LA DIMENSIONE MISSIONARIA
NEL MINISTERO DEL PRESBITERO
Voi tutti sapete certamente che Torino è città di santi. Qualcuno aggiunge anche del diavolo. In realtà è uno dei fatti sorprendenti della storia della Chiesa la concentrazione di santi in un certo periodo, come è avvenuto nell’epoca d’oro dei grandi Padri della Chiesa; e ancora nel 1100-1200 e dopo il Concilio di Trento. A Torino e in Piemonte questo si è verificato nell’ottocento fino alla prima metà del novecento.
Gli storici riconoscono che questo dipende dalla formazione impartita al Convitto ecclesiastico che toccò il suo apogeo con san G. Cafasso, la cui opera formativa fu continuata da suo nipote il Beato G. Allamano per 43 anni, ricordato come “Cafasso redivivo”, “erede del suo spirito”.
La casa in cui vi trovate è stata realizzata da lui per ospitare i missionari della Consolata da lui fondati. Lo ricordo non tanto per una memoria storica, ma perché in questa schiera di sacerdoti santi, il Beato Allamano è ricordato per la caratteristica che gli è stata riconosciuta dal decreto con cui fu dichiarata l’eroicità delle sue virtù:
«Nella mirabile schiera di Servi di Dio fioriti nella Chiesa Torinese, dei quali alcuni già canonizzati o beatificati, il sacerdote Giuseppe Allamano si distinse per aver percepito il dovere di ogni Chiesa locale di aprirsi alla missione universale».
E questo non soltanto perché fondò l’Istituto dei Missionari della Consolata, ma per le motivazioni che lo hanno spinto a farlo: porre rimedio a una carenza della sua diocesi e alle difficoltà che sacerdoti e seminaristi incontravano a dedicarsi alle Missioni in altre parti del mondo.
- Anzitutto, trovava mancante che una diocesi con clero numeroso e in una città, come Torino, feconda di tante opere di carità e di apostolato, non vi fosse una istituzione “di sacerdoti dedicati unicamente alle missioni”, cosa che avevano altre regioni dell’Italia. Era convinto, come scrisse a Roma di fronte alle difficoltà incontrate per la realizzazione del suo progetto, che occorre sollevarsi al di sopra delle idee ristrette che generalmente predominano e capire che ogni diocesi ha una “missione più ampia” dei suoi confini territoriali; deve guardare più in là.
Che questa fosse la sua convinzione lo prova il fatto che, fondato l’Istituto, lo dirige e lo governa come superiore fino alla morte, ma giuridicamente non ne fa parte. Non ha mai pensato di staccarsi dalla diocesi: «è sempre rimasto radicato nella diocesi di Torino, sempre rettore del santuario e del convitto della Consolata». Sempre attivamente coinvolto e impegnato nella vita e nelle attività della diocesi, ha saputo guardare lontano, come “sacerdote per il mondo”, ma anche avendo di mira il bene e la vitalità della sua stessa diocesi.
- Inoltre, come formatore del clero diceva di incontrare spesso seminaristi e giovani sacerdoti che manifestavano il desiderio di dedicarsi alle missioni ma abbandonavano l’idea per non intravedevano allora una istituzione che corrispondesse la loro carattere e alle loro aspettative; mentre altri, partiti singolarmente per qualche luogo di missione si erano sentiti a disagio per mancanza di un ambiente famigliare che li sostenesse, li aiutasse e li incoraggiasse.
Questo rivela che, nonostante una certa vitalità, non rientrava nella mentalità corrente la sentita corresponsabilità nell’impegno missionario come componente indispensabile, essenziale di ogni vera chiesa e comunità e di ogni ministro ordinato. Per un radicale cambiamento nel modo di pensare venne il Concilio Vaticano II, «la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX» e che rimane la «sicura bussola per orientarci nel cammino» della Chiesa oggi (NMI 57).
Precedenti
Ma il Concilio non è scaturito come un fungo. Vari movimenti di pensiero e di azione lo hanno preparato.
