NELLA VITA RELIGIOSA LA VERA CRISI È L’ANEMIA SPIRITUALE

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di Carlos Palàcio 

 

 

Il futuro della vita religiosa consacrata potrà costruirsi solo a partire dal presente, ma da un presente convertito al Vangelo, con la responsabilità che richiede a noi la sequela di Gesù.

 

Che cosa succede oggi alla vita religiosa? A quali minacce è esposta sia dal punto di vista dell’istituzione che da quello delle persone?

Porre queste domande non vuol dire che la vita religiosa consacrata sia Giunta allo stato terminale. Ma come non riconoscere la disillusione stampata nella vita di tanti/e religiosi/e. Qual è l’origine di così grande malessere? Quali le cause?

Il futuro della vita religiosa consacrata potrà costruirsi solo a partire dal presente, ma da un presente convertito al Vangelo, con la responsabilità che richiede a noi la sequela di Gesù. Le seguenti riflessioni vogliono essere un contributo per un tale discernimento.

Anzitutto tre presupposti

Può essere utile, per la tranquillità di tutti, presentare in maniera chiara e sintetica tre presupposti o convinzioni che animano e sostengono questo tentativo di interpretare il momento attuale della vita religiosa consacrata. Si tratta di convinzioni fondamentali che illuminano la mia ricerca e che desidero condividere con un gran numero di religiosi - uomini e donne - che, nonostante tante difficoltà, non cessano di credere che la vita religiosa consacrata ha un futuro.

 

Il primo presupposto - che è anche una convinzione - è semplice: la vita religiosa consacrata è nata dal Vangelo, dalla scoperta appassionata della persona di Gesù e dall’adesione alla sua forma di vita. Possiamo dire perciò che fintanto che ci sono uomini e donne "folli per Cristo", appassionati per questo modo di essere di Gesù, non cesseranno di esserci espressioni di questa esperienza nelle "forme di vita religiosa consacrata". È una convinzione fondamentale in questo momento storico in cui la vita religiosa è interpellata nella sua qualità evangelica di vita.

Il secondo presupposto è una costatazione storica. Sono state molte e diversificate le forme in cui ha preso corpo la vita religiosa consacrata nel corso della storia. Questa testimonia che alcuni gruppi e forme di vita sono scomparsi dopo un certo tempo di esistenza. Pertanto nessuna forma storica particolare di vita religiosa consacrata può avere la garanzia della sua perennità. Senza che ciò abbia significato né significhi oggi la fine della vita religiosa consacrata. È una costatazione che dovrebbe darci la pace e la libertà necessaria in questo momento per rispondere agli appelli del Signore.

Il terzo presupposto è una diagnosi: la vita religiosa consacrata soffre oggi di una innegabile “anemia evangelica”: personale e istituzionale. Questa diagnosi non è un giudizio di valore sulle persone, è una costatazione di una situazione oggettiva, letta a partire da certi sintomi. Questa potrebbe essere una delle ragioni della mancanza di significato della vita religiosa apostolica nella cultura moderna e della sua irrilevanza sociale. È una delle spiegazioni possibili della diminuzione delle vocazioni. Per superare questa anemia, bisogna recuperare la passione per la persona di Cristo, il primo amore che deve risplendere in tutta la vita religiosa consacrata. È la condizione indispensabile per un futuro significativo.

Il confronto con il post-moderno

La vita religiosa consacrata nel corso degli ultimi decenni è passata attraverso varie fasi che è opportuno ricordare, almeno sinteticamente, per renderci conto del punto in cui oggi ci troviamo e delle sfide che ci attendono, in vista di un oculato discernimento.

Abbiamo assistito alla fine del “modello tradizionale” e ciò ha significato per la vita religiosa l’inizio di un processo di ri-significazione dell’identità e della missione e di confronto con il mondo moderno.

