La morte nelle lettere di Paolo

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A premessa del metodo con cui si vogliono qui leggere gli scritti di Paolo, cogliendovi la presenza della sua comprensione della morte, sarebbe utile un chiarimento: l’Apostolo non presenta una trattazione completa e sistematica, le sue lettere sono scritti occasionali suscitati da precise situazioni in cui vivevano le sue comunità.

E queste erano non solo destinatarie della sua comunicazione epistolare, ma anche fonte di problemi e contrarietà che costituivano «una spina nel suo fianco». Inoltre in diversi anni scrisse a diversi destinatari e questo, insieme all’argomento precedente, conduce a ritenere che abbia affrontato anche il tema della morte da angolature e per finalità diverse.

Perciò la lettura proposta sarà necessariamente storica e terrà conto degli insegnamenti, risalenti alla prima metà del secolo XIX, di F.C. Baur, fondatore della celebre scuola teologica di Tubinga (1792-1860). Questi, al fine di comprendere nei loro tratti specifici gli scritti delle origini cristiane,
teorizzò la necessità di ricostruire la loro situazione storica di origine: così, per esempio, le lettere paoline autentiche mostrano il loro vero significato se intese come espressioni della contrapposizione frontale tra il Vangelo paolino, di marca universalistica e libero dalla legge mosaica, e il Vangelo di Pietro (e degli altri apostoli di Gerusalemme), contrassegnato dal particolarismo giudaico e dalla fedeltà alle prescrizioni della Torah.

In concreto, si analizzeranno attentamente quattro passi paolini: 1Ts 4,18ss; 1Cor 15; 2Cor 5; Fil 1. In ordine cronologico si considererà rispettivamente il 50, il 53, il 55 e il 56, il decennio cioè che segna l’inizio e la fine dell’attività epistolare di Paolo. Non si mancherà in questo di valutare i cambiamenti del suo approccio al tema, cambiamenti che per contrasto mettono in rilievo la stessa prospettiva di fondo in cui egli si muove parlando della morte in generale e della sua in particolare.

Le sue comprensioni e valutazioni prendono senso alla luce della sua fede in Cristo, crocifisso e risuscitato da Dio come «il Signore» a cui è stato dato il potere divino di risuscitare i morti, e «lo Spirito creatore di vita» là dove regna la morte.

In una parola, ciò che l’Apostolo dice della morte è il riflesso della sua fede cristologica: sottomissione di Cristo alla morte, e alla morte di croce; liberazione di Cristo dalla morte per intervento di Dio che lo ha risuscitato come risuscitatore dei credenti in lui per vincolo di solidarietà tra la «primizia» degli «evasi» dal regno dei morti e quelli che «appartengono a Cristo». In Paolo quindi l’antropologia è determinata e specificata dalla cristologia.

Vorrei iniziare con il famoso testo francescano del Cantico delle creature che in qualche modo costituisce l’altra faccia della medaglia rispetto alla concezione della morte in Paolo. Dopo un incipit di gloria all’«Altissimu, onnipotente, bon Signore» incontriamo un «laudato» generale: «Laudato sie, mi’ Signore, cun tutte le tue creature», e dopo aver enumerato diverse creature: Stelle, frate Vento, sor Aqua, frate Foco, sora nostra matre Terra», e altre ancora, s. Francesco continua così: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullo omo vivente po’ scampare: guai a quelli che morranno ne le peccata mortali! Beati quelli che troverà ne le tue santissime voluntati, ca la morte seconda no li farrà male». La morte è qui vista in un empito di esaltazione mistica come una «sorella», parte costituiva del mondo creato, che introdurrà nella vita eterna, salvo condannare quanti non fanno la volontà di Dio.

Non più mortali
1Ts 4,13-18

Ancor prima di aver completato la sua azione missionaria e la creazione di una comunità locale, Paolo aveva dovuto, per ostilità della città, lasciare Tessalonica; la formazione dottrinale e spirituale dei credenti così era rimasta incompiuta.