Per quanto riguarda il senso della Missione una tappa importante fu l’enciclica di Pio XII Fidei donum (21 aprile 1957) nella quale presenta la necessità che le Chiese locali si rendano disponibili ad aiutare altre maggiormente bisognose. E raccomandava ai vescovi di autorizzare qualcuno dei loro sacerdoti, sia pure a prezzo di sacrifici, a partire per mettersi, per un certo tempo a disposizione» di altri territori. Sta qui l’aspetto più innovativo, profetico dell’enciclica.
La preoccupazione del Papa era rivolta all’Africa che stava aprendosi a nuovi orizzonti con il raggiungimento dell’indipendenza e necessitava del consolidamento delle strutture ecclesiali in vista della loro autonomia e potenziare l’impegno di evangelizzazione. Ne è venuto quindi il Movimento dei “fidei donum”, rivolto non soltanto all’Africa ma anche a altri continenti, soprattutto all’America latina. È un seme che ha avuto momenti diversi di crescita, dall’iniziale impegno individuale più che come mandati dalle loro chiese di origine, si è passati alla considerazione del loro invio come espressione della collaborazione missionaria tra la chiesa da cui partono con quella che li riceve. Ciò ha maturato la convinzione che primo soggetto dell’annuncio del vangelo a tutti i popoli sono le Chiese; ha educato sentirsi corresponsabili dell’attività missionaria, allo scambio reciproco di doni fra Chiese sorelle; ha sviluppato l’apertura al mondo e all’urgenza della evangelizzazione. Ne hanno tratto vantaggio le giovani chiese o quelle bisognose di aiuto come quelle da cui provengono i sacerdoti “fidei donum”: «I presbiteri detti Fidei Donum evidenziano in modo singolare il vincolo di comunione tra le Chiese, danno prezioso apporto alla crescita di comunità ecclesiali bisognose, mentre attingono da esse freschezza e vitalità di fede» (RM 68).
Anche la consistenza numerica dei “Fidei donum” ha subito variazioni, con una attuale diminuzione a motivo della crisi vocazionale. In compenso, è cresciuto negli ultimi anni il contingente di laici “fidei donum”, mandati dalle loro diocesi.
Tutto questo ha avuto poi un approfondimento concettuale autorevole nel Concilio, non solo nel Decreto specifico Ad gentes, ma anche negli altri documenti, specialmente sulla Chiesa, sui presbiteri, sui vescovi, sulla liturgia, la formazione sacerdotale, il rapporto con le religioni non cristiane.
Sono venute poi l’Esortazione apostolica Evangeli nuntiandi (Paolo VI, (8/12/1975), l’enciclica Redemptoris missio (GP II, 7/12/1990), l’Istruzione Postquam Apostoli della Congregazione per il clero specificamente rivolta alla più equa “distribuzione del clero nel mondo” (25/3/1980), e rifacendosi alla “Fidei donum” afferma che per adempiere pienamente il “mandato di Cristo” una Chiesa particolare non può a quelle «più povere soltanto il superfluo delle sue forze». Deve mandare i migliori (cf. nn. 11, 24-25; RM 68).
Consistenti e numerosi sono stati pure gli interventi della CEI, con direttive di carattere generale, documenti scaturiti dai Convegni Missionari nazionali, altri rivolti a persone più direttamente impegnate nell’annuncio missionario del vangelo: sacerdoti, laici, membri degli Istituti Missionari. Altri ancora riguardanti la realizzazione di organismi o strutture per il coordinamento delle attività di animazione missionaria. Sempre con l’obiettivo di porre la missione al centro delle preoccupazioni, urgenze, attività della Chiesa2.
Per il nostro obiettivo ci soffermiamo nell’approfondimento dei due aspetti sopra accennati, riguardanti la missionarietà di ogni Chiesa e dei presbiteri.
