PARLARE DI DIO IN CINESE LA LEZIONE DI MATTEO RICCI PER I NOSTRI GIORNI

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G. Criveller

La città di Zhaoqing, nella provincia meridionale di Guangdong, lungo il fiume delle Perle, era autorizzata al commercio con i portoghesi che da Macao si inoltravano nel continente. Fu lì che, nel 1583, due missionari italiani della Compagnia di Gesù, Michele Ruggieri (1543-1607) e Matteo Ricci (1552-1610), ottennero l’autorizzazione dal governatore provinciale Wang Pan di stabilire la prima residenza missionaria in Cina dell’era moderna. Fu la prima tappa dell’ascesa verso Pechino, che Ricci raggiunse 18 anni dopo, nel 1601, e dove morirà nel 1610, dopo aver operato una delle avventure culturali e religiose più affascinanti della storia dell’umanità.

 

La via buddista

I missionari, che dimoravano presso la pagoda della Felicità, si rasero la testa e indossarono l’abito dei monaci buddisti. Solo così le autorità potevano giustificare una presenza estranea alle leggi dell’impero. I gesuiti erano ‘monaci venuti dall’Occidente’, un termine che poteva indicare semplicemente monaci buddisti. Il governatore offerse, secondo il costume dell’epoca, l’intitolazione della chiesa “al Fiore dei Santi”, un’altra espressione buddista che i nostri interpretarono come un titolo mariano.

Ricci e Ruggieri non sapevano che un millennio prima, altri missionari cristiani avevano sperimentato qualcosa di simile. I monaci della chiesa siro-orientale, partiti da Baghdad, percorsero la Via della seta, luogo di incontro e contaminazione tra varie religioni, e nel 635 giunsero a Changan, la capitale della dinastia Tang (nei pressi dell’attuale Xian). Qui monaci buddisti traducevano dal sanscrito le scritture buddiste, e i monaci cristiani si fecero aiutare da loro per compilare i primi testi cristiani in cinese. I missionari siro-orientali si basavano sugli scritti cristiani in lingua siriaca che avevano portato con sé, adottando nella traduzione una terminologia di impronta buddista e taoista.

Ma torniamo alla dinastia Ming e ai missionari gesuiti: per essi l’abito buddista era l’applicazione del ‘modo soave’ introdotto in Asia orientale dal Visitatore della Compagnia di Gesù Alessandro Valignano (1539-1606), un metodo passato alla storia missionaria con il nome di ‘accomodamento’: forse l’unica eccezione umana e culturale alla brutale ed etnico-centrica espansione europea.

Il metodo dell’accomodamento aveva le sue radici nel pensiero tomista e di Erasmo da Rotterdam. Un motto dei gesuiti degli inizi affermava significativamente che “non sono loro che devono diventare come noi, ma piuttosto noi che dobbiamo diventare come loro.” Ignazio di Loyola ne codificò i principi nelle costituzioni della Compagnia di Gesù e nella Ratio studiorum del Collegio Romano (1556). Per i missionari della Compagnia l’accomodamento era lo strumento più adatto per negoziare, da missionari del vangelo, con radicali diversità culturali e religiose.

 

La via confuciana

Agli occhi della popolazione di Zhaoqing i missionari europei dovevano sembrare buddisti per davvero: venivano dall’Occidente, si rasavano la testa, praticavano il celibato e il digiuno, avevano scritture sacre e luoghi di culto. Queste somiglianze divennero causa di confusione e frustrazione. Nel 1595, Ricci per consiglio di amici cinesi e dopo averne discusso con Valignano, decise una radicale svolta: vestire l’abito del letterato, cioè entrare nel mondo confuciano. La nuova strategia missionaria è brillantemente sintetizzata nel detto del dotto convertito Paolo Xu Guangqi (1562-1633): il Cristianesimo è “compimento del Confucianesimo e opposizione al Buddismo.”