Di qui i problemi nati dopo la sua partenza e da lui conosciuti quando Timoteo, che aveva seguito Paolo ed era stato da lui inviato a Tessalonica a informarsi e a informare i credenti della città, aveva fatto ritorno dall’Apostolo a Corinto. Questi allora si era rivolto direttamente alla sua comunità.

I tessalonicesi erano piombati nella tristezza più nera (lypê), la stessa che contrassegna i gentili, dice Paolo, alle prese con il fatto inaspettato che alcuni amici o anche parenti erano morti.

Come avrebbero potuto salvarsi questi defunti? Il problema, angoscioso, nasceva dalla soluzione che era stata loro prospettata su vita e morte: i credenti sarebbero stati «rapiti» in cielo in comunione con Cristo senza passare attraverso la morte.

Dunque non c’era alcuna speranza per i morti? La risurrezione non era stata evidentemente insegnata né prospettata oppure, per non meglio precisate ragioni, non era entrata come elemento portante nell’edificio della speranza escatologica o finale. Nella comunità tessalonicese la morte escludeva la salvezza ultima, riservata ai vivi, i soli che sarebbero stati «rapiti», come era accaduto per il patriarca Enoc, che fu preso in cielo, e per il profeta Elia, che fu trasportato nel mondo di Dio direttamente da questa terra.

Paolo intende rincuorarli, ma non si limita alle buone parole e ai tipici motivi della retorica consolatoria del mondo greco-romano. Si cura invece di vincere in loro l’ignoranza circa il destino dei morti che li conduce a vivere nella tristezza: non devono essere tristi come sono «gli altri che non hanno speranza» (v. 13). E quale conoscenza di fede impartisce loro? «Se infatti crediamo che Gesù morì e risorse, così Dio per mezzo di Gesù condurrà assieme con lui anche quelli che si sono assopiti nella morte» (v. 14).

Come Gesù, così i morti. «Come Dio ha risuscitato Gesù, così…», ci si aspetterebbe, «risusciterà i morti». L’Apostolo invece non si sofferma sulla risurrezione perché questa non costituisce ancora, a questo punto della sua riflessione teologica, la soluzione al problema del destino ultimo di salvezza, che invece sta nel rapimento in cielo dei vivi. Passa subito ad affermarne «la conduzione assieme con Cristo anche di quelli che si sono assopiti nella morte». Ma i morti non possono essere di certo rapiti e, per tale ragione, Paolo trova per questi la soluzione intermedia della risurrezione, finalizzata appunto al rapimento comune dei credenti.

«Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi, i vivi, i superstiti fino alla venuta del Signore, non saremo avvantaggiati rispetto a quelli assopiti nella morte. Perché lui stesso, il Signore, a un ordine dato, alla voce dell’arcangelo e allo squillo della tromba di Dio, discenderà dal cielo; allora prima risorgeranno i morti in Cristo, poi noi, i vivi, i superstiti, insieme con loro saremo rapiti sulle nubi per andare incontro a Cristo nell’aria» (vv. 15-17).

Come si vede, il quadro dell’Apostolo ha chiare tinte apocalittiche; ciò che fondamentalmente egli comunica è però l’intervento del Signore Gesù nella sua parusia finale: scenderà a risuscitare anzitutto i morti e poi rapirà gli uni e gli altri che andranno incontro a lui nell’aria, diremmo a mezz’altezza. Si sottintende che Cristo, disceso dal cielo, dopo aver risuscitato i morti, risalirà verso i cieli dove riunirà i credenti vivi e risuscitati, portandoli poi con sé. Il traguardo finale sarà la comunione con il Signore nel cielo: «E così saremo sempre con il Signore» (v. 17).