1. Dimensione missionaria di ogni Chiesa.
«La Chiesa che vive nel tempo è tutta per sua natura missionaria», afferma il Concilio (AG 2). Vi fece eco il card. Ballestrero nel Convegno ecclesiale di Loreto nel 1985: «Più abbiamo riflettuto sul nostro essere Chiesa e più ci siamo scoperti Chiesa missionaria: chiesa che in questo mondo non esiste per sé ma per gli altri, per la gloria di Dio e per la salvezza del mondo. Non ha senso essere Chiesa senza essere missionari… se non aprendosi al progetto di Dio e diventando collaboratori e ministri di questo progetto».
Questo vale per l’insieme della Chiesa, come comunità dei battezzati sparsi in ogni parte della terra, che però si concretizza nelle comunità locali perché in esse «sebbene spesso piccole, povere, disperse, è presente Cristo per virtù del quale si costituisce [sistit] la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica» (LG 26).
A questo fa eco la SC 41 per la quale «la principale manifestazione della Chiesa si ha nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare, cui presiede il vescovo, circondato dal suo presbiterio e dai ministri». E questo viene ribadito anche per la liturgia delle Ore (n. 20). E dopo questa manifestazione “principale”, la Chiesa si vede nelle celebrazioni liturgiche parrocchiali che "rappresentano” (repraesentant = rendono presente) e manifestano in un momento e luogo determinato la Chiesa stabilita su tutta la terra (cf. SC 42, IGMR 75; IGLH 21).
Per cui, ogni chiesa locale «dovendo riprodurre alla perfezione l’immagine della Chiesa universale» deve essere cosciente «di essere inviata anche a coloro che non credono in Cristo» (AG 20). «Ciascuna Chiesa è inviata alle genti» (RM 62). Anche le Chiese più giovani devono sentirsi mandate alle genti e «partecipare alla missione universale della Chiesa, inviando anch’esse dei missionari a predicare dappertutto nel mondo il vangelo» (AG 20; RM 62).
Espressione concreta e privilegiata della natura missionaria della Chiesa si ha nell’invio di evangelizzatori in ogni parte del mondo, con preferenza a chi non ha ancora ricevuto l’annuncio del vangelo (cf. LG 17, AG 5-6).
Questo concetto di Missione che comprende anche la dimensione geografica rimane sempre valido e prioritario, perché questo è il comando del Signore: andare in tutto il mondo, a ogni creatura. Valido e urgente anche oggi perché: “non possiamo stracene tranquilli” - dice GP II nella RM - al pensiero che la maggior parte dell’umanità non ha ancora incontrato l’annuncio evangelico.
Ma si è anche allargato alle persone che devono essere rievangelizzate, agli ambienti refrattari o impermeabili all’annuncio del vangelo. La RM li ha indicati come i moderni areopaghi. Già Paolo VI vi aveva fatto riferimento nella “Evangelii Nuntiandi”, scrivendo che: «per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità che sono in contrasto con la parola di Dio e il disegno di salvezza» (EN 19).
Tuttavia, è l’invio che dà consistenza al volto missionario della Chiesa, perché richiama a quello che ogni Chiesa deve essere: inviata nel mondo e partecipe della missione evangelizzatrice universale. Questa è “legge fondamentale di vita” per ogni Chiesa, che «diminuirebbe il suo slancio vitale se, concentrandosi unicamente sui propri problemi, si chiudesse alle necessità delle altre Chiese. Riprende invece nuovo vigore, tutte le volte che si allargano i suoi orizzonti verso gli altri». Lo dice Postquam Apostoli (n.14), lo ripete fin dall’inizio RM; e pure i Vescovi italiani dopo il Convegno ecclesiale di Palermo: «La nuova evangelizzazione sul territorio riceverà slancio e ispirazione da una sincera ed effettiva apertura alla missione universale. Un’autentica pastorale non può mancare di questa dimensione, perché la carità è vasta come il mondo» (“Con il dono della carità dentro la storia”, 26/5/1996).
