”Il Vaticano dovrebbe intervenire con più decisione per proteggere i cristiani iracheni e aiutarli a rimanere nella loro patria». A parlare è l’ayatollah Muhammad Saeed Al Hakim la seconda massima autorità sciita in Iraq dopo l’ayatollah Ali al-Husayni Al Sistani. I due hanno molto in comune. Entrambi vivono in povertà a Najaf, dediti alla preghiera, agli insegnamenti teologici e alla carità. Entrambi appartengono al «quietismo», la corrente più spirituale del pensiero sciita contrapposta a chi, come l’ayatollah Ruḥollah Khomeini, sosteneva invece l’intervento diretto dei religiosi in politica. Entrambi hanno un grande seguito in Iraq e non solo. Infatti la scuola quietista di Najaf contende il primato teologico sul mondo sciita agli ayatollah di Qom, in Iran.
Al Hakim riceve i suoi ospiti, siano essi mendicanti della vicina Moschea di Ali o capi di Stato, seduto a gambe incrociate su un tappeto nel suo «studio», una stanza completamente spoglia. L’anticamera è piena di persone di tutti i ceti, in attesa di chiedere un consiglio, una preghiera un aiuto. L’ayatollah, 78 anni, è una figura ascetica, le guance incavate, la barba bianca e lunga. È molto preoccupato per il «terrorismo disumano» dei miliziani del sedicente califfo Al Baghdadi. «L’Iraq – spiega – è stato vittima di complotti regionali e internazionali e continua ad essere destabilizzato da criminali che offendono l’Islam e che costituiscono però un pericolo non solo per la tenuta del nostro Paese, ma per l’intera umanità». «Occorre – dice – spronare i capi politici, i religiosi e i media a smascherare gli obiettivi e le intenzioni malvagie di questi terroristi, che vogliono innescare nuove guerre confessionali». L’ayatollahauspica che il suo Paese risponda unito alle minacce dello Stato islamico e che le diverse componenti nazionali sappiano ritrovare una convivenza pacifica. «Bisogna rispettare il parere degli altri, collaborare con saggezza, dialogare ed evitare la violenza», sottolinea. «È necessario però – aggiunge parlando a una delegazione cattolica arrivata dall’Italia – che i politici lavorino per l’interesse comune e non per se stessi». La stoccata sembra diretta all’ex primo ministro iracheno Nuri Al Maliki che, con una politica di settarismo sciita, ha provocato crescenti tensioni con i sunniti, fino all’ingresso in campo dei miliziani dello Stato islamico.
Gli ayatollah «quietisti» di Najaf, silenziosi per anni, hanno fatto sentire la loro voce nell’estate scorsa per sollecitare un’uscita di scena di Al Maliki e per esortare tutti gli iracheni ad unirsi alla battaglia contro il califfato di Al Baghdadi. La chiamata alle armi dei religiosi della Moschea di Alì è stata però utilizzata da alcuni, come il leader politico-religioso Muktada al Sadr, per riorganizzare le milizie sciite, distintesi per la loro ferocia nella guerra civile irachena degli scorsi anni.
Al Hakim, a lungo imprigionato durante il regime di Saddam Hussein e salvatosi miracolosamente nel 2003 da un attentato contro la sua casa di Najaf, attribuito prima ad estremisti sunniti e poi ad estremisti sciiti, sogna ancora che «l’Iraq possa aprire una pagina nuova, mettendosi alle spalle decenni di dittatura e successive violenze crudeli». Insieme ad al Sistani, ha offerto ospitalità e protezione a Najaf e Kerbala per tutti i perseguitati dai terroristi dello Stato islamico, minoranze religiose ma anche sunniti moderati. Non si capacita che la comunità cristiana, componente storica dell’Iraq, si stia disgregando e scomparendo. A chi gli fa notare che Papa Bergoglio interviene continuamente per chiedere protezione e garanzie per i cristiani iracheni, l’ayatollah, come molti altri esponenti religiosi di Najaf, risponde: «Sì, è vero. Tuttavia bisognerebbe fare di più». Francesco, durante il recente viaggio in Turchia, indirettamente gli ha risposto: «Io in Iraq voglio andare, anche se per adesso non si può perché creerei un problema serio di sicurezza alle autorità», ha detto ai giornalisti durante il volo di ritorno da Istanbul.
Violenza e Islam
A Najaf la parola ai cattolici
Per la prima volta, a metà dello scorso ottobre – per il forte desiderio dell’ambasciatore iracheno presso la Santa Sede, Habib Mohammed Hadi Ali Al Sadr – una delegazione cattolica è stata invitata al Festival internazionale Al Gadir, uno degli appuntamenti di studio e riflessione più importanti della città santa sciita di Najaf. Al Gadir, letteralmente «la fontana d’acqua» indica il luogo in cui – secondo la tradizione sciita – Maometto scelse il genero Alì, marito della figlia Fatima, come suo successore. Su Alì e l’importanza dei suoi insegnamenti e della sua spiritualità si è concentrato l’incontro, a cui hanno preso parte leader religiosi di 33 Paesi, nella quasi totalità musulmani
L’intervento della delegazione cattolica, guidata dall’archimandrita della Chiesa cattolica greco-melchita di Roma, il barnabita padre Emiliano Redaelli, e composta dal diacono iracheno Louay Shabani e dal padre carmelitano Ernesto Zielonka, ha introdotto un approccio nuovo: della figura di Alì si è parlato non solo tra studiosi musulmani, come è avvenuto nelle precedenti edizioni, ma anche, stavolta, attraverso lo sguardo del cristianesimo. Sullo sfondo è stata posta la drammatica situazione irachena.
«Sappiamo che ogni razzismo è un tradimento dell’Islam», ha detto l’archimandrita Redaelli riferendosi ad uno dei principali insegnamenti spirituali del primo imam sciita e soffermandosi sui punti di contatti tra cristianesimo e spiritualità islamica.
«Purtroppo, i tempi che stiamo vivendo sono offuscati dalla violenza, la più feroce della storia della Mesopotamia contro le popolazioni cristiane, yazide, shabak, turcomanne, sciite a Mosul e nell’intera piana di Ninive», ha sottolineato nel suo discorso, pronunciato dal palco allestito nel cortile della Moschea di Alì, davanti ad una platea composta da alte autorità e studiosi sciiti. «È ammirevole in questo tragico evento – ha proseguito l’archimandrita – la vostra accoglienza e ospitalità: Dio ne darà riconoscenza. E nello stesso tempo testimonia che il crimine non appartiene alla fede ed è un’offesa a Dio, come è scritto nella Sura: “La sua passione lo spinse ad uccidere il fratello, lo uccise e divenne uno di coloro che si sono perduti” (Corano, Sura V, 30 – ndr). Come ha sottolineato il Santo Padre, la violenza genera violenza… È una vergogna uccidere nel nome di Dio».
La delegazione ha incontrato le autorità religiose di Najaf, tra cui il grande ayatollah Al Hakim, i responsabili dell’accoglienza e gruppi di profughi, cristiani e yazidi, presenti in città, gli studenti della facoltà (mista) di scienze umane dell’Università di Kufa, il massimo esperto di antichità irachene, Sami al Badri. «Siamo stati circondanti da affetto, curiosità, grande apertura intellettuale e umana. Nessuna diffidenza. Tutt’altro. Tante domande sul Vaticano, sul Papa e su come sono percepiti l’imam Alì e la spiritualità sciita nel mondo cattolico», ha spiegato padre Redaelli, che ha concluso: «Si avverte una forte domanda di dialogo, basato sul reciproco rispetto».