Punti di riferimento
La confessione dell’Amore Trinitario di Dio, la preoccupazione e l’urgenza di comunicare il Vangelo di Gesù Cristo quale annunzio di salvezza per l’umanità, sono i tratti essenziali dell’insegnamento e della testimonianza di Giovanni Paolo II. Questa fontale professione di fede riecheggia solennemente nelle prime pagine dell’Esortazione Apostolica post- sinodale Ecclesia in Africa (EA) con le fondamentali espressioni del “Credo”. L’intero documento è pervaso da riferimento al mistero di Cristo e della sua Chiesa. Tutto è retto dalla “passione” per Cristo tanto da cogliervi, oltre le parole, un’ autentica esperienza vitale del Suo mistero.
Convinto che :”Lui solo, con il suo Vangelo e la sua Chiesa, può salvare l’Africa dalle sue attuali difficoltà e guarirla dai suoi numerosi mali” (n.10), il Papa focalizza il suo pensiero sulla persona africana alla quale far conoscere Cristo in pienezza, perché ne faccia esperienza di salvezza e liberazione.
Il documento quindi non intende offrire dei sistemi teologici o pastorali, ma cerca di indicare un cammino perché i cristiani di oggi, in un Africa che muta, possano vivere realmente di Cristo e diventarne testimoni e annunciatori per quanti ancora non lo conoscono o non aderiscono a Lui.
Il cambiamento
I profondi mutamenti che hanno preceduto e accompagnato l’indipendenza politica del continente africano hanno avuto molteplici riflessi nelle varie culture locali e nelle religioni radicate in Africa. L’evoluzione politica, economica ed ideologica, soprattutto degli ultimi cinquant’anni, si manifesta non solo nel mutato modo di vivere delle popolazioni africane, ma molto di più nel modo con cui si pongono e colgono la loro e l’altrui contemporaneità.
L’antica tradizione in cui ogni africano comprendeva la realtà e se stesso, rimane una memoria profonda, punto fondamentale per comprendere la propria origine, ma non basta più a spiegare il presente e prospettare il futuro. Nessuna delle proposte imposte o giunte dall’esterno, colonialismo, ideologie totalitarie, dottrine religiose o globalizzazione, sono riuscite nell’intento di divenire un paradigma ermeneutico ed esistenziale autentico per l’Africa.
Il continente ha colto le potenzialità offerte dalle conoscenze tecnico-scientifiche, dal progresso, dal benessere, dall’economia, dallo sfruttamento delle risorse naturali, dallo sviluppo, come dai concetti di politica e democrazia, bene comune e diritti delle persone. Tuttavia questi non sono stati assimilati come elementi per una nuova visione di sé della persona africana.
Vengono usati per quello che offrono, e quindi intensamente ricercati, ma non bastano per spiegare quello che si è. Da questa percezione nasce una profonda dicotomia tra il bisogno/ desiderio di vivere nell’oggi dominato da elementi nuovi e la ricerca di ragioni per cui vivere, presenti in un passato che non spiega più il presente. Si vive così secondo un modello in cui il cuore/ sentire non solo non è coinvolto, ma ne è estraneo, un modello che è più oggetto di giudizio negativo che d’amore e rimane al di fuori di una dimensione culturale profonda.
La presenza del cristianesimo
Nel quadro degli elementi problematici sembra collocarsi sempre più anche il cristianesimo, nonostante l’Africa stia mostrando un’esuberanza religiosa che attira spiritualisti di ogni specie.
L’Africa non sta rifiutando il cristianesimo. Là dove si è cercato di farlo introducendo con la forza l’ideologia marxista, se ne è vista ogni volta l’inutilità del tentativo. L’Africa ha generato forme di vita cristiane che apparivano ottimali ai missionari europei. L’Africa riempie ancora i luoghi di culto e celebra affollate liturgie gioiose e commoventi.
Ma il cristianesimo non è divenuto l’anima dell’Africa e sembra destinato a non esserlo ancora per molto tempo, perché ha assunto il volto di tante divisioni e dottrine e di molteplici ordinamenti etici che non riescono ad avere un impatto vitale se non in forme di sincretismo che l’africano ha operato e che le snatura tutte.
La vita, che per l’africano è una categoria essenziale, passa e va alle radici soltanto attraverso il dialogo e il contatto personale. I missionari puntavano a far “conoscere” la loro fede e ad ottenerne l’adesione della mente, mentre gli africani aspiravano all’evangelizzazione delle emozioni e del cuore dato che, come dicono alcuni di loro, “la persona è il suo cuore e Dio è il compagno del viaggio della vita”.
Da queste diverse prospettive non poteva non nascere ciò che oggi risulta evidente: il cristianesimo appartiene spesso al mondo dell’apparire europeo, mentre il bisogno di spiritualità risale a quello dell’essere africano.
Giovanni Paolo II ha dunque il merito di aver lanciato con coraggio e forza il grande progetto di una nuova evangelizzazione dell’Africa, il cui contenuto sta nella proposta di senso del cristianesimo per l’Africa del nostro tempo. Di quell’Africa che ha percorso un lungo cammino, ma affronta oggi una crisi profonda e che richiede una vera ricostruzione di sé a livello socio-economico-politico-spirituale-religioso.