Ruggieri, che ancora credeva nella ‘via buddista’ alla missione, era nel frattempo tornato a Roma per organizzare, senza successo, una legazione del papa per chiedere ufficialmente all’imperatore il permesso di evangelizzare.

Il contenuto essenzialmente umanistico del confucianesimo costituiva una piattaforma ideale per l’annuncio cristiano. Ricci, umanista libero dal pessimismo teologico e dal complesso di superiorità della civiltà europea, apprezzò la civiltà confuciana. Nel 1609, scrivendo al vice-provinciale in Giappone Francesco Pasio, la descrisse con queste parole:

Sono anco inclinati alla pietà, se bene ad altri parerà il contrario, perché sono ito scorgendo questo a puoco a puoco. E cominciando dal principio, anticamente seguittero la legge naturale assai più intiera che ne’ nostri paesi. (…) E possiamo sperare nella divina misericordia che molti di loro antichi si salvassero nella osservanza della legge naturale, con qualche agiuto che Iddio per sua bontà gli darebbe [1].

 

Ricci ha stabilito tra il Confucianesimo e il Cristianesimo un rapporto paragonabile a quello tra cultura greco-latina e pensiero cristiano, iniziando un processo di inculturazione che aveva la stessa dignità e difficoltà dell’inculturazione nel mondo greco-latino. Egli notava che molti passaggi dei testi classici favorivano l’insegnamento cristiano. Nella lettera a Pasio sopra citata, Ricci ne dava la seguente interpretazione teologica:

Esaminando bene tutti questi libri, ritroveremo in essi pochissime cose contra il lume della ragione e moltissime conforme a essa [2].

 

Conforme alla ragione era Mencio (371-289 a.c.), che affermava che “Quando raggiungi le profondità del cuore conoscerai la natura umana, e colui che conosce la sua natura conosce il Cielo” (Libro 7, parte 1, capitolo 1). Confucio era ‘un altro Seneca’, e i Quattro Libri ‘buoni documenti morali’. Sempre secondo Ricci, fin dall’antichità i cinesi hanno creduto nel Dio creatore e trascendente, espresso dai termini della tradizione Sovrano dall’Alto (Shangdi) e Cielo (Tian).

Ricci respinse invece come immanentista e materialista il Neo-confucianesimo, la corrente filosofica allora predominante, derivata dai commentari di Zhu Xi (1130-1200), che aveva contaminato il pensiero confuciano con teorie immanentiste buddiste e taoiste. Ricci protestava contro l’alterazione del confucianesimo originale, sostenendo un ‘ritorno alle origini’ che avrebbe favorito l’accettazione e diffusione del Cristianesimo.

Il metodo dell’annuncio di Ricci

Ricci introdusse una distinzione importante nel metodo missionario, proponendo due generi letterari: il catechismo da una parte e gli scritti pastorali, in particolare la dottrina cristiana, dall’altra. Il catechismo mirava ad una rappresentazione cristiana della realtà culturale e religiosa, attraverso la trattazione dei soli temi che appartenevano, secondo la teologia scolastica, alla rivelazione naturale.

La dottrina cristiana contiene gli insegnamenti indispensabili per ricevere il battesimo e praticare la vita cristiana. Lo stesso Ricci, mentre era impegnato nella compilazione del catechismo Il vero significato del Signore del Cielo (1603), diede alle stampe la Dottrina del Signore del Cielo (1604), un testo di dottrina cristiana per catecumeni e neofiti.

Il P. Matteo, la prima cosa che fece, fu stampare una nova versione, che, con agiuto degli altri Padri aveva fatto, delle orazioni et altre cose necessarie ai novi cristiani, con agiuntione di altre cose della Dottrina Christiana (…). E mentre si faceva una Dichiarazione più copiosa di questa nova Dottrina Christiana, stampò il Padre il Catechismo (Il vero Significato del Signore del Cielo, n.d.a.). (…) Il Catechismo non tratta di tutti i misterij della nostra Santa Fede, che solo si hanno da dichiarare a’ catecumeni e christiani, ma solo di alcuni principali, specialmente quelli che di qualche modo si possono provare con ragioni naturali et intendere con l’istesso lume naturale; accioché potesse servire a’ Christiani e a’ gentili e potesse così presto arrivare i Nostri, aprendo con questo il camino agli altri misterij che dipendono dalla Fede e scientia rivelata [3].