Come è avvenuto per lo stesso Vaticano II, la vita religiosa consacrata è stata sorpresa nel suo cammino nel tempo da un profondo e inatteso cambiamento culturale che ha voluto dire cambiamento di interlocutore: il passaggio cioè dal soggetto moderno al post-moderno. Questo cambiamento non è stato solo il risultato dell’emergere delle “nuove generazioni” nella vita consacrata, ma dell’impatto della mentalità post-moderna nella società e nella cultura. E quindi nella vita consacrata.

 

Non è necessario fare un’analisi di questa situazione culturale per capire come incidano nella vita religiosa i tratti caratteristici di questa cultura. Essere o non essere moderni o post-moderni non è una questione di scelta, è un modo di essere che la cultura e la società ci impongono. Il problema è di sapere come comportarsi con questo “imperativo culturale”: fino a che punto lo sottoponiamo al vaglio del Vangelo?

Ci sono non pochi indizi di quanto la frammentazione del soggetto post-moderrno incida fortemente sulla crisi di identità della vita religiosa apostolica e contribuisca alla disintegrazione dell’unità perduta tra esperienza spirituale, stile di vita e invio in missione. Non solo per l’affermazione incondizionata dell’individuo, ogni volta sempre più isolato nell’individualismo, ma per la costante e accelerata trasformazione delle mentalità e dei valori.

È possibile essere seguaci di Gesù senza sottoporre questi cambiamenti a un costante discernimento? Come verificarli in modo evangelico? Il problema non riguarda solo i più giovani. Il contagio culturale delle mentalità non fa distinzione tra le persone e nemmeno tra le età. È visibile la frammentazione dell’esperienza spirituale, della convivenza fraterna e della missione apostolica. Ciò che emerge è l’assenza di una base omogenea e coerente e di un linguaggio comune che esprima l’unità del vissuto.

Continuiamo a usare lo stesso linguaggio senza accorgerci che ha un significato diverso. Parliamo di carisma come se fosse possibile trovarlo in qualche luogo mitico, privilegiato, al margine dell’unità indissolubile tra esperienza fontale di Dio. invio in missione e vita condivisa. Non ci rendiamo conto di quanto la prolungata “riduzione monastica” abbia inferto alla vita religiosa apostolica un colpo mortale da cui non si è ancora ripresa: la disarticolazione dell’unità dell’esperienza e la frammentazione di ciascuno di questi elementi.

Dove si troverebbe il significato profondo della vita religiosa se non nella qualità della vita fraterna e nello stile di vita in missione?... Se la missione non rende visibile e non esprime in modo significativo ciò che siamo, la nostra vita e ciò che facciamo sono senza significato. O siamo missione viva o non lo siamo: anche se ci consumiamo nel lavoro.

È vano sognare un ritorno al passato

Due racconti di Luca - Emmaus (Lc 24,13-35) e la pesca miracolosa (Lc 5,1-11) - possono essere letti come “parabola” di questo momento storico. Come quei due discepoli, la vita religiosa si trova nel cammino di “una notte oscura”. Attorno ad essa non c’è niente che favorisca uno sguardo di speranza. Il presente è abitato da “tutte le cose che sono accadute” così “forti” così “evidenti” che uccidono la speranza e la capacità di leggere i segni che esistono. Ciò che si impone è il vuoto dell’assenza. Dopo una lunga notte di fatica senza i risultati sperati (Lc 5,5), la vita religiosa ha bisogno di ascoltare dal Signore questo “ordine” tassativo:” Prendi il largo!” (cf. 5,4). Inoltrarsi nel mare profondo, finché si profili davanti un orizzonte insperato. La soluzione non sta nel tornare al passato e nemmeno nell’allontanarsi dal Signore. come Pietro (cf. 5,8), ma nel tornare a gettare le reti “nel tuo nome”, “sulla tua parola” (cf. 5,5), fino ad ascoltare la chiamata che proietta verso il futuro di Dio: “Io farò di voi dei pescatori di uomini” (cf. 5,19).