Partire dalle radici
Il Papa comprese l’urgenza di questo nuovo impegno già nel suo primo viaggio in Africa compiuto nel 1980. Ai giovani della Costa d’Avorio, l’11 maggio di quell’anno, raccomandava: “…custodite le vostre radici africane. Salvaguardate i valori della vostra cultura. Voi li conoscete e ne siete fieri: il rispetto della vita, la solidarietà familiare e l’aiuto a genitori, la deferenza verso gli anziani, il senso dell’ospitalità, la saggia conservazione delle tradizioni, il gusto della festa e dei simboli, l’importanza del dialogo e della parola per risolvere i diverbi. Tutto ciò costituisce un vero tesoro da cui voi potete e dovete prendere del vecchio e del nuovo per la costruzione del vostro paese elaborando un modello originale e tipicamente africano, fatto d’armonia tra i valori del passato culturale e i dati più recepibili della civiltà moderna”.
Se si confronta questo testo con la prassi evangelizzatrice che ha generato l’Africa cristiana e poneva il mondo occidentale come parametro su cui misurare il proprio futuro, se ne comprende tutta la portata innovativa per una possibile ricostruzione, anche cristiana, dell’Africa .
Questo tema venne ribadito più volte da Giovanni Paolo II, soprattutto in occasione delle visite ad limina dei vescovi.
Il vero momento forte fu tuttavia la celebrazione del Sinodo per l’Africa dal quale sgorgò un nuovo impegno sociale, politico, missionario concreto e nuovi orientamenti per la ricostruzione dell’Africa. L’Assemblea ha compiuto una seria rilettura dell’evangelizzazione del continente africano, ha rimesso in questione molte cose e ha elaborato progetti di futuro per le chiese africane. Si può dire che con essa, la Chiesa d’Africa ha rotto, senza annullarlo, con il passato e allo stesso tempo ha prospettato qualcosa di nuovo per il proprio futuro.
Al di là delle insoddisfazioni di alcuni teologi e anche se non si è celebrato un concilio africano, come taluni chiedevano, il Sinodo ha permesso alla Chiesa d’Africa di mostrare la maturità raggiunta, di saper rivolgersi collegialmente sulla propria vita, di valutare con obbiettività il secolo di evangelizzazione appena trascorso e di voler prendere il proprio posto nella Missione della Chiesa apportandovi il profilo del proprio volto africano.
Basta scorrere l’elenco dei temi trattati e degli impegni assunti per comprendere chiaramente la consistenza del discorso sinodale: l’evangelizzazione del continente africano, l’inculturazione, il dialogo interreligioso, la giustizia e la pace, le comunicazioni sociali, la nozione della Chiesa – Famiglia di Dio, la formazione degli agenti e dei soggetti dell’evangelizzazione. Sono soltanto quelli che hanno avuto maggiore risonanza.
Il bisogno di Vangelo
Il grande lavoro dell’Assemblea sinodale e la consistenza del medesimo è stata la prima lezione impartita dalla Chiesa africana e recepita da Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica Ecclesia in Africa” . L’Assemblea dava visibilità al successo di una prima fase dell’annuncio del Vangelo in Africa. Non veniva velata in alcun modo la molteplicità delle debolezze storiche, politiche,collettive e personali che avevano attraversato il cammino della evangelizzazione ma si proclamava con convinzione che la Buona notizia dell’amore di Dio per ogni persona rivelatosi in Cristo Salvatore, era giunta ed aveva un suo posto in Africa. E dalla gioia di questa constatazione nasceva una duplice prospettiva: bisognava andare oltre, scendere in profondità.
Nasce da qui l’urgenza di ricollegare strettamente l’Africa alla Missione, non più intesa come l’attività missionaria del passato, ma come coscienza di un annuncio che non è stato ancora portato ovunque e di una trasformazione ancora non attuata pienamente.
Quando il Papa cita i vescovi che denunciavano che “… In un mondo controllato dalle nazioni ricche e potenti, l’Africa è praticamente divenuta un’appendice senza importanza, spesso dimenticata e trascurata da tutti” (40), ricorda implicitamente che è possibile far cadere nell’oblio anche i bisogni di evangelizzazione che persistono nel continente.
Il testo anela una tensione collettiva che parta dall’Africa, e mentre coinvolge le chiese locali attiri nell’orbita della evangelizzazione del continente la solidarietà e la comunione di tutte le chiese. Infatti, la missione è, prima di ogni altra cosa, vincolo di carità che unisce le chiese e le rende sollecite dell’annuncio del Vangelo ovunque, ma in modo privilegiato là dov’esso non è ancora giunto; è ancora il caso dell’Africa dove i cattolici non sono più del 14 per cento della popolazione.
Nel contemplare il volto della Chiesa in Africa su cui si intravede tutto il senso del già e del non ancora, il Papa coglie l’espressione della natura missionaria di tutta la Chiesa: essa è sempre nata dalla missione, esiste per la missione, ha sempre bisogno di missione.
Il bisogno di vicinanza
Dimensione teologale ma anche esistenziale della Chiesa, la missione si attua nei contesti dell’umanità, si visualizza nel concreto della storia umana, seguendo le orme del suo Signore che pur essendo di natura divina si è fatto carne per porre la sua abitazione in mezzo a noi.
Il documento post sinodale è gravido di questa verità cristiana e il Papa la prende come dimensione fondante della missione in Africa. Come nel suo progetto missionario Dio sceglie ciò che è debole nella creatura umana per avvicinarsi ad essa e la sua misericordia è attratta da ciò che in essa è più fragile, così l’annuncio della Buona notizia si rivolge a ciò che dell’umanità e più debole, solo embrione di vita vera.