La morte dunque non è il comune destino degli uomini, essa è risparmiata di regola ai credenti che saranno «rapiti» in cielo. Certo, ci sono alcune eccezioni: prima della parusia di Cristo, di prossima vicinanza, possono esserci benissimo dei morti, ma sono casi sporadici; di norma i credenti non subiranno la morte. Una credenza questa, che Paolo correggerà in qualche modo poco più avanti scrivendo ai Corinzi, ma che a questo tempo sembra imporsi a lui e ai primi credenti: se Cristo ha vinto la morte, sempre per il legame di stretta solidarietà con i credenti, anche per questi dovrà essere vinta. Paolo vede quindi la morte sua e dei credenti in generale sotto il segno dell’esonero, dell’esenzione in forza della solidarietà con Cristo risorto che verrà prestissimo a chiudere la storia e inaugurare il regno celeste di Dio.

Il traguardo ultimo
1Cor 15

Questo passo documenta un grande cambiamento di prospettiva da parte di Paolo. La morte, da condizione eccezionale per i credenti che richiede un supplemento d’intervento di Cristo che risusciterà i morti, diventa esperienza normale però non ancora universale perché l’Apostolo ritiene che alcuni, incluso lui stesso, non soggiaceranno a questo destino. Anche la situazione a cui Paolo ora fa fronte è assai diversa: alcuni credenti nella comunità di Corinto dicono che «non si dà alcuna risurrezione» (v. 12). Il sottofondo di pensiero di questi negatori doveva consistere in un orientamento antropologico di carattere dualistico: l’uomo è io spirituale, anima immortale, e la risurrezione, non corporea ma spirituale, è esperienza al presente e per nulla oggetto di attesa per la fine, una risurrezione dell’anima, non del corpo. La speranza infatti nell’ambiente greco di marca dualistica consisteva nella liberazione dal corpo, dal momento che mediante la corrispondenza lessicale di sôma-sêma, lo si definiva «sepolcro».

Dunque in questa concezione la morte corporea era vittoriosa sull’uomo, una vittoria provvidenziale che immette in una vita sganciata dalla materia e dal mondo, in un’esistenza da angeli.

Paolo anzitutto intende mostrare teologicamente che la risurrezione di Cristo – la sua vittoria sulla morte – comporta ipso facto la risurrezione dei credenti per il vincolo di solidarietà che li lega. E, in termini negativi, parallelamente afferma che la negazione della risurrezione dei morti – Paolo tratta dei morti credenti in Cristo e non di una risurrezione universale come facevano alcuni circoli apocalittici preoccupati di sottoporre tutti indistintamente al giudizio finale di Dio – comporta la negazione della risurrezione di Cristo (cf. v.13). L’uno e l’altro, ma su diversi piani, come l’apostolo precisa al v. 20: «Ora invece Cristo fu risuscitato dai morti, primizia (aparkê) di quelli che sono morti». La metafora della primizia di carattere agricolo, i primi frutti della campagna offerti al tempio come ringraziamento a Dio creatore, che poeticamente si può chiamare «primula» della primavera che sboccia, dice che a Cristo risorto seguiranno morti risorti.

In realtà non si tratta solo di una successione cronologica, propria del prima e dopo, bensì di un rapporto di natura causale: l’uno comporta l’altro. Perciò Paolo ricorre qui al motivo storico salvifico di Adamo in parallelo con Cristo: «Poiché in effetti per mezzo di un uomo si ebbe la morte e per mezzo di un uomo si avrà la risurrezione dei morti. Come mediante Adamo tutti muoiono, così anche mediante Cristo tutti saranno vivificati» (vv. 21-22). In una formula: la morte è stata introdotta nel mondo da Adamo, la vittoria sulla morte avviene in forza di Cristo.

Paolo però non si limita al piano antropologico, tanto meno personalistico: per lui la morte è una potenza cosmica che domina su tutti imprimendo al mondo la sua impronta distruttiva; ma in questo mondo essa finisce per usurpare il potere del Signore Gesù che gli è stato dato da Dio nella risurrezione perché esercitasse la sua signoria su tutto.