Lo hanno ribadito in modo ancora più significativo in CVMC, dove invitano tutte le comunità a allargare «lo sguardo verso un orizzonte planetario» (n. 46), perché sarebbe una “idea ristretta” chiudersi nel “qui e ora”, limitare l’attenzione al proprio territorio: parrocchia, gruppo, diocesi, nazione, continente. Dopo la risurrezione il vangelo ribadisce che nel nome di Gesù “la conversione e il perdono dei peccati” devono essere portati a tutti. La dimensione universale della salvezza è componente necessaria del disegno del Padre, che vuole che tutti siano salvi. Per cui la missione “ad gentes” è il «costante orizzonte e il paradigma per eccellenza» dell’impegno pastorale (n. 32).
Il discorso si potrebbe ancora allargare sulla base di quanto hanno ribadito soprattutto gli ultimi interventi magisteriali di GPII, in particolare la enciclica “Ecclesia de Eucaristia” e la Lettera Apostolica “Mane nobiscum Domine”, e i messaggi per ultime due GMM della sua vita: 2004 e 2005, che ricalcano quanto espresso nella enciclica, che: Eucaristia e Missione formano un binomio indissolubile. Perché dall’eucaristia nasce la Chiesa, la quale, scaturita dal costato di Cristo morente per continuare la sua stessa Missione, è rivolta a ogni essere umano. E anche qui, con una espressione originale i Vescovi italiani scrivono che «La Missione è iscritta nel cuore dell’eucaristia»3.
E si può anche aggiungere che la “Chiesa che fa l’eucaristia” la deve celebrare con stile missionario.
Per cui, secondo GP II, la celebrazione eucaristica domenicale è un Appuntamento e una Consegna del Signore Risorto alla comunità celebrante.
Appuntamento: «Ogni domenica il Cristo risorto ci ridà come un appuntamento nel Cenacolo, dove la sera del "primo giorno dopo il sabato" (Gv 20,19) si presentò ai suoi per "alitare" su di loro il dono vivificante dello Spirito e iniziarli alla grande avventura dell'evangelizzazione» (NMI 58). E quindi una:
Consegna a “farsi annunziatori dell’evento che viene celebrato”. Impegna a propagare senza paura la propria fede (MND 24). Questo per GP II è il modo di essere della Chiesa e di quanti partecipano all’eucaristia: la Missione non è uno degli interessi, una delle attività della comunità cristiana, ma fa parte della sua identità: «il mandato di evangelizzare tutti gli uomini costituisce la missione essenziale della Chiesa... è la sua identità più profonda» (EN 14).
2. Dimensione missionaria del presbitero
Dal Concilio Vaticano II in poi i documenti che riguardano la vita e il ministero dei presbiteri ne mettono in evidenza caratteristica missionaria. Come punto di partenza va segnalata l’affermazione della PO, per la quale con l’Ordinazione il presbitero ha ricevuto un dono spirituale che non lo abilita «a una missione limitata e ristretta bensì a una vastissima e universale missione di salvezza fino agli estremi confini della terra» (PO 10).
Per questo, la Esortazione Apostolica postsinodale “Pastores dabo vobis” (1992) aggiunge che i presbiteri «devono essere penetrati e animati da un profondo spirito missionario e di quello spirito veramente cattolico che li abitua a guardare oltre i confini della propria diocesi, nazione o rito e ad andare incontro alle necessità della Chiesa intera, pronti nel loro animo a predicare ovunque il vangelo» (n. 18). È una insistenza che percorre tutta questa esortazione apostolica che non è specificamente sulla missione ma sull’identità e sulla natura del ministero sacerdotale.
Lo ribadisce poi la RM: «tutti i sacerdoti devono avere cuore e mentalità missionaria, essere aperti ai bisogni della Chiesa e del mondo, attenti ai più lontani, e ai gruppi non cristiani del proprio ambiente…, sentire la sollecitudine di tutta la Chiesa e per tutta l'umanità » (n. 67).