Si tratta di un richiamo fondamentale perché non sono poche le voci anche cristiane che oggi guardano con diffidenza all’Africa. Le si rimprovera tutto ciò che non è secondo i parametri esterni ad essa, si diffida dei suoi bisogni, ci si sente frustrati da aspettative mancate. Alcuni missionari entrano in crisi perché l’Africa non da più soddisfazioni, vi si colgono pretese e rivendicazioni, si avvertono rifiuti inconsci e manifesti che generano solitudini e senso di fallimento.
Senza negare il valore di una attività missionaria che cerchi ancora di dare sollievo a questi e ad altri mali che facilmente si individuano nel continente, come fece il buon Samaritano del Vangelo (n.41) l’EA induce la missione a passare ad un livello molto più profondo quello cioè della condivisione della fatica di vivere propria dell’Africa.
Scrive il Papa: “ per un lungo periodo regimi, oggi scomparsi, hanno posto a dura prova gli Africani ed hanno indebolito la loro capacità di reazione: l’uomo ferito deve ritrovare tutte le risorse della propria umanità. I figli e le figlie dell’Africa hanno bisogno di presenza comprensiva e di sollecitudine pastorale” (41).
Tutta l’esortazione apostolica è pervasa da una nota nuova in un documento papale: l’attenzione e la vicinanza alla dimensione vitale della persona africana. I numeri che vi si soffermano sono molteplici e a volte ripetitivi. L’insistenza si giustifica perché è questa la caratteristica che il Papa vuole immettere nella missione che affida alla Chiesa d’Africa.
Essa potrà annunciare il Vangelo solo partendo da un atteggiamento di condivisione della filosofia dei popoli africani e delle necessità vitali delle persone. Ciò significa che l’approccio missionario non può partire da un dispiegamento di verità sistemate in complesse teologie. Al cuore degli africani esse paiono una vera mancanza di pudore di fronte al mistero di Dio e della vita, che non si piega con la dialettica di sottili argomentazioni, ma con il riconoscere i segni che rinviano alla stessa e a Dio.
Solo l’intuizione, ossia il lento procedere verso il mistero, permette di coglierne la visibilità e di comprendere le manifestazioni del divino. E solamente la profonda semplicità del linguaggio permette di esprimerlo come se si trattasse di un’evidenza che appartiene al quotidiano della vita.
E’ la vita che rimanda a Dio, ne coglie l’esistenza, ma anche la presenza.
Nella forza della vita
Nelle religioni tradizionali africane la vita, la sua sacralità, il rispetto ad essa dovuto rivestono un’importanza fondamentale. Scrive mons. Peter Sarpong, vescovo di Kumasi: “ Per l’africano la vita è sacra, bisogna viverla, deve essere comunicata, essere felice, lunga, condivisa e rispettata. Nessuno può essere privato della vita senza ragioni molto gravi. Presso alcuni popoli, persino uccidere durante una battaglia era una colpa che veniva “lavata” con un bagno rituale”.
La ricerca di una vita piena ha come correlativo intrinseco l’esperienza e la ricerca di Dio che della vita è fonte e ragione. In tutto e ovunque è necessario promuovere la dignità e accrescere la forza della vita fino ad attingere all’abbondanza di essa offerta da Cristo Signore.
Ne è profondamente convinto anche il Papa che afferma: “ L’Africa non è votata alla morte, ma alla vita…E’ dunque necessario che la nuova evangelizzazione sia centrata sull’incontro con la persona vivente di Cristo… Compito questo facilitato dal fatto che l’africano crede in Dio creatore a partire dalla sua vita e dalla religione tradizionale. E’ dunque aperto anche alla piena e definitiva rivelazione di Dio in Gesù Cristo, Dio con noi, Verbo fatto carne”(n. 57).
L’annuncio cristiano rimane estraneo all’Africa se non proclama con audacia che la Vita è la luce per l’umanità, e non comunica la prossimità vitale del Verbo fatto carne. Unicamente da qui può partire un vero progetto missionario per l’Africa e soltanto gli africani lo possono elaborare in modo credibile, attuando le parole pronunciate a Kampala nel 1964 da Paolo VI ( che l’EA cita) : “Africani, voi siete ormai missionari di voi stessi”(n. 56).
L’obbligo dell’inculturazione
Tale nuovo progetto di annuncio del Vangelo non può prescindere da un rigoroso cammino di inculturazione. Giovanni Paolo II dedica l’intero terzo capitolo dell’EA alla elaborazione del tema. La primordiale giustificazione dell’inculturazione si colloca nello stesso mandato missionario di Gesù agli Apostoli, di andare a predicare il Vangelo in tutto il mondo. L’universalità della Missione implica necessariamente la sua differenziazione nella molteplicità di popoli a cui è destinata.
E’ una sorta di dato scontato, che si intuisce d’istinto. Suscita meraviglia il fatto che se ne parli come di qualcosa che deve ancora avvenire, in modo sufficiente ( pur riconoscendo che in Africa si stiano compiendo sforzi lodevoli in campo teologico, liturgico e pastorale) dato che sembra scontato che in nessun luogo il cristianesimo può essere vitale se estraneo alla cultura che lo accoglie. Ogni messaggio dell’annunciatore viene necessariamente trasmesso ad un destinatario che lo recepisce con le proprie categorie culturali e mentre lo accoglie, lo trasforma.