Nell’inno cristologico ai Filippesi canta: «Ed è per questo che Dio lo super esaltò e gli diede in dono il nome più eccelso che esista, affinché, nel nome di Gesù, tutti pieghino le ginocchia, in cielo, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua confessi a gloria di Dio Padre: Gesù Cristo è il Signore!» (2,9-11). La morte che trionfa come ultima parola sull’umanità nega lo stesso centro della fede cristiana, fede nel crocifisso risorto e risuscitatore. L’Apostolo pone una contro l’altra e, nella sua fermissima fede, afferma con forza che Cristo trionferà sulla morte, su questo tiranno dell’umanità, su questo «nemico» di Cristo e dell’uomo, per usare la stessa espressione paolina. Questa vittoria sulla morte, alias la risurrezione, è una necessità cristologica.

Proseguendo l’argomento di Paolo, che viene così definito «la fine/il traguardo ultimo» (to telos), si legge: «Quando egli consegnerà il Regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla» le potenze avverse – «ogni principato e ogni potestà e potenza» – tra tutte annienterà la morte, l’avversario fondamentale.

«Ultimo nemico, viene annientata la morte. Tutto infatti sottopose sotto i suoi piedi. Ma quando dirà che tutto è stato sottomesso… allora anch’egli, il figlio, si sottometterà a chi gli ha sottomesso tutto, affinché Dio sia tutto in ogni cosa» (vv. 24-28).

Queste ultime affermazioni legano insieme la signoria di Cristo e quella, ultima, di Dio, l’una e l’altra vincitrici della morte.

Nella seconda parte del capitolo, ai vv. 35ss, l’Apostolo affronta la questione complementare della modalità dei corpi risorti. La risurrezione attesa è corporea, non carnale: per Paolo il corpo non è una parte dell’uomo, ma è tutto l’uomo visto nella sua relazionalità essenziale e basica: relazione al mondo, agli altri, a Dio; è una corporeità vissuta in due modi esistenziali opposti: corporeità «carnale», contrassegnata cioè dall’egocentrismo, e corporeità specificata dal dinamismo dello Spirito. Paolo non teme di parlare, in opposizione a corpo carnale o anche psichico, di corpo «spirituale», intendendo – al contrario del mondo greco, affetto da spiritualismo, che riteneva questa una contraddizione – lo Spirito in senso dinamico, sottolineando il dinamismo soprannaturale dello Spirito di Dio che investe l’uomo che è corpo, non ha un corpo – come ha ben osservato Bultmann. Il corpo «seminato nella corruttibilità, viene risuscitato nell’incorruttibilità; seminato nel disonore, viene risuscitato nell’onore; seminato nella debolezza, viene risuscitato nella forza; seminato un corpo psichico, viene risuscitato un corpo spirituale» ; e questo è in linea con Adamo, il primo uomo, che divenne «un vivente di vita psichica» e con l’ultimo Adamo «spirito vivificante» (cf. vv. 42-45): «Il primo uomo essendo dalla terra è terreno, il secondo uomo viene dal cielo. Quale il terreno tali i terreni; quale il celeste tali anche i celesti; e come abbiamo portato l’immagine del terreno, così porteremo anche quella del celeste» (vv. 47- 49). Non si insista sulla materialità della metafora terra e cielo, che significano rispettivamente realtà naturale e realtà soprannaturale.

Infine, l’Apostolo distingue ancora tra i credenti morti e i credenti ancora vivi alla parusia di Cristo, e tra questi include sempre anche se stesso, anche se lo sguardo è diverso: i morti risusciteranno, i vivi passeranno da vivi al regno di Dio, ma qui, a differenza di 1Ts, egli dice che dovranno essere profondamente «trasformati a immagine di Cristo risorto» compreso come causa esemplare dei risorti (cf. vv. 50ss). E conclude con un esaltante epinicio o canto di vittoria: «La morte fu ingoiata nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? (…) Sia però grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (vv. 54-57). La morte sparirà letteralmente dall’orizzonte escatologico, quando nascerà un mondo senza più morte: una radicale speranza, questa, fondata sulla fede in un Dio della vita, creatore di vita anche là dove regna la morte (cf. Rm 4,17).