Non si tratta di semplici esortazioni, ma si sottolinea che questo fa parte della natura, è costitutivo, del ministero ricevuto. Lo dice chiaramente la LG: «in ragione dell’ordine e del ministero, tutti i sacerdoti, sia diocesani sia religiosi, sono cooptati nel corpo dei vescovi e, secondo la loro vocazione e grazia, sono al servizio del bene di tutta la Chiesa» (LG 28) e secondo AG devono essere «profondamente convinti che la loro vita e stata consacrata anche per il servizio delle missioni» (n. 39). «Come Cristo è il primo missionario – commenta Paolo VI - così anche tutti i sacerdoti in virtù del sacerdozio ricevuto devono chiamarsi missionari» (Paolo VI, Graves et ingravescentes, Enchiridion 545). La loro missione è ampia come quella di Cristo, è senza limiti di spazio.
È come un ritornello che ritorna in tutti i documenti riguardanti i presbiteri, ribadendo che è cosi:
“in forza dell’Ordinazione”. L’origine della dimensione missionaria del presbitero” ha la sua radice nel sacramento ricevuto. Lo esprime la preghiera di Ordinazione che non solo costituisce nel presbiterato, ma dice anche cosa esso significa e comporta. Dalla “lex orandi”, la “lex credenti”. Questa preghiera sacramentale stabilisce un rapporto di comunione e collaborazione del presbitero con il collegio episcopale, al quale Cristo ha affidato il compito della evangelizzazione del mondo. Come ogni vescovo è «ordinato non solo per la sua Chiesa particolare, ma è corresponsabile con il Papa dell’annuncio del vangelo a tutte le genti» (PO 2), così ogni presbitero è ordinato per collaborare con lui a questo compito.
Tutta la preghiera di Ordinazione si articola su questa collaborazione e condivisione del presbitero con le responsabilità del Vescovo, facendo memoria di eventi della storia della salvezza.
Per l’Antico Testamento è ricordata la scelta che Mosè fece per comando di Dio di settanta anziani sui quali il Signore effonde lo spirito di Mosè «perché egli potesse guidare con il loro aiuto il tuo popolo». Lo stesso viene ripetuto nella figura di Aronne e dei suoi figli per il compito liturgico, l’offerta dei sacrifici, la santificazione delle persone. E nella pienezza dei tempi, Gesù Cristo mandato nel mondo dal Padre «rese partecipi della sua missione gli apostoli» ai quali sono stati aggiunti i 72 discepoli, anch’essi inviati.
Nel contesto per cui è formulata questa preghiera, cioè l’ordinazione del presbitero, si intravede in Mosè e negli apostoli la figura dei vescovi e negli anziani e nei 72 discepoli4 quella dei presbiteri che vengono resi partecipi della missione da Gesù conferita in pienezza agli apostoli di annunciare il vangelo, attuare l’opera di salvezza mediante i sacramenti e la cura pastorale del popolo santo di Dio. Cioè: « annunziare e attuare l’opera della salvezza».
Ma avendo come orizzonte tutta l’umanità. Infatti, la preghiera di ordinazione si conclude invocando che il presbitero appena ordinato:
«Sia degno cooperatore dell’ordine episcopale, perché la parola del vangelo, mediante la sua predicazione, con la grazia dello Spirito Santo, fruttifichi nel cuore degli uomini e raggiunga i confini della terra… Sia unito a noi, Signore, nell’implorare la tua misericordia per il popolo a lui affidato e per il mondo intero. Così la moltitudine delle genti, riunita in Cristo diventi il tuo unico popolo che avrà il suo compimento nel regno».
Da quanto detto emerge che «il sacerdote è missionario di natura sua». La «disponibilità alla missione non ha bisogno di una vocazione in più. Al presbitero basta la vocazione che ha!»5. La “Nota” della Commissione Episcopale della CEI nel 50° della Fidei donum, ricorda che «ogni presbitero è incardinato in una diocesi, ma per l’evangelizzazione di tutto il mondo…. l’apertura missionaria non è un sovrappiù nella vocazione del presbitero diocesano, ma una sua forma di realizzazione» (n. 9).
Questa era pure la convinzione del Beato Allamano. Sapeva che non tutti possono realizzare questa vocazione fuori della propria diocesi e nazione. Ma ripeteva che «tale desiderio dovrebbe essere di tutti i sacerdoti». Lui stesso non ha potuto farlo e quindi – diceva – ha voluto aiutare altri a esserlo. E a riguardo della fondazione dell’Istituto missionario da lui realizzata diceva con convinzione: «ho fatto solo il mio dovere», perché prete, come prete, e formatore di sacerdoti.