L’inculturazione inoltre non è soltanto una condizione per l’accettazione del Vangelo, ma una necessità per divenirne testimoni, elemento fondante la stessa credibilità dell’annuncio.
Si legge quindi con gioia il numero 59 dell’EA che afferma: “I Padri sinodali hanno a più riprese sottolineato l’importanza particolare che riveste per l’evangelizzazione l’inculturazione, quel processo cioè mediante il quale la “catechesi” s’incarna nelle differenti culture” (n59).
Affermatane la necessità, il documento ne esamina modi e ambiti, lasciando tuttavia l’impressione che non si vada molto oltre le idee generali della recente ricerca teologica. Una scossa sorprendente per la chiarezza del linguaggio e la profondità dell’argomentazione viene invece proposta dal numero 78 : “ A motivo della profonda convinzione che la sintesi tra cultura e fede non è solo un’esigenza della cultura, ma anche della fede, perché una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta, l’Assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi ha ritenuto l’inculturazione una priorità ed una urgenza nella vita delle Chiese particolari in Africa: solo così il Vangelo può porre salde radici nelle comunità cristiane del continente. Sulla scia del Concilio Vaticano II, i Padri sinodali hanno interpretato l’inculturazione come un processo comprendente tutta l’estensione della vita cristiana – teologia, liturgia, consuetudini, strutture -, della Chiesa senza ovviamente intaccare il diritto divino e la grande disciplina della Chiesa… La sfida dell’inculturazione in Africa consiste nel far si che i discepoli di Cristo possano assimilare sempre meglio il messaggio evangelico, pur restando fedeli a tutti i valori africani autentici. Inculturare la fede in tutti i settori della vita cristiana e umana si pone quindi come compito arduo, per il cui assolvimento è necessaria l’assistenza dello Spirito del Signore che conduce la Chiesa alla verità tutta intera (cfr Gv 16,13) (n.78).
In questa lunga citazione l’inculturazione non viene presentata come un ulteriore paradigma teologico entro il quale la dottrina debba essere nuovamente riflettuta, elaborata e poi trasmessa in modo “africano” per essere meglio compresa. Senza negare il valore della riflessione, è soprattutto l’elemento esperienziale, il vissuto della fede, il processo di formazione a un autentica vita di fede che da il volto all’inculturazione.
L’Africa conosce già tanti esperti di inculturazione, ha luoghi elitari in cui temi teologici inculturati sono espressi in categorie e simbologie africane. Ma ciò ha finito col trasformarsi in una nuova “teologia” accanto a altre, senza giungere a coinvolgere la vita delle comunità cristiane.
L’inculturazione non è una diversa concettualizzazione del cristianesimo , ma il processo di identificazione del credente con ciò che crede e quindi sente come suo. Si tratta essenzialmente di una questione di senso: fino a quando la fede non occupa nel cuore del credente africano il livello emozionale, non ha il riferimento vitale che prima della sua “conversione” occupava la religione tradizionale, non si potrà parlare di vera evangelizzazione.
L’esperienza religiosa tradizionale dell’Africa parla, senza grande mediazione concettuale, al cuore dell’africano perché riempie di significato l’esistenza e le cose che sono. Vi è in essa una autentica presenza dello Spirito di Dio che sempre agisce nella storia dell’umanità e l’africano sente come propria e riconosce nello scorrere della vita quotidiana. L’inculturazione deve necessariamente fare riferimento a questo dato esperienziale del sentire religioso africano, lasciando che giunga alla verità tutta intera con la lentezza del grano di frumento che prima di dare frutto ha bisogno di un lungo processo di trasformazione.
L’inculturazione sarà dunque vera nella misura in cui partirà da elementi di vita concreti quali la innata relazione con Dio attraverso la preghiera e il sacrificio cultuale, la venerazione profonda e il legame con gli antenati, la salute e la malattia, la famiglia, il matrimonio e la vedovanza, i legami tribali e le relazioni con le strutture sociali e interpersonali, per giungere poco alla volta a cogliere tutta la propria esistenza come una realtà pervasa dallo spirito del Vangelo e non dissociata da esso.
Questo processo non può che generare, nello stesso contesto africano, tante diversità quante sono le culture del continente. L’essenziale sta nel fatto che ogni africano deve poter dire di sentirsi pienamente persona perché interamente cristiano, e quindi sentire il Vangelo schierato dalla sua parte, sia nella proposta di cambiamento che gli viene richiesta come nella potenzialità di essere se stesso che gli viene offerta.
Da qui potrà inoltrarsi la Missione in Africa. Memore del primordiale sforzo di evangelizzazione del continente, la Chiesa d’Africa troverà già in quei primi inizi questa metodologia apostolica.
I missionari normalmente incontrarono ambiti di assoluto primo annuncio e furono obbligati a comprendere che senza una mediazione africana non avrebbero fatto giungere il Vangelo ai loro uditori. I catechisti, spesso poco preparati e per nulla familiarizzati ai grandi temi della teologia, trasportavano ciò che loro comprendevano nei villaggi e nei centri dove la gente viveva. Era il loro catechismo che le persone accoglievano, era la loro vita che esse comprendevano. I missionari contavano più per gli aiuti di cui disponevano che per l’incisività delle lezioni che impartivano.
Paradossalmente, più il cristianesimo si è diffuso ed elaborato, ha generato strutture imponenti, si è identificato con numeri, statistiche ed opere, più si è allontanato dalla vita della gente.