 

Ai due generi letterari corrispondevano un duplice approccio missionario: l’apostolato indiretto e l’apostolato diretto, a seconda che gli interlocutori fossero letterati o catecumeni e battezzati. Nell’incontro con i letterati si praticava il metodo indiretto, cioè il dialogo e la disputa, secondo il modello dei classici cinesi e occidentali. Oltre che temi scientifici, etici e filosofici, le conversazioni affrontavano questioni religiose su cui era possibile una discussione razionale: l’unità e la trascendenza di Dio; l’immortalità dell’anima; il premio dei buoni e il castigo dei malvagi.

I misteri propri della fede cristiana, la Trinità, l’incarnazione e la redenzione, venivano invece proposti solo a coloro che entravano nella chiesa. I catechismi e i testi pastorali (ovvero dottrine cristiane e altri testi devozionali) non erano in alternativa, ma due parti di una stessa strategia missionaria.

La comprensione di questa distinzione, illustrata con chiarezza da Ricci, eviterebbe critiche alla missione gesuitica che si leggono in autori del passato e contemporanei. La distinzione tra apostolato indiretto e diretto, tra catechismo e dottrina cristiana, è la cosciente applicazione, da parte di Ricci e dei suoi successori, delle categorie scolastiche di rivelazione naturale e teologia apologetica da una parte; e di rivelazione positiva e di teologia dogmatica dall’altra.

L’apostolato scientifico 

 

Autori contemporanei (tra essi Jacques Gernet e James Cummins) hanno riesumato un’antica accusa a Ricci e ai gesuiti: aver nascosto il carattere religioso della loro missione. Per calcolo strategico, essi si sarebbero presentati non come missionari, ma come scienziati, in particolare astronomi.

L’indentità religiosa dei gesuiti scienziati a corte, tra cui i celebri Johann Adam Schall von Bell (1591-1666) e Ferdinand Verbiest (1623-1688), fu sempre evidente. I gesuiti, formatisi al Collegio romano, il cui curriculum includeva i più avanzati studi umanistici e scientifici del tempo, erano scienziati per formazione e per passione. Figli della incipiente modernità, che credeva nel progresso e nelle capacità dell’uomo, continuarono le ricerche scientifiche nel corso dei viaggi e delle permanenze nei vari continenti, mandando osservazioni e scoperte ai loro insegnanti, contribuendo alla produzione dei saperi.

Nella Cina imperiale, chiusa ermeticamente e sospettosa di ciò che era straniero, i missionari avevano il problema di affermare la loro credibilità. Grazie alla scienza poterono dimostrare di conoscere il ‘cielo materiale’, conseguentemente intrattenevano la speranza che fossero credibili anche quando parlavano del ‘cielo metafisico’. Per questo Nicolò Longobardo (1566-1655), il successore di Ricci, chiedeva che tra i nuovi destinati alla missione vi fossero senz’altro ottimi scienziati.

 

La controversia cristologia

Nel 1600, durante la sua ascesa a Pechino, Matteo Ricci fu fermato a Tianjin dal potente eunuco Ma Tang, funzionario del ministero dei Riti, incaricato di ispezionare coloro che venivano ammessi alla capitale. Nel bagaglio di Ricci, che conteneva i doni per l’imperatore, vi era un crocifisso. La vista di uomo ucciso trafitto da chiodi spaventò Ma Tang, il quale immaginò pratiche di magia nera. Ricci fu accusato di voler uccidere l’imperatore e tenuto prigioniero per sei mesi. Dopo un’accusa tanto grave, Ricci temeva di essere messo a morte. Solo l’intervento di amici influenti lo salvarono, ma egli rimase profondamente scosso. Si persuase che il crocifisso non potesse essere esposto pubblicamente senza necessità, in quanto era una raffigurazione ripugnante per chi non ne conosceva il vero significato, e inoltre offendeva il senso del pudore a causa della nudità di Gesù, proibita nelle raffigurazioni pubbliche.