Emmaus è la tentazione del passato, ma questo passato non esiste più. Le incertezze del momento storico sono state incorporate nella nostra vita senza rimedio, ci abitano. L’unica via di uscita è di verificarle alla luce del Vangelo. È la funzione del "lavoro terapeutico" messo in atto da Gesù con i suoi discepoli lungo il cammino verso Emmaus. Anche noi dobbiamo formulare ed elaborare ciò che ci rattrista, finché i nostri cuori si riscaldino, gli occhi si aprano e la speranza ritorni.

Credere nel futuro della vita religiosa è aver fiducia nella fedeltà più grande di Dio che abita e rende possibile la traversata di questo momento storico. Appoggiati sulla parola del Signore. bisogna "inoltrarsi nelle acque profonde". È un tragitto che ci porta dall’identità sospesa all’identificazione della chiamata; e dalla disarticolazione della missione al recupero della unità necessaria tra "essere" ed "essere per gli altri" nell’esperienza unica di “essere con Gesù”.

 

Recuperare l’esperienza della vocazione, di “essere chiamati”: è la prima condizione perché la vita religiosa possa rivivere. A prima vista sembra ovvio, ma è qualcosa che non può essere dato per scontato. Senza “vocazione” non ci può essere “vita”.

- “Nessuno attribuisce a se stesso questo onore” scrive la lettera agli Ebrei (5,4 ss.) parlando del sacerdozio di Cristo, “se non chi è chiamato da Dio, come Aronne”.

- Discernere la vocazione: è il primo lavoro da fare per ricostruire la vita religiosa apostolica. È un problema che è in relazione con quello delle vocazioni che tanto ci preoccupa.

- È urgente discernere con maggior cura la vocazione di coloro che desiderano entrare, ma con non minor cura è necessario discernere la qualità della vocazione di coloro che già vi fanno parte (“come stiamo” nella vita religiosa? come spiegare tante “uscite”?).

- La qualità della vita nella vita religiosa è un problema di vocazione (come stiamo e viviamo?). Vocazione intesa come opzione di vita non solamente come questione di gusti, di inclinazione, qualità, ecc. nella decisione iniziale. Sappiamo che ogni opzione di vita implica dei rischi. “Perché non si sa mai”, diceva Guimaràes Rosa. Per questo, una vocazione consistente esige un fondamento solido, ha bisogno di una "mistica" che la sostenga.

È urgente perciò recuperare la “mistica della vocazione” così come si trova nei racconti del Vangelo. L’apparente “ingenuità” di questi racconti, stilizzati al massimo, non nasconde la loro densità antropologica: Gesù passa, vede, chiama e suscita la risposta a seguirlo.

La vocazione appare come un “avvenimento” che sopravviene nella vita di una persona, incontrando uno che le rivolge una chiamata. Avvenimento sorprendente, insperato e per questo gratuito.

La chiamata viene da fuori, da un “altro”, da qualcuno che interpella e in questo modo modifica la vita della persona. Si tratta di ciò che i vangeli descrivono come “incontro” con Gesù di Nazaret.

La risposta può essere solo personale e libera, nessuno può rispondere al posto di un altro: la chiamata è categorica, imperativa (“seguimi!”). E indica la radicalità antropologica della sequela: tutto o niente. Ciò che è in gioco è la totalità della vita della persona. Ma è possibile che uno rischi in questo modo la sua libertà umana?

La “grazia” della vocazione è presente nell’atto stesso di essere aperti/e ad accogliere e “ascoltare” la chiamata. Questa grazia suscita la libertà di rispondere e rende possibile una risposta libera. La radicalità antropologica, tuttavia, non si esaurisce nell’atto di rispondere: deve essere “messa in pratica” nel corso della vita e in tutte le dimensioni.

Questo è il significato dell’evangelico “rinnegare se stesso” che non ha niente a che vedere con la repressione o la negazione dell’umano (dis-umanizzarsi), ma è la rinuncia a fare del proprio “io” il centro, la norma e lo scopo della propria vita.

Prima di tutto, è necessario “rinunciare a se stessi”, abdicare alla pretesa del dominio sulla propria vita. Ciò è possibile solo “per causa mia e del Vangelo” (Mc 8,35), ossia nella misura in cui Gesù entra e prende possesso senza ritorno della nostra vita. E così la realizza. Relazione personale in cui la forma di vita di Gesù esercita una vera seduzione sulla persona, che diventa capace di rispondere in tutta libertà.