Nuovo progetto missionario
Un nuovo progetto di missione per l’Africa non può partire da una retrocessione storica che annulli i mutamenti e i valori acquisiti nel tempo, ma non può neppure prescindere da un nuovo orientamento di fondo che ponga al centro la persona umana. Questo concetto, spesso proclamato in diversi contesti, viene qui ribadito perché si colloca a fondamento della Missione che trae origine dal mandato del Risorto di andare in tutto il mondo per proclamare il Vangelo.
Ecclesia in Africa sottolinea che la Missione non consiste nella comunicazione di un messaggio compiuto e strutturato da accettare o rifiutare. Il primo agente della Missione resta sempre lo Spirito Santo, che comunica in varie lingue e la cui azione precede l’opera testimoniale degli inviati. Quando questi giungono lo Spirito è già operante.
Coloro che i missionari raggiungono non sono semplicemente oggetto della loro missione, ma soggetto attivo che già sperimenta la presenza dello Spirito. Egli fa loro cogliere il senso vitale dell’annuncio. E nell’accoglienza del messaggio il destinatario immette tutto il proprio modo di pensare e sentire. La fede è un adesione personale al messaggio: la mediazione della cultura è necessaria per capire e aderire e dunque per credere. E poiché la fede cresce donandola, la chiamata alla fede invia necessariamente alla missione. Così il messaggio recepito e confessato continua, con un riferimento vincolante al Kerygma, continua il cammino di trasformazione nelle culture alle quali viene annunciato.
La persona concreta e contestualizzata è dunque partner essenziale della comunicazione di Dio fin dalla chiamata alla vita e trova nella relazione dialogica con Lui, instaurata con l’azione missionaria dello Spirito, la propria fondamentale dignità.
Non vi è debolezza, diversità e neppure peccato che possa escludere alcuno da questo incontro con Dio, perché egli dimostra il suo amore inviando il Figlio, “quando ancora eravamo peccatori”. La Missione allora è prima di tutto contemplazione di questa dignità e promozione totale della stessa sull’esempio dell’Inviato di Dio, l’uomo Cristo Gesù..
Con profonda incisività, il13 aprile 1994, il Papa diceva ai cristiani del Malawi : “Oggi io vi raccomando caldamente di guardare in voi stessi. Guardate alle ricchezze delle vostre tradizioni, guardate alla fede che abbiamo celebrato in questa assemblea. Là voi troverete la vera libertà, là troverete il Cristo che vi condurrà alla verità”.
Se si guarda l’Africa da questa prospettiva non si può che pensare all’urgenza del proseguimento della missione nel continente e alla necessità di darle un orientamento decisamente più proteso alla promozione della dignità umana.
Dopo aver brevemente ripercorso le tappe dell’evangelizzazione nel continente, nell’EA, Giovanni Paolo II si pone la domanda: che cosa è divenuta l’Africa. La risposta è una cruda descrizione della mancanza di dignità che ancora l’affligge. Scrive il Papa: “Poco meno di trent’anni fa, non pochi paesi africani si rendevano indipendenti rispetto alle potenze coloniali. Questo ha suscitato grandi attese per quanto riguarda lo sviluppo politico, economico, sociale e culturale dei popoli africani /…/ Ma qual è la situazione reale d’insieme del continente africano oggi..? /…/ Dopo aver sottolineato, giustamente che l’Africa è un immenso continente con situazioni molto diverse, e che occorre per questo evitare di generalizzare sia nel valutare problemi che nel suggerire soluzioni, l’Assemblea sinodale ha dovuto con dolore rilevare: ‘ Una situazione comune è, senza dubbio, il fatto che l’Africa sia piena di problemi: in quasi tutte le nostre nozioni c’è una miseria spaventosa, cattiva amministrazione delle scarse risorse disponibili, instabilità politica e disorientamento sociale. Il risultato è sotto i nostri occhi: squallore, guerre, disperazione. /…/ Per molti Padri sinodali l’Africa d’oggi può essere paragonata a quell’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico; egli cadde nelle mani dei briganti che lo spogliarono, lo percossero e se ne andarono lasciandolo mezzo morto (cfr. Lc 10, 30-37). L’Africa è un continente in cui innumerevoli esseri umani – uomini e donne, bambini e giovani – sono distesi, in qualche modo sul bordo della strada, malati, feriti, impotenti, emarginati e abbandonati. Essi hanno bisogno estremo di buoni Samaritani che vengano loro in aiuto” (nn. 39;40). E’ una descrizione che interroga se sia possibile credere nella capacità di amare delle persone.
Di fronte a questa cruda realtà il paradigma della missione africana non può avere altro centro che la dignità umana. La Buona notizia con il suo carico di speranza e di ottimismo diventa sferzante ironia se non si mostra capace di promuovere e difendere i diritti e le libertà delle persone.
La missione ha senso se si pone con decisione a fianco degli oppressi, dei popoli senza voce ed emarginati e il Papa afferma che: “ l’opzione preferenziale per i poveri è una forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana… La preoccupazione stimolante verso i poveri… deve tradursi a tutti i livelli, in atti concreti e giungere con decisione a una serie di necessarie riforme”(n.44).