Ciò ha la sua radice nella speciale partecipazione alla missione di Gesù, mandato nel mondo per annunciare e attuare la volontà del Padre che tutti siano salvi (1 Tm 2,4). Di conseguenza chi è chiamato a questo ministero deve riferirsi al comportamento di Gesù. Egli inizia la sua missione nella Galilea delle genti, zona di confine, di sincretismo, di paganesimo, in un popolo immerso nelle tenebre (Mt 4, 12-17); e sempre in Galilea dà l’appuntamento per incontrarlo, dopo la risurrezione, perché di là deve incominciare anche la missione dei suoi apostoli. E nel corso del suo ministero quando si cerca di tenerlo in un luogo, la sua risposta è “Andiamo altrove… ho altre pecore” (Lc 4,42-43). A tutti si fa incontro. Supera ogni barriera e emarginazione.
È una proposta tipicamente missionaria anche per chi rimane in patria. Non si
ferma a metodi e schemi tradizionali consolidati, al si è sempre fatto così, ma si va oltre. È un atteggiamento di spirito, che comporta di andare dove il vangelo non è presente, dove manca la presenza cristiana. È la proposta che GP II fece alla Chiesa italiana al Convegno ecclesiale di Palermo, invitandola a passare da una pastorale di conservazione a una di missione.
Anche in Italia c’è bisogno di dare una “spallata” alle porte chiuse del Cenacolo, uscire dal sicuro, dalle sacrestie protette, dal mantenere le posizioni, per andare in cerca della pecorella smarrita ( delle 99 che sono uscite), lasciare la panchina per scendere in campo, smettere di stare in difesa e partire all’attacco, cioè: rivolgersi a chi è lontano dal vangelo, a chi non crede, ai giovani “del muretto”. Ecco la Missione paradigma, punto di partenza.
Formazione seminaristica
A questa dimensione missionaria, propria del presbitero, deve educare la formazione seminaristica perché questo fa parte della identità del sacerdote. Perciò, occorre fare in modo che nella loro formazione i candidati al sacerdozio «oltre a coltivare l’amore verso la diocesi per il cui servizio sono ordinati, abbiano anche a interessarsi di tutta la chiesa» (Postquam…, n. 23). Significativo quanto dice Marco sulla scelta degli Apostoli: «ne costituì dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3, 14-15). Non si tratta di un prima e poi. I prescelti stanno con Gesù e insieme a lui camminano nella evangelizzazione. Gesù li ha subito portati con sé in missione. Stando con lui si comprende la necessità di andare e andando con lui si impara come farlo. E così sarà sempre come è sottolineato nel mandato missionario: «Andate… io sono con voi…» con la conferma: partì con loro, confermando la loro parola”.
Questo spirito deve percorrere la formazione al sacerdozio nel suo insieme.
Nella parte accademica, allargando lo studio dei vari trattati alle loro conseguenze missionarie, in particolare quelli sulla Trinità da cui scaturisce la Missione: «La Chiesa che vive nel tempo è per natura sua missionaria, in quanto è dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito santo che essa, secondo il Piano di Dio Padre, deriva la propria origine» (AG 1; cf. AG 7). Alla Cristologia sottolineando che Cristo è l’inviato dal Padre, il Salvatore e redentore, il Missionario del Padre. Alla Pneumatologia che presenti lo Spirito Santo come il Protagonista, l’Agente principale, la forza motrice della Missione (DeV 21; AG 4). Egli indica le vie della Missione, dà il coraggio di annunciare, apre il cuore all’accoglienza; fa percepire la sua presenza nelle culture, nelle religioni, nelle tradizioni dei popoli. Sinteticamente, Paolo VI nella EN scrive: «L’evangelizzazione non sarà mai possibile senza l’azione dello Spirito Santo».