È questa l’origine della ‘controversia cristologia,’ che ha percorso la missione in Cina insieme alla nota questione dei Riti cinesi, su cui non ci possiamo soffermare in questa occasione. Ricci e i gesuiti furono accusati da alcuni frati domenicani e francescani arrivati in Cina a partire dal 1630, e persino dagli autori contemporanei menzionati sopra, di aver ‘soppresso la crocifissione.’ Non solo avrebbero nascosto la dolorosa passione di Gesù, ma più in generale i gesuiti avrebbero taciuto il carattere ‘cristiano’ del cristianesimo, annunciando un ‘Signore del Cielo’, senza Cristo.

Ma l’accusa è infondata. Matteo Ricci, Michele Ruggieri e numerosi altri missionari, comunicarono in diverse circostanze, anche ai letterati, la storia delle sofferenze e dell’uccisione di Gesù. Era il metodo che era diverso. Ricci si confrontava con la realtà, e di conseguenza elaborava mete e strategie. Per alcuni frati mendicanti che appena giunti in Cina già predicavano sulle piazze innalzando il crocifisso la croce era il punto di partenza del discorso missionario. Il loro metodo suscitava, molto spesso, le reazioni indignate della gente e di conseguenza, l’intervento repressivo delle autorità. I gesuiti si prefiggevano invece di accompagnare ad una conoscenza progressiva di Gesù, rifacendosi allo stile orientale di trasmissione della dottrina religiosa o morale. Un maestro non rivela il proprio insegnamento con troppa facilità; lo fa quando il discepolo ne fa richiesta, e il maestro sia sicuro della sua capacità di accoglierlo. Questa era anche la pratica nei primi secoli cristiani, quando il crocifisso, la cui vista suscitava repulsione, di regola non veniva raffigurato; e l’iniziazione ai misteri cristiani era riservata ai catecumeni, che vi venivano introdotti per tappe. Per i gesuiti in Cina la presentazione di Gesù crocifisso era il punto di arrivo dell’itinerario di conversione.

Le immagini di Gesù

E a parlare di Gesù i gesuiti ci arrivavano. João da Rocha (1563-1623) nel 1619 pubblicò a Nanchino un piccolo e prezioso libretto, Il metodo del Rosario, il primo dedicato alla devozione mariana. Questo libro costituisce una tappa significativa per l’evangelizzazione in Cina perché, accanto alle meditazioni sui misteri, Da Rocha riproduce 15 bellissime immagini xilografiche in stile cinese, commissionate alla scuola di Dong Qichang (1555-1636), uno dei più importanti pittori e teorici dell’arte del tardo periodo Ming.

Anche il bresciano Giulio Aleni (1582-1649) e Adam Schall, rispettivamente nel 1637 e 1640, pubblicarono la Vita di Gesù in parole e immagini. I loro testi includevano la narrazione, la spiegazione e la raffigurazione visiva, con adattamenti in stile cinese, della passione dolorosa e della crocifissione di Gesù.

Furono i primi, e purtroppo anche gli ultimi, esempi di adattamento della rappresentazione visiva cristiana nella missione moderna in Cina. Il processo di inculturazione della visualità cristiana fu l’ennesima vittima della controversia dei Riti. Solo grazie a Celso Costantini (1876-1958), delegato apostolico in Cina a partire dal 1922, nacque a Pechino una scuola d’arte autenticamente cristiana e cinese allo stesso tempo.