Missione e giustizia
Questo orientamento dell’EA parte dal convincimento del Papa che la Chiesa, pur non coincidendo con il Regno di Dio, ne è anticipazione e segno e quindi la missione di annunciare il Vangelo con la conseguente chiamata a far parte della Chiesa, ha una stretta relazione con la proclamazione e la promozione dei valori del Regno.
Missione e Regno hanno un obbiettivo comune: dare visibilità alla signoria di Dio, alimentando la forza di compiere il bene in ogni persona affinché essa trovi la pienezza di vita nel Bene Supremo.
Nella prospettiva di una nuova missione per l’Africa i temi della giustizia e della pace sembrano elementi essenziali per collegarla al mistero di Cristo e alla promozione del suo Regno. I due termini ricorrono in ogni documento sulla Missione e vengono ripresi anche da EA, annunciati nel titolo del primo paragrafo del capitolo VI.
Il Papa ricorda che: “La Chiesa …in Africa deve testimoniare Cristo anche mediante la promozione della giustizia e della pace sul continente e nel mondo intero” (n105).
Ora la parola giustizia nella lingua swahili, una delle più diffuse in Africa, si traduce nel termine “haki” che ha diversi significati a seconda del contesto in cui viene usata. In riferimento a ciò che una persona dice, al suo discorso, “haki” è sinonimo di veridicità: giusto è il linguaggio veritiero e colui che non mente, ma dice il vero. Quando il termine si riferisce alle relazioni interpersonali, “haki” acquisisce il senso di “diritto”, diventa affermazione di qualcosa di inalienabile dal soggetto che la pronuncia. Anche Dio detiene un suo diritto e l’espressione “Haki ya Mungu” implica il riconoscimento della signoria di Dio.
Questi significati della parola giustizia appartengono alla dimensione personale dell’individuo e sono acquisiti fin dall’infanzia perché trasmessi dal contesto culturale in cui si nasce. Nel rapporto sociale: genitori, capi tribù o struttura politica, “haki” prima di tutto riconosce uno spazio notevole di autorità, prestigio socio-economico e libertà. Tuttavia l’individuo può accusare la stessa autorità di ingiustizia (haramu) quando si vede sottratto qualcosa che gli è dovuto, o quando l’autorità distorce la verità per il proprio interesse.
Giustizia è dunque il concetto che l’africano applica al diritto di possedere ciò che gli appartiene e gli è necessario per vivere (acqua, terra, bambini, bestiame, posto di lavoro) e ha il diritto-dovere di difenderlo anche con la forza, considerata una componente della giustizia in quanto mezzo estremo per assicurarla.
La giustizia e il diritto che ne consegue, non nascono dall’acquisizione di cose, da contratti o convenzioni, ma dalla natura, dalla vita dalla famiglia. Fondamento del diritto è l’eredità per discendenza e non viene conferito da agenti estranei.
La struttura sociale deve rispettare questi diritti naturali ed è giusta nella misura in cui non solo non si oppone a essi, ma li tutela e li favorisce. La prima struttura sociale che deve essere giusta in questo senso è la tribù: come suo membro la persona gode di questo fondamentale diritto a cui corrisponde l’altrettanto fondamentale dovere di favorire, in qualunque posizione sociale, il diritto degli altri membri della propria tribù.
Il dinamismo di una giustizia che abbia come punto di riferimento la tribù, è riconosciuto da tutti, compresi i moderni capi di stato e delle chiese. Ciò che viene considerato ingiusto è l’uso esclusivamente personale dei propri diritti e l’impiego degli stessi a danno degli altri.
Da questo tentativo di comprensione del concetto di giustizia in prospettiva africana se ne deduce facilmente che quando si parla di promozione della giustizia come caratteristica del Regno e compito della Missione bisogna partire dalla visione antropologica africana che lo configura e non da una generica antropologia cristiana occidentale, nella cui prospettiva quasi tutti gli elementi sopraindicati sarebbero definiti “ingiusti” e quindi da eliminare.
Senza di essi, invece, l’africano non sarebbe se stesso, non avrebbe identità né punti di riferimento. E’ di una giustizia africana, fondata sull’antropologia africana che l’africano ha bisogno. Essa deve essere posta alla base di un progetto nuovo di missione per l’Africa, e si comprende d’istinto come gli agenti della medesima debbano essere africani.
Essi dovranno svilupparlo in dialogo tra il concetto africano e altri contesti culturali, per giungere a una realtà di giustizia in cui confluisca il processo di crescita della cultura africana stessa. Solo così acquisteranno significato per l’Africa le beatitudini tratte dal Vangelo di Matteo che EA cita: “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”(Mt. 5,9-10).
Missione e pace
Data la sua relazione con il Regno, un’analoga contestualizzazione si impone per il concetto di pace che la lingua swahili traduce con “Amani”, con cui intende la situazione, “ku poa”, che si crea dopo il processo che porta da un eccesso all’ equilibrio, che essa dovrebbe avere per essere utile alla persona: il ferro caldo che si raffredda e può essere toccato; il cibo bollente che si intiepidisce fino a poter essere consumato.
Anche quando si riferisce alle cose, “amani” implica sempre una relazione che indica l’atteggiamento che si deve tenere nei contatti con le persone. L’esperienza primordiale di mancanza di pace si coglie nel disordine delle cose che creano difficoltà alla vita (diluvi, siccità, terremoti, fame e malattie). Di conseguenza, “amani-ku poa” si relaziona in primo luogo con tutte le situazioni vitali ed è necessaria per poter vivere.