L’esilio e la nuova casa
2Cor 5

In questo passo Paolo parla della sua personale morte, intesa come completo disfacimento del proprio essere, a cui le fatiche e le tribolazioni retaggio della sua azione missionaria lo condurranno presto. E arriva ad affermare che egli porta in giro per il mondo la nekrôsis, il morire di Cristo (cf. 2Cor 4,10).

Ora, di fronte a tale situazione, come reagisce? Segnala questi tre fondamentali atteggiamenti: anzitutto consapevolezza (oida: so), la fede gli dice che «distrutta la nostra casa terrena simile a tenda, verremo ad avere da Dio un’altra abitazione, una casa non manufatta, ma eterna, celeste» (v. 1). La metafora diversamente modulata dell’abitazione indica la duplice esistenza umana, quella terrena e quella celeste, e serve all’apostolo per esprimere la sua ferma fiducia che alla prima, per grazia di Dio, succederà la seconda. Sottolinea poi il gemito sofferente della sua anima unito a un intenso desiderio: «In realtà, per questo gemiamo desiderosi di essere rivestiti della nostra abitazione celeste » (v. 2). Si badi bene però che non si trova alcun anelito a essere spogliati, vale a dire all’immortalità dell’anima, ma desiderio di essere rivestiti (cf. v. 4). Non si equivochi, con queste parole l’Apostolo vuol dire che l’oggetto del desiderio non è una vita di puro spirito, una situazione di libertà dal corpo – come sostenevano alcune correnti greche del tempo –, bensì sempre un’esistenza corporea, ma trasformata dallo Spiritus creator dato già adesso come primizia ai credenti; in altre parole, un’esistenza attraversata pienamente dalla vita (cf. vv. 4-5). Perciò egli affronta la vita travagliata del suo apostolato con grande coraggio, sostenuto anche in questo dalla sua consapevolezza di fede: «Dunque siamo sempre pieni di coraggio e consapevoli che abitando in questo corpo siamo esuli dal Signore (...)» (v. 6). Non teme di ripetersi: «Lo ripeto, siamo pieni di coraggio e preferiamo essere esiliati dal corpo e andare ad abitare presso il Signore» (v. 8).

Due metafore parallele ricorrono qui come centro della sua speranza escatologica, in esse i due poli, abitazione ed esilio, sono specificati dal loro rispettivo complemento: abitazione terrena e abitazione presso il Signore, parimenti in esilio da questa vita terrena ed esilio dal Signore. Si noti che Paolo non parla di esilio dal corpo, bensì di esilio da questo corpo caduco e mortale, allo scopo di assumere un altro corpo, quello «spirituale» come ha detto in 1Cor 15, e vivere in comunione perfetta con il Signore. Parimenti, l’attuale esilio dal Signore non indica disconnessione con lui, ma rapporto già adesso di comunione, però sub specie imperfectionis: una comunione storica e terrena rispetto a quella post mortem.

Si nota subito che in questa pagina la morte, colta attraverso l’esperienza di vita di Paolo, appare sotto una duplice complementare luce: è distruzione progressiva di questa vita terrena fino al suo apice terminale, ma non costituisce l’ultima parola sull’Apostolo bensì solo la penultima, perché l’ultima è la parola di Dio che creerà in lui – non diversamente dagli altri credenti – un’esistenza un’esistenza altra, qualitativamente diversa. La morte è realtà che distrugge la vita dell’uomo, ma sarà superata in forza della grazia di Dio: il metaforico andare in esilio da questa terra non vuol dire, visto alla luce della conoscenza di fede (oida), uno sprofondare nell’abisso tenebroso dello sheol o degli inferi, è bensì l’andare ad abitare presso il Signore Gesù.