È ciò che qui significa “recuperare la vocazione”. Paradossalmente, questo “perdersi per trovarsi” è la condizione per poter essere “inviati” come testimoni del Signore.

Servire è possibile soltanto in un atteggiamento disarmato, quando non si ha niente da prendere con sé. È la “mistica della vocazione”. Senza di essa la vita religiosa diventerà, presto o tardi, un peso insopportabile. Inconsciamente la risposta si sposterà dalla “vita religiosa come opzione di vita”, liberamente assunta, a una vita religiosa percepita come un peso. Cosa che colpisce non solo la persona, ma anche il corpo.

Ma “avere vocazione” oggi non è qualcosa di evidente. Meno ancora in una cultura in cui è messo al primo posto il “successo professionale”, l’ossessione della realizzazione. È una cultura di “professioni”, non di “vocazioni”. La cultura moderna privilegia, da una parte, la logica della ragione strumentale (la tecnologia richiede professionisti altamente qualificati) e, dall’altra, l’affermazione dell’individuo (io!) come soggetto definitivo della propria autorealizzazione. Professione è sinonimo di lavoro, denaro, livello di vita e autorealizzazione.

Non c’è posto, in questa prospettiva, per un’esperienza di “vocazione ricevuta”, che qualifichi l’ “io” del soggetto al di là del professionale e che dia significato alla sua vita.

Si perde il senso della vocazione perché si è perso il significato del mettere la propria vita a servizio degli altri. Per questo mancano “vocazioni” in tutti gli ambiti della vita umana e sociale.

Si possono avere degli eccellenti professionisti in medicina senza la “vocazione” a essere medici, così come è possibile fare delle cose buone nella vita religiosa senza avere la "vocazione" a vivere questa opzione.

La vocazione come opzione di vita - vita posta al servizio degli altri - suppone una esperienza di esodo da se stessi, un uscire dall’ “io chiuso in se stesso” per riceversi come “io pro-vocato” da Dio. È necessario essere passati attraverso l’esperienza di questa perdita di sé per scoprire la gioia di realizzarsi “perdendosi”, di conservare la vita donandola. È il paradosso del Vangelo.

Come opzione di vita, la vocazione non può essere relegata al passato (al momento dell’ingresso nella vita religiosa). Perciò il problema di “vivere la vocazione o con vocazione” è più preoccupante di quello delle “vocazioni” (quanti siamo?). Perché è in gioco la qualità di chi siamo: ciò che si vive è più importante del numero delle persone che entrano nella vita religiosa. È possibile trasmettere con la nostra vita (qualità di vita) l’esperienza di ciò che ci abita e dà significato?

Un approccio del genere può sembrare a prima vista insolito, ma è fondamentale. Il problema delle vocazioni alla vita religiosa non è solo una questione di numero. È una questione di identità, inseparabile dalla qualità della vita. Ecco perché è necessario discernere non solo la vocazione di coloro che stanno per entrare, ma anche di quelli che già vi fanno parte.

 

a) Il fondamento della vita religiosa apostolica: come ogni vocazione cristiana, la vita religiosa trova il suo fondamento nel Vangelo. Non c’è in questo nessuna pretesa di fare nostri in maniera esclusiva i racconti evangelici di vocazione. Si potrebbe riferirsi ugualmente all’elaborazione paolina della vocazione come conversione, passaggio, dalla “schiavitù” alla “libertà di figli”; o ad altri testi evangelici.

Una cosa è certa, l’ esperienza fondante della vocazione alla vita religiosa è la chiamata a seguire la forma di vita concreta di Gesù. In lui scopriamo una esperienza di Dio fatto carne - con grida e lacrime - nelle lotte della vita quotidiana: imparò ad essere Figlio da ciò che patì. (cf. Eb 5,8).