 

Gesù prefigurato nell’antichità cinese

Giulio Aleni, autore di numerose e importanti opere, tra cui tre raccolte di dialoghi con interlocutori cinesi, si ispirò alla metodologia di Ricci mostrando una ‘via cinese’ per parlare di Gesù. Il suo libro Introduzione all’Incarnazione del Signore del Cielo (1635), fu il primo trattato di cristologia cinese. In esso, riportando il dialogo con un letterato, Aleni risponde alla seguente domanda: perché Gesù ha dovuto soffrire?

Aleni evita ragionamenti teologici, e racconta la storia del leggendario imperatore Cheng Tang (1766-1753 a.c.), il primo della dinastia Shang. Durante il suo regno vi fu una grave carestia. Divenne persuasione comune che le sofferenze del popolo sarebbero terminate solo attraverso un sacrificio umano. L’imperatore volle sacrificare la sua vita per il popolo. Digiunò, si taglio i capelli, confessò i suoi peccati, e si offrì come vittima per placare il Cielo. In risposta venne la pioggia e la carestia finì.

Cheng Tang, imperatore, cioè figlio del Cielo, ha svolto la sua funzione sacerdotale in favore del popolo. Per Aleni diviene pre-figurazione di Gesù. Un esempio comprensibile agli ascoltatori e lettori per comunicare un messaggio difficile come la Passione.

 

La questione terminologica

Un giorno in cui Ricci e Ruggieri si erano assentati da Zhaoqing, un convertito scrisse due caratteri cinesi presso l’altare: Tian –Cielo-, e Zhu –Signore-. Ricci e Ruggieri furono entusiasti: sarebbe stato il nome cristiano di Dio, accanto ai classici Cielo (Tian) e Sovrano dall’Alto (Shangdi). I missionari credevano fosse un neologismo, in realtà questo termine, seppur raramente, appare in testi buddisti e taoisti. Se lo avessero saputo, credo, non lo avrebbero adottato. Dal quel giorno, eravamo nel 1583, il cattolicesimo è conosciuto come la religione del ‘Signore del Cielo.’ Nel 1603 Ricci pubblicherà il più importante libro nella storia del Cattolicesimo in Cina, il cui titolo è appunto: “Sul Vero Significato del Signore del Cielo”.

Dopo la morte di Ricci, João Rodrigues (1561-1634), Nicolò Longobardo, e pochi altri, dissentirono dalla scelta di Ricci. Rodrigues veniva dal Giappone, dove Francesco Saverio (1506-1552) aveva compiuto un serio errore nel designare Dio adottando il termine Dianichi. Il Neo-confucianesimo loro contemporaneo, affermavano, era immanentista e materialista, di conseguenza i termini Sovrano dall’Alto (Shangdi), Cielo (Tian) e persino Signore del Cielo (Tianzhu) non avevano un significato trascendente e metafisico. Essi proponevano l’introduzione della forma latina Deus. Ma la gran parte dei missionari e dei cristiani, in particolare ‘le tre colonne’ Paolo Xu Guangqi, Michele Yang Tingyun (1557-1627) e Leone Li Zhizao (1565-1630), sostennero le scelte di Ricci, e si opposero al termine Deus in quanto insensato e impronunciabile in cinese. Anzi missionari e cristiani mutuavano dalla tradizione confuciana anche altre espressioni suggestive per dire Dio, tra le quali Grande padre e madre, e Vera origine di tutte le cose, che non abbiamo qui spazio per analizzare.

Anche attorno a questo argomento vi fu una lunga e accanita polemica, su cui la Santa Sede fu chiamata a pronunciarsi. Nel 1704 Clemente XI prescrisse che solo il termine Signore del Cielo fosse conservato, e tutti gli altri abbandonati. Questa è tuttora la terminologia impiegata dai cattolici cinesi, mentre i cristiani protestanti, giunti in Cina nel secolo XIX, hanno adottato il termine Sovrano dall’Alto (Shangdi).