Ma il primo ad avere bisogno di essa è l’individuo in relazione a se stesso e al proprio mondo interiore fatto di armonia con gli spiriti, con le forze della natura e con i propri bisogni personali. La pace con se stesso si estende all’ambito familiare, tribale e statale, ma è sempre una dimensione globale di quiete nelle relazioni e la mancanza di essa genera turbamenti, instabilità e conflittualità che però possono essere rimosse tramite una mediazione.
Questa è necessaria per riportare la pace nel turbamento che può colpire la relazione tra l’individuo e gli spiriti, l’individuo e la famiglia , le diverse famiglie o nella società. Allora bisogna ricorrere o ad una mediazione spirituale o a una istanza di pace che ristabilisca il dialogo e ricomponga l’armonia.
Va sottolineato è il fatto che le istanze riconciliatrici sono ben determinate, svolgono un ruolo che viene loro riconosciuto e ricevono una sorta di consacrazione che le rende idonee al loro compito. Per questo quando tali istanze intervengono si sente il dovere di assecondarne la funzione pacificatrice, tanto che colui che è riconosciuto come portatore della pace non solo può intervenire se sollecitato, ma può prendere l’iniziativa di ristabilire la pace autonomamente e repentinamente.
La pace in Africa non può essere costruita da forze o elementi esterni al proprio contesto, perché non sono riconducibili ad alcuna legittimità riconosciuta, anzi saranno giudicati come ulteriori turbatori da cui bisogna difendersi. Infatti, quando manca la legittimazione culturale-politica non si sente alcun obbligo di accettare un intervento e ancor meno ad eseguire le disposizioni di chi ritiene di poterlo compiere.
In Africa dunque il messaggio di pace del Vangelo ha bisogno della mediazione di annunciatori che siano uniti in modo vitale al contesto e siano riconoscibili come persone di pace e vengano scelti per questa loro caratteristica.
La storia della missione in Africa con i suoi condizionamenti sociali e politici non ha sempre risposto a questa fondamentale esigenza e il cristianesimo, come si può ancora vedere in tante situazioni di guerra, non è stato legittimato come mediatore di pace.
E’ forse questo il cambiamento più radicale che si impone a un progetto missionario per l’Africa. Una nuova missione per il continente non può prescindere dall’ottenere questo accredito identificandosi profondamente con il mondo africano fino a rendersi credibile come portatrice di pace. Non basterà solidarizzare con i movimenti pacifisti, stare dalla parte degli oppressi, predicare contro la guerra o stigmatizzare i tanti conflitti del continente. Per divenire operatori riconosciuto di pace, per predicare e costruire la pace, bisognerà pensare la pace come è sentita dall’Africa, condividere con essa il bisogno di mediazione per la pace.
Per questo acquistano un alto profilo le parole del Papa che dice: “Se l’annuncio della giustizia e della pace è parte integrante del compito di evangelizzazione, ne deriva che la promozione di questi valori dovrà anche far parte del programma pastorale di ciascuna comunità cristiana. Ecco perché insisto sulla necessità di formare tutti gli operatori pastorali in modo adeguato in vista di tale apostolato… Ciascuno, secondo il proprio stato di vita, prenderà coscienza dei suoi diritti e dei suoi doveri, imparerà il senso e il servizio del bene comune, come pure i criteri di una onesta gestione dei beni pubblici e di una corretta presenza nella vita politica, così da poter intervenire in maniera credibile dinanzi alle ingiustizie sociali” (n107).
Missione e Chiesa Famiglia
Il più evidente segno di credibilità che la fede può offrire all’Africa è la dimensione comunitaria. Tra Chiesa ed annuncio esiste una indissolubile relazione che Giovanni Paolo II così esprime: “ La predicazione del Vangelo ha pure come scopo la costruzione della Chiesa, nella prospettiva dell’avvento del Regno, che Cristo Consegnerà al Padre alla fine dei tempi” (n.87).
E’ noto come il tema della plantatio ecclesiae abbia costituito un paradigma fondamentale della missione con cui è stata evangelizzata l’Africa. L’ecclesiologia costituiva l’elemento teologico che più ispirava l’attività missionaria e la costruzione-strutturazione delle chiese locali veniva considerato un suo scopo essenziale. Logicamente, questo si ispirava al modello di chiesa da cui ciascuno proveniva, tanto che l’occidentalizzazione della chiesa in Africa è, ancor oggi, l’aspetto di maggiore evidenza. Ma è anche la più evidente dimensione della crisi di estraneità al contesto africano che essa attraversa, tanto che nel progetto di una nuova missione per l’Africa il tema della Chiesa necessità di un serio rinnovamento teologico e strutturale.
Il primo disagio che il cristiano avverte è la lontananza della chiesa dalla sua vita reale: la forza e l’isolamento della gerarchia, il peso di grandi strutture, la diversità di vita degli operatori, l’incidenza della dimensione economica, la rigidità dell’organizzazione, l’inflessibilità proclamata delle leggi, il rigore del giudizio sulle azioni, velano a molti la dinamica sacramentale e salvifica della Chiesa.