All’opposto dell’autocentramento del soggetto moderno, Gesù ha vissuto doppiamente “de-centrato”: rivolto al Padre e dedito agli altri. Questa è l’esperienza che voleva trasmettere a coloro che chiamò a “stare con lui”. Il racconto paradigmatico di Mc 3,13-15 dice in maniera sintetica e plastica: chiamò quelli che voleva, ed essi andarono da lui; ne scelse Dodici perché “stessero con lui” e per “mandarli a predicare” il Vangelo.

Il trittico “chiamò quelli che volle, per stare con lui e inviarli” indica chiaramente qual è il nucleo specifico della vita religiosa apostolica, la sua esperienza fondante, la “mistica” senza la quale essa si disintegra e perde il sapore. “Stare con gli altri” (vita fraterna) per “essere inviati con altri” (missione) fa parte dell’identità (essere, stando con Gesù) di questo tipo di vita religiosa. La radice di questa esperienza è la chiamata di Gesù.

Una chiamata del genere deve configurare la vita della persona in tutte le sue dimensioni. La con-vivenza è il risultato dello “stare con Gesù”. Siamo amici nel Signore perché siamo amici del Signore. E, nello stesso tempo, qualifica la missione: siamo inviati non come individui isolati, ma come “corpo apostolico”.

Questa forma di vita è un dono (carisma) per la Chiesa e può diventare un invito ad altri a viverla. Ma la sua forza risiede nell’unità indissolubile di questi tre elementi. Recuperare il primato della vocazione vuol dire esperimentare nel concreto della vita che la chiamata di Dio mi precede e mi pro-voca. qualificando ogni giorno il mio “io”. Questa precedenza di significato è fondamento alla vita e alla missione. Un’esperienza di Dio che ci disloca incessantemente, facendosi uscire da noi stessi per gli altri. L’esperienza di continuare a essere sedotti da Gesù e dalla sua vita conferisce attualità alla vocazione e ci fa uscire dal deperimento e dall’anemia spirituale.

 

b) Discernere la vocazione di coloro che vi fanno già parte. La vocazione è necessaria per “entrare” nella vita religiosa ma anche per “rimanervi”. Bisogna sentirsi chiamati per scegliere questo stile evangelico di vita. Non bastano le qualità umane e spirituali. Da sole non sono un criterio né un “segno“ di vocazione.

Bisogna essere stati “conquistati” da Gesù (cf. Fil 3.12). sentirsi chiamati a vivere la sua “forma di vita” e farne il significato della propria esistenza. Questa è la prima e fondamentale “missione” nella vita religiosa.

Orbene, della “forma di vita” di Gesù fanno parte costitutiva:

- a) la relazione fontale con il Padre,

- b) la con-vivenza con coloro che egli con-voca (vivere “con Gesù” crea comunione e comunità),

- c) una vita messa al servizio degli altri. Questi tre aspetti vissuti in una sintesi originale costituiscono la caratteristica della vita consacrata apostolica. La “mistica della vocazione” riposa su questa unità tra “essere” ed “essere inviato in missione”.

Pertanto, chiedersi “come stiamo/rimaniamo” nella vita religiosa è decisivo per recuperare ad essa la qualità. In caso contrario, in breve tempo, la permanenza diventa un peso morto che infetta il corpo della vita religiosa e lo debilita. Si tratta dell’ “anemia spirituale”. Per questo è necessario discernere la “vocazione di coloro che già vi appartengono”.

Fino a che punto la “vocazione definisce la permanenza e il modo di essere e di vivere nella vita religiosa?” La risposta non è evidente. In molti casi, la vocazione sembra essere “una cosa del passato”, non conserva la forza dell’aoristo continuativo: ossia una chiamata che continua ad avere risonanza nel presente. Come se, una volta compiuto il passo iniziale, effettuata la prima consegna, fosse poi solo questione di “vivacchiare”.

Pertanto è decisivo recuperare la forza della vocazione per ricostruire l’unità perduta della vita apostolica. Solo a partire dall’esperienza di "essere chiamato sarà possibile ricreare la sintesi tra esperienza di Dio. condivisione di vita con altri e invio in missione, che è ciò che costituisce la “mistica ispiratrice” di questa forma peculiare di vita che è la vita religiosa apostolica.