 

Liturgia in lingua cinese

C’è un altro episodio circa l’accomodamento che merita di essere ricordato. Longobardo, successore di Ricci, ottenne da Paolo V nel 1615 il singolare permesso di impiegare il cinese nella liturgia. I missionari si misero all’opera per tradurre in cinese i testi liturgici, impresa niente affatto facile, anzi su cui c’erano diversità di opinione. I disordini dovuti al cambio dinastico (1644) allungarono i tempi. Una volta che i testi erano finalmente pronti, i gesuiti chiesero la conferma del privilegio. Ma nel frattempo era scoppiata la controversia dei Riti, il metodo dell’accomodamento era caduto in disgrazia, e la Santa Sede si rifiutò di confermare il permesso di Paolo V. I gesuiti non si diedero per vinti, ed inviarono a Roma, per quanto inutilmente, memorabili appelli (1672 e 1695) che costituiscono fra le pagine più interessanti di storia del pensiero missionario.

La polemica contro il metodo dell’accomodamento raggiunse toni assai aspri, contribuendo a ripetute e severe condanne dei Riti cinesi (1645, 1704, 1715 e 1742); alla conseguente rovina della missione cinese e alla stessa soppressione della Compagnia di Gesù (1773). Nel 1939 Pio XII, con un provvedimento che ribaltò le decisioni precedenti, affermò invece la liceità dei Riti. Giovanni Paolo II pronunciò più volte la solenne riabilitazione dell’opera e del metodo di Ricci (in particolare nel 1983 e nel 2001).

 

La via dell’amicizia: una lezione per l’oggi

Il primo, e fortunato, libro di Matteo Ricci fu il trattato Sull’Amicizia (1595), scritto su richiesta di un amico letterato. Esso è il manifesto del suo programma missionario. Ricci non voleva entrare in Cina con la forza, come accadeva nelle conquiste coloniali del tempo. Egli prese le distanze dalla politica e dal commercio di Macao. Ricci si impegnò a fondo per formare il clero cinese, senza successo però, a causa di un radicato pregiudizio durato troppo a lungo nella chiesa.

Ricci, libero da atteggiamenti di odiosa comparazione, vedeva nella civiltà cinese una opportunità per l’evangelizzazione, e introdusse la Cina all’Europa, inventando la romanizzazione dei caratteri, descrivendo la geografia, la storia, la cultura e la civiltà nel suo diario Dell’entrata in Cina della Compagnia di Gesù (1610), e in numerosi altri scritti e lettere giunte in Europa.

Nel valore dell’amicizia, l’umanesimo confuciano e l’umanesimo cristiano avevano trovato un primo e prezioso punto di contatto. L’amicizia, una delle cinque relazioni confuciane, era apprezzata nella società dei Ming come valore morale e sociale, basato sulla volontarietà e partecipazione dell’individuo alla vita della comunità, al di là dei vincoli familiari e di classe. Ricci non poteva non sentirsi ‘a casa sua’ tra persone di cultura, amanti della filosofia e della scienza, con le quali aggregarsi in circoli e discutere con rispetto.

Oggi come allora, siamo di fronte ad una sfida generata dal contatto tra culture e religioni prima distanti. Oggi come allora l’alternativa allo scontro e alla violenza è quella del dialogo e dell’incontro. Il fondamento ultimamente autorevole che sostiene la possibilità dell’incontro con la diversità è la fiducia nella ragione umana. Ricci riconosceva alla cultura cinese di “conformarsi al lume della ragione”, affermando così la possibilità dell’incontro nel segno dell’universalità dello spirito umano. Grazie all’accomodamento aprì all’evangelizzazione la porta di una civiltà rimasta chiusa per secoli.