Stesso discorso va fatto per la Chiesa inviata a tutti i popoli come sacramento universale di salvezza, perché l’annuncio e la comunicazione della salvezza mediante i sacramenti sono parte integrante del disegno salvifico di Dio (cf. SC 5-6); per l’Eucaristia, che fa un “binomio indissolubile con la Missione, per i Sacramenti, la Liturgia in genere, la Mariologia: Maria che porta al mondo Cristo e niente maggiormente desidera che il suo divin Figlio sia conosciuto.
Insieme, formazione a una pastorale improntata alla Missione, all’andare “oltre” la gestione dell’esistente, o alla semplice liturgico sacramentale, ma che risponda ai cambiamenti culturali e sociali in atto. Una pastorale aperta alla realtà avrebbe molto da imparare dall’esperienza delle giovani chiese, attente alla cultura, all’adattamento e della inculturazione, alla ministerialità, al senso gioioso della festa che si manifesta in celebrazioni vive e sentite, alla prossimità agli ultimi e all’impegno per la loro promozione, la proposta dei valori del regno: giustizia, pace, liberazione dalle schiavitù, difesa dei dritti umani, salvaguardia del creato. Disattendere questa dimensione missionaria della pastorale significa mettersi al di fuori della storia e isolarsi, proprio il contrario di quello che dovrebbe realizzare una vera pastorale.
La formazione spirituale dovrebbe puntare sugli atteggiamenti propri del presbiterato, che viene assunto non per sé, ma per gli altri: «con voi sono cristiano, per voi sono vescovo», diceva S. Agostino. E san Giuseppe Cafasso, maestro di sacerdoti ripeteva loro che non è vero prete chi non arde della passione per la salvezza delle anime: «non si diventa sacerdoti per stare bene, avere vita più facile e comoda, onori e vantaggi, [fare il Canonico Signore” diceva scherzosamente l’Allamano,… ] ma per faticare e lavorare, essere a servizio degli altri, soprattutto per comunicare loro il vangelo e la vita divina».
In tempi a noi più vicini, Paolo VI diceva: «Il sacerdote è l’uomo che vive non per sé, ma per gli altri, è l’uomo della comunità» (Paolo VI, 1969).
Occorre fomentare quindi il fuoco della carità che è l’anima di ogni apostolato. Senza questa non si annuncia, né si dà testimonianza, né ci si sacrifica fino al martirio. «Ci vuole fuoco per essere apostoli. Essendo nè caldi nè freddi, cioè tiepidi, non si riuscirà mai a niente» (G. Allamano). Quanto più questa carità di allarga, tanto più abbraccia il mondo e porta a vivere la caratteristica già ricordata del sacerdote anche diocesano, che non può limitare il suo interessamento per i problemi e le necessità locali, ma si sente partecipe delle situazioni della gente in ogni parte del mondo, lasciandosi interpellare dai problemi e dalle sfide più urgenti che lo riguardano e confrontandosi con l’esperienza evangelizzatrice delle Chiese dei diversi continenti. È vivere la missione anche nel proprio ambiente, compiendo con fedeltà e zelo il proprio ministero e dando una impronta missionaria alle comunità cristiane, come raccomandano vari documenti della CEI, come “L’amore di Cristo ci sospinge” (4 aprile 1999) e CVMC (n. 32), e successivamente “Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia” (30 maggio 2004), che la indica come dimensione fondamentale della vita e dell’attività delle parrocchie. E aggiunge: «Nella vita delle nostre comunità deve esserci un solo desiderio: che tutti conoscano Cristo, che lo scoprano per la prima volta o lo riscoprano se ne hanno perduto la memoria; per fare esperienza del suo amore nella fraternità dei suoi discepoli» (n. 1).
E termino con le parole dello stesso documento che ricorda che questo è l’impegno di sempre perché nasce dal mandato di Cristo (Mt 28, 19), ma «in un’epoca di cambiamento come la nostra diventa nuovo. Da esso dipendono il volto del cristianesimo del futuro, come pure del futuro della società».
Questo è soprattutto nelle vostre mani, aperte al futuro della Chiesa e del mondo.