 

c) Nello stesso tempo, si impone un imperativo: avere maggiore chiarezza e rigore nel discernimento delle vocazioni alla vita religiosa. Non come atteggiamento elitario, ma per una questione di coerenza con l’ecclesiologia della Lumen gentium e la sua teologia delle vocazioni. Ognuna delle vocazioni nella Chiesa ha una sua funzione nella comunità e deve essere valorizzata per la differenza che rappresenta. Perciò è necessario discernere la chiamata di Dio in ciascun caso. Non esiste una vocazione “superiore”. La “migliore” vocazione è quella che Dio dà a ciascuno di scegliere, non quella che la persona sceglie in modo arbitrario.

La vita religiosa è una delle vocazioni possibili nella Chiesa. Non è né migliore né peggiore delle altre. Perciò è decisivo avere la certezza che Dio chiama uno per questo tipo di vita. Non pare che sia questo l’atteggiamento dominante nell’ammissione dei candidati/e. Bisogna avere dei criteri ben chiari e definiti. Non basta avere inclinazione, gusto, qualità ecc. Niente di questo è indizio di vocazione, di chiamata di Dio. Dal punto di vi sta umano, è indispensabile la maturità per fare un’opzione di vita. Le qualità hanno il loro posto, soprattutto per il profilo che caratterizza ciascun tipo di vocazione. ma è decisivo scoprire i segni di una vera chiamata.

Si ha, tuttavia, l’impressione che l’ossessione del numero continui a condizionare i nostri discernimenti. Gli itinerari vocazionali di molti candidati sono sorprendenti: manifestano delle ricerche aleatorie, in funzione della persona, più che essere un discernimento di una vocazione divina. Sia nella vita religiosa maschile che in quella femminile.

Con la più grande naturalezza, lo stesso candidato passa attraverso diverse comunità religiose: dopo una permanenza in un ordine monastico, bussa alla porta di una congregazione apostolica sacerdotale, passando attraverso varie congregazioni di fratelli. Come se i carismi fossero uguali e le forme di vita intercambiabili.

Di quale discernimento si tratta? La chiamata di Dio può essere così aleatoria? O stiamo favorendo itinerari personali il cui epilogo è tanto fortuito quanto è stato il suo punto di partenza? Le conseguenze di questo tipo di “vocazione” si faranno sentire più tardi. Con pregiudizio di tutti. E con detrimento della qualità della vita.

La stessa vita religiosa si svilisce venendo a patti con questi procedimenti. Il rigore nel discernimento vocazionale è una prova di onestà verso Dio e di serietà verso la vocazione e il candidato.

 

Nello stesso tempo in cui la vita religiosa apostolica è provocata a ricostruire la sua unità vitale, essa è chiamata a recuperare la qualità evangelica di vita. È necessario che l’esperienza fondante si esprima in forme concrete che le diano visibilità e la capacità di essere attraente. È il "vieni e vedi" dell’invito di Gesù (Gv 1,39; cf. v. 36). Nel periodo post-pasquale, la chiamata, la vocazione ci giunge attraverso gli altri (Gv 1,4 e 45ss: “Abbiamo trovato il Cristo”). Non ci saranno vocazioni se la nostra vita non susciterà interrogativi.

Come è avvenuto con Gesù, bisogna che le persone si interroghino circa la nostra forma di vita: “Chi sei tu che fai queste cose e le fai in questa maniera?”.

È uno dei compiti pendenti oggi. In questi cinquant’anni, la vita religiosa è passata attraverso profonde trasformazioni che le hanno dato un volto più umano. Non sembra tuttavia che abbia raggiunto quello che cercava con il rinnovamento. È come se l’aggiornamento fosse rimasto al di qua del vero obiettivo: quello di una qualità di vita più evangelica. Accontentarsi di meno vorrebbe dire vendere a basso prezzo la vocazione. ridurla a uno spazio terapeutico di autorealizzazione. Non è forse questa la ragione della nostra attuale insoddisfazione?