Una porta che, come disse Ricci al momento della sua morte, era appena dischiusa, e che richiedeva ancora molte fatiche e travagli. La stessa morte di Ricci, avvenuta a 57 anni, fu dovuta alla fatica per i suoi innumerevoli impegni. Oltre a scrivere impegnative opere in cinese e in italiano, era impegnato in una fitta corrispondenza con amici cinesi ed europei. Nelle settimane precedenti la morte, avvenuta il 11 maggio 1610, a Pechino erano confluiti diecimila candidati all’esame di stato per entrare nella burocrazia imperiale. Erano il fior fiore culturale della Cina. Molti di essi conoscevano la fama di Ricci, o ne avevano letto una delle numerose opere. Numerosi tra loro non vollero rinunciare a visitare lo dotto straniero, uno dei personaggio più famosi di Pechino. Ricci non solo li accoglieva con i dovuti rispetti, ma come richiedeva l’etichetta confuciana, restituiva le visite. Fu questo sforzo enorme che lo portò ad una improvvisa fine. Matteo Ricci fu solo non un profeta, ma anche un martire dell’amicizia e del dialogo.

 

Gianni Criveller

Missionario del Pime e docente di teologia

Hong Kong, 11 Marzo 2007

SOMMARIO

Nell’articolo vengono descritte le tappe dell’azione missionaria di Matteo Ricci, un’ascesa verso Pechino, attuata secondo il metodo dell’accomodamento. Dopo i primi anni vissuti da ‘buddista’, Ricci scelte la via ‘confuciana’, più confacente alla sua formazione umanistica. Ricci introduce la distinzione tra l’insegnamento della rivelazione naturale, accessibile mediante la ragione; e la dottrina cristiana vera e propria, cioè la spiegazione delle verità specifiche del cristianesimo, come l’incarnazione e la redenzione, da presentarsi solo a coloro che volevano ricevere il battesimo. I cinesi venivano così introdotti al mistero di Cristo in modo graduale, e per quanto possibile, in relazione alla loro cultura. Ricci e i suoi successori, attuarono la missione nel segno dell’amicizia e del dialogo, offrendoci un modello e una lezione validi anche per noi oggi.

 

NOTA BIBLIOGRAFICA

Alcune letture disponibili in Italia sull’opera di Matteo Ricci e dei gesuiti nella Cina del XVI-XVII secolo.

 

opere di matteo Ricci (1552-1610)

Storia dell'introduzione del cristianesimo in Cina, in Fonti ricciane, 3 volumi, a cura di Pasquale D’Elia. La Libreria dello Stato, Roma, 1942-1949.

Lettere, a cura di Francesco D’Arelli. Quodlibet, Macerata, 2001. 

Dell'amicizia; a cura di Filippo Mignini. Quodlibet, Macerata, 2005.

Il vero significato del Signore del cielo, traduzione e cura di Alessandra Chiricosta. Urbaniana Press, Città del Vaticano, 2006.

 

OPERE SU RICCI E I GESUITI

Filippo Mignini, Il chiosco delle fenici. Il lavoro editoriale, Ancona, 2005.

Michela Fontana, Un gesuita alla corte dei Ming. Mondadori, Milano, 2005.

Giulio Andreotti, Un gesuita in Cina. Rizzoli, Milano, 2001.

Gianni Criveller, Preaching Christ in Late Ming China. Fondazione Civiltà Bresciana, Bresca, 1997.

Gianni Criveller, Maschere e volti della Cina di oggi. EMI, Bologna, 2001, da pp. 135-184).

Gianni Criveller, “La controversia cristologica nella missione moderna della Cina”, studio in due parti in Archivio Teologico Torinese, Ellenici, Torino. Anno 10, 2004, pp. 111-129; anno 12, 2006, pp. 208-224.

 

SUL CRISTIANESIMO SIRO-ORIENTALE IN CINA

Matteo Nicolini-Zani, La via radiosa per l’oriente. Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose,


[1]Matteo Ricci, Lettere, Macerata 2001, p. 518.

[2] Ibid., p. 518.

[3] Matteo Ricci, “Della Entrata del Cristianesimo in Cina” in Fonti Ricciane, vol. 2, pp. 289-293, Roma 1942-1949.


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