Confessioni di un missionario. Riflessioni in occasione del 25° anniversario della mia ordinazione.

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to catartico e mi ha riconciliato con la realtà e con me stesso. Dianra stava crescendo rapidamente e cominciava a diventare una città che non la riconoscevo quasi più, stavo tornando a un paese che amavo ma questo era diverso. 

Sono stati anni bellissimi: organizzare la parrocchia di Marandallah, avviare la parrocchia di Diandra Village e gestire contemporaneamente due centri sanitari. Era una follia, ma parlavo la lingua, vivevo in una comunità serena, ero concentrato e il dialogo con i musulmani cominciava a prendere forma in una normale quotidianità. Gestire i centri sanitari con un deficit così alto è stata una sfida, ma sono riuscito a ribaltare la situazione: semplicemente bastava non rubare più.

Poi è arrivata la notizia bomba: non mi aspettavo affatto di essere nominato superiore e sono stato colto alla sprovvista. Mi sono sempre considerato un buon secondo ma un pessimo primo. Ho ritenuto che la missione fosse finita per me: lasciavo il Nord, i Senoufo, l'ambiente musulmano, i centri sanitari. Grazie alla vita comunitaria di San Pedro con un congolese e un etiope Dio mi ha riconvertito e ho trovato il mio nuovo posto nel mondo: l'inserimento in un quartiere popolare; la vita quotidiana con i vicini, al di là del credo; le preoccupazioni per i tantissimi bambini che avevo tutt’intorno; l'accompagnamento dei giovani e delle famiglie. Ho vissuto momenti di grande pedagogia e vicinanza anche nella preparazione dell'Eucaristia e nel messaggio che ogni domenica dovevo trasmettere. 

Ad ogni modo ho dovuto affrontare situazioni molto difficili all'interno della comunità: confrontarmi con qualcuno che non aveva più la vocazione; affrontare persone con odi viscerali; perdere il sonno per questioni legate alla proprietà di un terreno e una situazione economica sempre sull'orlo del baratro. Alla fine ero stanco e forse un po' sconfitto anche se orgoglioso di aver almeno recuperato almeno un missionario che sembrava non avere nulla da fare nell'Istituto. Poche cose sono migliorate dopo il mio mandato.

Il corso di Roma del febbraio 2020 mi ha fatto bene: forse era arrivato il momento di lasciare, mi sento legato a persone e situazioni ma non alla nostra missione. 

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La missione in Messico

È in questo contesto e in questo momento che il Messico mi viene incontro. La comunità intesa come amicizia è stata una bella sorpresa da queste parti, non sempre si è così fortunati.

L'inserimento a San Antonio Juanacaxtle, a 30 km da Guadalajara, nello stato di Jalisco, è stato marcato dall’emergenza del coronavirus e dai successivi lockdown. Ho colto l'occasione per leggere e guardare film messicani e mi sono preso del tempo per comprendere una realtà vasta, storica, prolungata e ricca dello stato di Jalisco con le sue peculiarità.

Quest’anno e mezzo messicano è stato dominato dall’ascolto, dal ministero della consolazione, dalle lacrime condivise e dalla vicinanza a situazione ingiuste e disperate. La violenza nella famiglia mi ha scioccato; l'abuso sessuale e di genere nella stessa famiglia mi ha sconvolto;  l’aggressività diffusa in base alla quale si possono prendere decisioni che stroncano la vita degli altri mi ha allarmato. 

Quella messicana è una società accogliente, che ama fare festa ma dove è meglio non sbagliare il proprio posto seguendo le "buone maniere" e i cliché prestabiliti. Due quartieri sono diventati parte della mia vita: El Faro e Villas Andalucía: due depositi di speranza e di solitudine per giovani famiglie e per persone emarginate dalla società.

Continuo a ringraziare l'Abbà Dio per essere arrivato fin qui e per avere l'opportunità di continuare a fare della mia vita una parabola della passione con cui Gesù si è schierato a nostro favore, a favore dell'umanità.

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