L’attesa in ceppi
Fil 1,20ss

Al centro dell’attenzione di Paolo c’è qui il suo io, vissuto e immesso in una situazione assai critica: è in carcere, non si sa con precisione dove, se a Efeso o a Roma, ridotto all’inattività e soggetto a privazioni umilianti. Ma non si sente meno missionario che in libertà: infatti, seppur custodito in catene nel palazzo del governatore, quelle stesse catene, portate per amore di Cristo e del Vangelo, sono note nell’ambiente e gli fanno propaganda. Dunque resta, anche in questa situazione d’emergenza, missionario, portatore dell’annuncio. Inoltre la comunità locale ha preso coraggio dal suo esempio e si è data alla predicazione cristiana con nuovo entusiasmo. È vero, confessa, non tutti agiscono per amore suo; non manca chi lo fa per suo dispetto.

Ma questo non gli reca né dolore né contrarietà: purché Cristo sia proclamato, egli gioisce (cf. 1,12-19).

Ma stretto nei ceppi e in attesa della sentenza, la quale potrebbe essere di condanna, l’Apostolo rimugina in se stesso, e manifesta i suoi pensieri ai suoi interlocutori, i carissimi credenti di Filippi, spiegando che senso possa avere per lui la duplice eventualità che gli si pone dinanzi: egli vive al suo interno un dilemma radicale, che cosa può augurarsi per l’atto finale del processo? I suoi desideri prendono due strade opposte: finire condannato a morte o essere assolto e poter così raggiungere la comunità di Filippi e operare per il suo bene, la sua crescita spirituale. Soppesa quindi queste due eventualità valutandone il pro e il contro. Nel primo caso così si confessa: «per me vivere è Cristo e morire un guadagno» (v. 21). In altre parole, la sua vita è tutta per Cristo e soccombere alla morte non costituisce una perdita ma un guadagno, perché vuole dire «sciogliere le vele per andarmene andarmene con Cristo» (v. 23a): la comunione eterna con il Signore è il guadagno che Paolo fa morendo, anzi il guadagno più grande che ci possa essere per lui, o, detto altrimenti «la cosa di gran lunga migliore» (v. 23b). Nel secondo caso, la liberazione dal carcere: «Restare in questa esistenza mortale è la cosa più necessaria per voi» (v. 24). Sul piatto della bilancia pendono questi due«valori».

L’Apostolo non manifesta una netta e decisa preferenza, non gli si palesa una scelta indiscussa; anzi confessa di «essere stretto dentro questo dilemma» (vv. 22-23). Paolo ondeggia, ma poi il desiderio di poter raggiungere di nuovo gli amati filippesi vince sul desiderio di sciogliere le vele e navigare incontro a Cristo. «E forte di tale convinzione, so che finirò per restare e rimanere presso voi tutti, per il vostro progresso e la gioia che vi dà la fede, perché la vostra fierezza in me riposta continui a crescere in Cristo Gesù grazie alla mia nuova venuta da voi» (vv. 25-26).

Si noti che alla fine del suo dibattito interno su dove indirizzare il desiderio prevalente, in realtà sceglie il meglio per la comunità, non il meglio per sé. Resta comunque vero che, al di là delle diversità, egli intravede un punto comune ai due casi ipotizzati nella sua esistenza di apostolo: qualunque cosa accada, in nulla rimarrà confuso, ripieno di rossore e vergogna; al contrario: «Come sempre, anche ora Cristo sarà pubblicamente magnificato nel mio corpo, attraverso sia la vita sia la morte» (v. 20). La sua persona è il luogo della glorificazione di Cristo: sia il suo vivere che il suo morire sono a gloria del suo Signore.

La sua morte raggiunge qui due valenze estremamente positive: la prima, comune al suo vivere, come si è appena visto, è che essa glorifica Cristo, è a vantaggio di Cristo; la seconda valenza, esclusiva della morte, è che questa torna a vantaggio di Paolo, via e navigazione verso la comunione con Cristo. Ma al suo vantaggio egli preferisce il maggior vantaggio della sua comunità: non la morte, transitus de hac vita ad Christum, ma la vita spiritualmente feconda per gli amati filippesi è il guadagno più grande per lui, missionario e padre della Chiesa di Filippi.

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