista Missioni Consolata. Originalmente pubblicato in:www.rivistamissioniconsolata.it