L’Africa non chiede alla sua Chiesa di separarsi dalla comunione universale o di negare il riferimento al Papa o di sconvolgere i suoi principi costituzionali, ma le domanda una nuova vicinanza alla vita della gente e di assumere pienamente la sua missione di portare ai poveri, di cui il continente è divenuto simbolo, la buona notizia della salvezza . Scrive uno dei suoi preti, Engelbert Mveng: “Se la Chiesa vuole divenire solidale con l’uomo africano, se vuole identificarsi con la nostra situazione, schierarsi dalla nostra parte con Cristo, per portarci la buona novella della nostra liberazione, Essa deve assumere la nostra realtà africano, come questa è vissuta qui, a tutti i livelli. E’ questa la grande sfida della missione oggi”.
Per affrontarla, la Chiesa d’Africa ha cercato di ripensare se stessa alla luce di una categoria essenziale per la visione africana della vita: la famiglia. Il concetto apparve più volte già negli interventi dei vescovi africani e malgasci al Concilio Vaticano II. Alcuni teologi prima e l’assemblea sinodale per l’Africa poi, ne consacrarono l’uso. Giovanni Paolo II nell’EA scrive che il Sinodo assume: “…come idea guida per l’evangelizzazione dell’Africa quella di Chiesa come Famiglia di Dio. In essa i Padri sinodali hanno riconosciuto un’espressione della natura della Chiesa particolarmente adatta per l’Africa” (n.63).
Infatti è sufficiente una rapida lettura dell’esortazione apostolica per constatare che la parola famiglia è una di quelle che ricorre più frequentemente. La famiglia diviene oggetto esplicito di analisi nella seconda parte del IV capitolo, che si apre con la seguente citazione della Familiaris consortio: “ Il futuro del mondo e della Chiesa passa attraverso la famiglia” (n.80), per affermare, subito dopo, che in Africa la famiglia rappresenta il pilastro su cui è costruito l’edificio della società, ad essa va rivolta la priorità dell’evangelizzazione (cfr. n.80), e deve essere salvata dai pericoli che la minacciano (n.84).
Il concetto di famiglia è tanto rilevante per l’Africa che: “la nuova evangelizzazione tenderà dunque ad edificare la Chiesa come famiglia… ed è vivamente auspicabile che i teologi elaborino la teologia della Chiesa Famiglia in tutta la ricchezza insita in tale concetto” (n.63).
Nel concetto di famiglia l’africano non esprime solo la gamma variegata delle relazioni interpersonali, ma comprende tutta la virtualità ontologica del proprio esserci. La persona non ha una sussistenza in se, indipendente dalla relazione. La stessa idea di “dignità”, non ha corrispondenza in un termine astratto africano che la traduca come un valore proprio del singolo: dignità è il diritto al rispetto che gli altri mi devono perché esisto e sono parte di un tutto.
Tra i Bantu ricorrono diverse espressioni che esprimono questa idea quali: “Io sono perché noi siamo; l’uomo diventa uomo attraverso gli altri”. La persona dunque è vista come un processo che si attua nella relazione con gli altri.
Ciò implica anche una concezione olistica della società che non si può fare senza l’individuo perché esso è una parte integrante del tutto. Se si toglie un individuo, qualcosa di essenziale viene a mancare alla società. Espressioni come: “le mani si lavano a vicenda; non basta un dito solo per uccidere la pulce” indicano il bisogno che ciascuno ha dell’altro non solo a livello operativo, ma per comprendersi ed essere riconosciuti come valore esistente.
L’autocomprensione valoriale che si forma attraverso l’altrui riconoscimento-rispetto, trasforma il soggetto in fonte di consistenza per gli altri. Si dice: “ Occhio per occhio rende il mondo cieco; se mi tagli, qualcosa mancherà ad entrambi; se ti uccido, tutti saremmo più
poveri”. Dunque l’esistenza, meglio la vita, non appartiene unicamente all’individuo, perché essa è essenzialmente relazione e comunione e la dignità deriva dalla necessità che la persona allarghi e approfondisca la comunione. La promozione di una vita singola non ha senso, perché il suo valore vero, la sua dignità, derivano dall’essere insieme e dal condividere l’unica vita, che si rafforza ogni volta che nasce una creatura. La sua famiglia diventa il primo contesto che la riconosce- rispetta, la fa esistere e la pone come nuovo anello della catena della vita.
Se il concetto africano di “Famiglia” deve diventare il paradigma della Chiesa in Africa, si comprende quale processo di trasformazione la attenda a livello di comprensione teologica, di so di evangelizzazione autentica, di dimensione strutturale che si esprima in modelli di governo più consoni al valore della comunione-relazione, di scelte operative e formative, di spiritualità vitale.
Conclusione
L’esortazione apostolica Ecclesia in Africa contiene molti altri elementi vitali per la Chiesa del continente. Qui sono state valutate solo alcune linee del progetto missionario proposto dal documento. Da esse emergono questioni aperte che necessariamente devono essere approfondite.
Va chiarito il rapporto tra teologo, missionario e destinatario dell’annuncio missionario. Si sente l’esigenza di indagare su quale dinamismo esista tra loro per garantire un processo di evangelizzazione- inculturazione. Inoltre vi è la difficoltà del metodo missionario usato ed in uso. Si intravedere che l’obbiettivo finale dell’evangelizzazione non è di avere una Chiesa pienamente africana con cristiani africani, quanto piuttosto di rifarsi sempre a un modello sicuro e consolidato. A partire dagli elementi emersi, bisognerà chiarire il significato della “conversione” a cui l’africano è chiamato e quali “segni” gli sono richiesti per manifestarla; come trasformare la teologia in spiritualità, liturgia e catechesi..
(Da: Euntes Docete, 1(2004)