Due elementi sono indispensabili perché la vita religiosa apostolica recuperi la sua qualità evangelica. Il primo è la ricostituzione della sua "esperienza fondante", della sintesi viva dei tre aspetti che la costituiscono. l cambiamenti attraverso i quali è passata non hanno avuto l’incidenza sperata negli spazi fondamentali della vita religiosa, non hanno modificato qualitativamente né la nostra esperienza di Dio, né i nostri rapporti fraterni, e nemmeno il modo di attuare la missione.

In secondo luogo, una volta ricostituita questa esperienza, la vita religiosa apostolica deve ricostruire la sua visibilità istituzionale. Qualcosa che era molto evidente nel “modello tradizionale”. Ma visibilità non è sinonimo di moltiplicazione delle strutture. La vita religiosa post-conciliare ha condiviso la ricerca di altre espressioni. Ci sono molti indizi, tuttavia, che non è riuscita a ricostruire la sua stessa visibilità. Navighiamo tra residui del passato e frammenti erratici di nuove espressioni. Ma non abbiamo traduzioni chiare di esperienza vissuta come “forma concreta di vita”.

Che significa per la vita religiosa darsi una visibilità evangelica? Non si tratta di una qualsiasi struttura. La visibilità deve scaturire dall’interno della “esperienza fondante” ed è questa che deve configurare in maniera concreta ciascun aspetto del modo di essere e di vivere. In altre parole, l’esperienza è la matrice per una base comune che conferisce coerenza al vissuto: un orizzonte comune di comprensione, un linguaggio comune e un ethos specifico dal quale deve germogliare lo stile di vita. Senza un orizzonte comune di comprensione non ci può essere “comunione di vita”. L’uniformità monastica ha inferto un colpo mortale all’identità della vita religiosa apostolica. All’estremo opposto, la cultura moderna frammentata non offre un orizzonte comune di significato. In questo contesto, la vita religiosa potrà solamente convivere con la grande diversità se sarà capace di manifestare in essa l’unità plurale che si intesse attorno a Gesù. Egli è il “criterio di vita”, la “norma fondamentale” dell’orizzonte di comprensione della vita religiosa. Il contrario di questa "unità plurale" sarebbe una diversità caotica in cui tutto è ugualmente possibile. Cosa che equivarrebbe alla morte della vita religiosa.

Un’unità siffatta non è negazione della diversità, ma integrazione delle differenze e della diversità plurale che arricchiscono. È ciò che la vita religiosa apostolica sembra aver perso per mancanza di immaginazione o di creatività. O forse perché non ha la libertà di lasciare che le sue espressioni scaturiscano liberamente dalla vita. Situarci nel medesimo orizzonte, a partire da prospettive diverse, ci farà scoprire un linguaggio di identificazione - spirituale. comunitario e apostolico - che conferisce unità alla diversità delle prospettive. Un linguaggio che identifica e dà corpo “all’unità nella differenza”. Un tale linguaggio potrà solo derivare dall’unità recuperata dell’esperienza originaria: l’esperienza che sostiene e dà significato agli individui (esperienza di Dio in Gesù Cristo) è quella che rende possibile la con-vivenza con altri (vita fraterna in comune) e quella che deve ispirare, animare e dare significato alla missione (quello che “facciamo”). La vita religiosa apostolica manca anche di un ethos proprio che le dia visibilità ed esprima con chiarezza la “differenza” della sua proposta di vita. Il formalismo della normativa tradizionale ha dato luogo a un vuoto di riferimenti, in cui ognuno è criterio di comportamento. Se i valori e i comportamenti con cui ci identifichiamo sono quelli della cultura dominante, in che cosa consiste la nostra testimonianza, qual è la nostra differenza? La vita religiosa ha bisogno di un ethos comune, il cui riferimento sia l’universo dei valori del vangelo, ossia un modo di essere che crei dei comportamenti diversi in rapporto alla società e alla cultura che ci circonda.

