CLAUDIO FATTOR. Sguardo furtivo nelle favelas di Rio

Padre Claudio Fattor in una foto recente ad Assisi Padre Claudio Fattor in una foto recente ad Assisi Tutte le foto Orlando Hoyos
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La parrocchia della Consolata di Rio de Janeiro.

Un ricordo molto bello della mia storia è legata alla pastorale fatta nella parrocchia della Consolata a Rio de Janeiro, in Brasile.

Ero appena tornato dalle vacanze e alla fine della messa si presenta un giovane nella sacrestia. Quando gli ho chiesto che cosa volesse lui mi ha raccontato di essere arrivato a Rio in occasione del carnevale, in mezzo a non si sa che fattaccio è stato picchiato, gli hanno sparato e poi portato in ospedale e da li dimesso perché era drogato. Non aveva un soldo in tasca, portava ancora attaccati i tubi di drenaggio e sputava sangue raggrumato. Gli ho chiesto di dove fosse e mi disse che era di São Paulo e così la sera stesso ho preso con lui l’autobus e sono partito per a São Paulo, a circa 430 chilometri di distanza. Arrivati a São Paulo mi confessa che è di Santos, altri 60 chilometri.

Alla fine siamo arrivati a quella che lui chiamava “casa sua” ma, oh sorpresa, lì non c’è più posto per lui, la sua ragazza adesso abitava con un altro. Abbiamo telefonato al papà ma questo l’aveva buttato fuori di casa e non aveva nessuna intenzione di riprenderselo con se, da lui seppi che era di famiglia agiata. Io non sapevo più che fare. Alla fine mi hanno salvato quelli del pronto soccorso che, appena l’hanno visto, l’hanno riconosciuto al volo come un drogato e subito acciuffato... a questo punto ho tagliato la corda e sono tornato a Rio, era finalmente con qualcuno che lo conosceva. Di lui non seppi più nulla. Le cose che distrugge la droga! E poi ne ho viste anche di peggio nel mondo della Favela, ne avevamo sei in parrocchia di questi quartieri disagiati, controllati da malavitosi e dove il narcotraffico era una cosa di tutti i giorni. Solo che là la gente non consumava, non poteva farlo, poteva solo vendere e dovevi assolutamente corrispondere tutto il dovuto ai capi. Se non lo facevi la prima volta ti perdonavano, la seconda volta ti bastonavano e la terza ti ammazzavano. La favela era così.

Il difficile mondo della favela

In quella favela c’era una cappella che aveva costruito il padre Ezio Roattino. Là c’era la famiglia del sacrestano che è stata quella che ha tenuto viva la famiglia. Una delle figlie, Angela, era sposata con tre figlie fra gli otto e dieci anni... dalla mattina alla sera il papà sparisce. Per aiutarla abbiamo messo in adozione, le adozioni a distanza, le tre bambine e lei l’ho fatta studiare perché fosse guida turistica.

L’ambiente era assolutamente complicato, quando entrava la polizia doveva farlo armata fino ai denti e spesso quelle visite finivano con una sparatoria. In una occasione stavo andando alla nostra cappella che era costruita in una piazzetta nella quale era risaputo che si spacciava droga, la strada era parecchio in saluta e solo alla fine, dopo un dosso, arrivavi sulla spianata della piazza. Davanti a me veniva una macchina che quando arrivò alla piazza scaricò due poliziotti fortemente armati che venivano a catturare quelli che spacciavano. Ho avuto fortuna quel giorno, i vigilanti armati del narcotraffico si sono ritirati alla chetichella, hanno abbandonato i venditori e non hanno aperto il fuoco. Se l’avessero fatto io sarei stato proprio sulla traiettoria dei loro proiettili.

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Purtroppo è sempre stato difficile realizzare un progetto stabile di pastorale, c’era la parrocchia principale e poi c’erano quelle immense favelas dove abitava un numero indeterminato ma molto alto di persone... avremmo dovuto essere di più dei soli tre padri che stavamo in quel momento nella parrocchia. Il tempo nelle favelas era limitato, potevi cominciare alle quattro del pomeriggio fino alle sei di sera. A quell’ora era meglio essere tornato a casa, quando diventava buio diventava pericoloso muoversi. Poi la difficoltà di trovare catechisti e lider locali. Ci aiutavano quelli che avevamo in parrocchia e ogni tanto qualcuno lo potevamo anche trovare, come Angela, ma la situazione sociale e umana di quei quartieri poveri era così complicata che difficilmente qualcuno si faceva avanti, oltre al fatto che la popolazione era molto fluttuante.

La nostra parrocchia di Rio de Janeiro era l’ultima parrocchia del centro, e la prima e famosa favela era quella della Mangueira, fondata da ex schiavi negri liberati nel 1880 ma subito allontanati da altri settori della città dove si erano stabiliti i palazzi del governo federale... e da sempre la favela è un mondo a parte, dove diventa perfino difficile aiutare. Ricordo il progetto degli asili nido pensati per permettere alle madri di almeno tentare di trovare lavoro. Dopo un anno gli asili non riuscivamo a mantenerli, come pagare i maestri che lavoravano lì? 

Allora ci siamo affidati al municipio che pagava le maestre non le contrattava in modo regolare, con pensione ed altri servizi. E come fa un municipio a fare queste cose? E poi c’era di mezzo la parrocchia, e con la parrocchia anche la diocesi. Se le cose non si facevano in modo legale alla fine erano prevedibili situazioni legali complicate e costose per la parrocchia e la diocesi. Abbiamo dovuto chiudere, ma era una risposta corretta ai bisogni delle donne e mamme della favela.

Non ti dico poi le ore di lavoro per file burocratiche, riscuotere i soldi spesso con molto ritardo e questi tra l’altro se li mangiava in parte l’inflazione che correva. 

Un’ultimo episodio per dirti i pasticci che bisognava risolvere in favela. Una volta uno dei capi (della mafia che vende cocaina che chiamavano droga bianca) aveva messo gli occhi sul salone della Cappella, con l’intenzione di mettere lì un’altro culto diverso dal cattolico. La gente si è spaventata tantissimo, anche la sacrestana aveva consegnato subito le chiavi e si era allontanata. Io ho chiesto un incontro con lui ma non c’è stato modo. Allora, per mezzo di un emissario, gli fatto avere questo messaggio: “guarda, tu vedi che noi facciamo fatica ad andare avanti, non vengono più di sette o otto persone alla messa, così che ti chiedo il favore di permettermi di vendere anch’io un po’ di coca sulla porta della chiesa... solo lì, è sufficiente, la piazza è tua e non la tocco. Così ci aiutiamo a vicenda”. 

La risposta era stata “non si può, tutto quello è mio” e il mio commento a continuazione questo: “e allora perché vuoi mettere concorrenza nella mia stessa cappella”. Ha capito al volo e non ha insistito di più. Ad ogni modo per dirti la forza che hanno queste persone, la loro autorità quasi sempre indiscutibile e indiscussa. 

*Claudio Fattor ha partecipato nel corso dei Missionari con 50 anni di ordinazione, questa narrazione è frutto di un dialogo avuto con la redazione del sito

Ultima modifica il Martedì, 30 Maggio 2023 20:58

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