Si tratta della differenza tra “essere nel mondo” ed “essere del mondo” su cui tanto insiste il Vangelo di Giovanni. Non possiamo escludere che la vita religiosa, in questo processo di trasformazione. abbia assimilato, sotto diversi aspetti e in maniera acritica. il modo di essere e lo spirito del mondo. allontanandosi dalla sua matrice evangelica.

Da questo ethos particolare, da questo stile di vita “al modo di Gesù” (ethos è lo stile in cui si trovano e si riconoscono i chiamati a vivere questa forma di vita) sorgerà un modo spontaneo l’ espressione visibile di questo modo di vivere.

Così la vita religiosa si fa conoscere (visibilità) e diventa, nello stesso tempo, un’interpellanza e un interrogativo per gli altri (significato). L’attrattiva di questo stile di vita e la capacità di suscitare interrogativi (perché sono così? che cosa giustifica questa vita?) saranno la prova dell’autenticità dell’esperienza vissuta e della sua forza trasformatrice.

Se gli uomini e le donne con cui viviamo non riescono a percepire “di che” e “per quale ragione” viviamo, dovremmo domandarci se la nostra vita non assomiglia, come dice Paolo, a un cembalo che strepita (cf.1 Cor 13,1).

Questo momento storico può rappresentare un vero kairós per la vita religiosa apostolica, una grazia “pasquale” per risorgere a una vita nuova. Ma per questo deve imparare a leggere i “segni dei tempi”. Le morti sembrano chiare. Il nucleo duro di questa “pasqua” è il “ritorno al Vangelo”, la conversione alla sua “forma di vita” originale. Qualsiasi altro tentativo risulterà insufficiente. È possibile questa riconversione - personale e istituzionale - dell’identità e della missione della vita religiosa apostolica? C’è ancora posto nella nostra vita per una irruzione creatrice dello Spirito?

 

Duplice è la missione della vita religiosa apostolica nella Chiesa. Ad intra essa è chiamata a tenere viva nella comunità ecclesiale la coscienza che la Chiesa non esiste per se stessa né termina in se stessa, ma esiste “per il mondo” - l’unico mondo, concreto e reale per il quale Gesù ha dato la vita . Ad extra, la vita religiosa è inviata per essere presente nel mondo “gridando con la vita” - come direbbero Fratel Carlo de Foucauld e sorella Magdaleine - che per generare vita bisogna trasmettere la fede che un “altro mondo è possibile” solo “nello spirito delle beatitudini” e che è di questo Spirito di Gesù - “Spirito" con la S maiuscola - che il mondo è assetato. Per assolvere a questa duplice missione, tuttavia, bisogna che la vita religiosa attui anzitutto in se stessa la “sintesi vitale” tra passione per Dio, vita fraterna e missione. Non è infatti con discorsi che convinceremo il mondo del primato di Dio nella nostra vita o che diventeremo “segno” di Cristo per gli altri.

Non basta “vivere insieme” per diventare segno di ciò che vuol dire essere “compagni di Gesù”, possiamo logorarci nel lavoro senza che traspaia la cosa più importante, ossia che siamo “servi della missione di Cristo”.

A partire da queste premesse, con semplicità e umiltà, la vita religiosa apostolica potrà entrare in dialogo con altre vocazioni e forme di vita nella Chiesa. Senza nascondere il suo volto né diluirsi in nessuna delle altre forme, ma affermando il suo posto e la sua funzione nella comunità ecclesiale e nel mondo al quale è inviata. Basta che essa “vada al largo”, rischi di inoltrarsi in queste acque profonde a cui è invitata oggi dal Signore.

 

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* La presente riflessione è ricavata. in forma un po’ abbreviata c con alcuni ritocchi redazionali, dall’articolo di Carlos Palàcio sj, dottore in teologia e provinciale in Brasile della Compagnia di Gesù e vice presidente della CRB, pubblicato nel numero di settembre 2011 della rivista Convergência, bollettino della Conferenza dei religiosi del Brasile(CRB), e intitolato Luzes e sombras da Vida Religiosa Consagrada nos dias de hoje.

 

 

 


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